BISBETICI DOPATI VOL.2, THE WOLF OF WALL STREET

Approcci. Il cinema è solo questione di prospettive e approcci. E magari, dunque, svariate visioni del mondo. Tutto il resto non è costituito da altro se non da implicazioni successive. Non tanto ciò che si vuol comunicare quanto piuttosto come la si comunica rappresenta la discriminante tra le varie opere cinematografiche che trattano identiche tematiche. E il Male, si sa, è molto più arduo descriverlo. Perché è così lucidamente sfaccettato, così razionalmente ricco di spigolature che merita ed esige differenti approcci narrativi per tentare di svelarne almeno una parte. Si è confabulato nel primo volume di questa disquisizione sul mondo economico (visto dal basso della nostra esperienza da ignari comuni mortali) de Il capitale umano di Virzì. Si è evidenziato come il regista italiano abbia abiurato volontariamente ogni tentativo di addentrarsi completamente nel diabolico mondo dell’alta finanza e di raccontare la storia dal punto di vista dell’inavvicinabile personaggio di Gifuni, nonostante il film dimostri comunque un notevole tasso di impegno socio-civile che si arresta in quel solco segnato per un pubblico non troppo pretenzioso ma neppure lassista. Ma ci sono registi che per storia e tradizione hanno una missione: guardare da vicino. E l’oggetto dell’indagine è in questo caso un’America così tronfia e incondizionatamente orgogliosa di sé da non accorgersi di essere claudicante dalla nascita. L’asse si sposta insomma da un’Italia già troppo vituperata e maledetta di suo ad un’America mai paga di adulazioni fuori luogo e degna di una perpetrata invettiva. E il nuovo approccio narrativo, come detto più analitico e pignolo, che non teme nulla e non ostenta paure tematiche reverenziali ma che, sprezzante e politicamente scorretto, esplicita l’inesplicabile, è quello di Martin Scorsese.

“Bello, ma…” e “va bene, però…” sono state le principali e più quotate parole incipitarie di ogni recensione più o meno accreditata. Ma ogni condanna incondizionata nei confronti dell’ultima fatica di Scorsese, The wolf of wall street, è punibile con la fustigazione, poiché l’oggetto delle critiche è quasi sempre corrispondente proprio a ciò che rende grande l’opera. Per carità, soffre anch’essa di lacune (per via, per esempio, di cincischiamenti eccessivi sugli effetti speciali, come nella sequenza della tempesta a mare) ma, piuttosto, le si attribuiscono i difetti più strampalati, quali la presunta durata eccessiva o il fatto che per tre ore il buon vecchio Martin rigiri la stessa minestra nauseabonda. Ma premettendo (come fosse il Verbo, l’ineluttabile e fondamentale testimonianza di fede cinematografica) che non è scritto in nessun codice civile che si debba realizzare un film della durata massima di novanta minuti, deduciamo che la critica cinematografica deve saper contestualizzare e comprendere l’approccio di un regista sui temi trattati. Quest’ultimo aspetto è il più rilevante in quanto l’apparente simpatia nutrita da Scorsese nei confronti del personaggio interpretato da Di Caprio farebbe erroneamente pensare, se non ad un film apologetico, comunque ad un film “ammiccante” riguardo la mostruosità dell’alta finanza. Ma è proprio la durata, con la sua estenuante presentazione di identiche situazioni in ogni scena, a far (s)cadere il personaggio agli occhi dello spettatore. Se fosse dunque durato un’ora e mezza saremmo stati compiaciuti del sistema su cui si indaga nel film. Ma non è questa la sensazione finale che riesce a descrivere un mondo deludente e illusorio, pur mantenendo la narrazione sopra le righe, nient’affatto melensa né tantomeno pateticamente ribaltatasi nel finale. Eh già, nulla sembra cambiare né stupefacentemente sconvolgersi nel mondo selvaggio e cannibalesco della finanza. Nessuno si redime insomma, perché quella sarebbe magari la vera contraddizione, il reale paradosso. Ecco prendere forma l’imperscrutabile e tremendo buco nero (se ne parlava nel primo capitolo) in cui il protagonista entra da broker per vendere prima azioni spicciole a persone spicciole, poi azioni più o meno spicciole a persone più o meno grandi (il che rende la sua attività, come vedremo, antropologicamente più accettabile). Chi vi entra non ne esce più, almeno non completamente. La forza di attrazione che il denaro esercita (magari verso tutto il mondo fatiscente rappresentato, non necessariamente dal punto di vista strettamente pecuniario) sembra surclassare persino le dinamiche e le leggi della gravitazione universale. Certo, qualcuno potrebbe leggere in ciò un’evidente contraddizione visti i 100 milioni di budget di cui il film disponeva. Parlare di speculazioni azionarie con una produzione del genere potrebbe apparire un po’ come inveire contro l’estinzione del cervo rosso il giorno dell’apertura della caccia con un fucile a doppia canna in mano. Ma il cinema di Scorsese va inserito in quell’ambito di codominio tra il cinema di genere (spesso ormai di maxiproduzione) e il cinema autoriale. Convivenza molto più tradizionale e assodata nel cinema americano che non in quello italiano e per noi dunque inaccettabile e incomprensibile. Ma c’è comunque modo e modo di gestire un alto budget e sicuramente Scorsese lo sa fare come pochi, investendo tutto quel denaro per i più nobili dei propositi. Perché è “relativamente facile” attaccare il sistema finanziario di Wall Street dall’esterno, magari dal mondo della cinematografia indipendente. Ma l’audace ostinazione è propria di chi, malgrado lo possa fare, dopo anni e anni di carriera, non prostituisce i propri ideali di impegno cinematografico e riesce a far implodere dall’interno lo stesso sistema che critica, pur godendo dei vantaggi che esso offre. In puro stile americanissimo (dalla sua solita “lucida e geniale frenesia” nelle riprese, nel montaggio e nei dialoghi serratissimi, il tutto sempre ad un ritmo elevato e quasi convulso, fino a quelle interpretazioni così perfette da sembrare paurosamente e maledettamente reali) Scorsese sembra scimmiottare l’America stessa, rendendola una macchietta che brama per ogni tipo di droga(-ossessione): il denaro, che introduce al mondo delle sostanze stupefacenti che introducono al mondo della ninfomania maniacalmente compulsiva. Le miriadi di dollari sbattuti in faccia allo spettatore in ogni sequenza non sono fini a sé stessi, bensì rappresentano un diapason che dà il “la” ad un altro mondo che il denaro è riuscito ad acquistare facilmente. Ma questo nuovo stile di vita (che è un vezzeggiativo definire dissipato), barattato per mezzo del denaro con quello precedente, è, questa volta sì, fine a sé stesso. Oltre il sesso sfrenato, le belle auto e la sperimentazione sui propri corpi-cavia di tanto bizzarre quanto sconclusionate droghe non c’è nulla. Non vi è timore di un collasso economico se non apocalittico (Cosmopolis, di cui tratteremo nel prossimo capitolo) comunque nazionale (Il capitale umano). Tutto è piuttosto filtrato da occhi disincantati, sfrenati, babbioni anche se furbastri, infine fessi, anche se ricchi. E nella sua insensatezza di fondo, nella sua infunzionalità narrativa, questo film svela che proprio tali sono le peculiarità dello stesso mondo descritto, insensatezza e infunzionalità. L’economia nera dei porci grossi dimostra di essere abbordabile persino da semplici arrivisti medio-borghesi da strapazzo, i quali giochicchiano promettendo ai clienti soldi che non esistono se non virtualmente (lo spiega benissimo McConaughey nel fantastico dialogo con un ancora ingenuo Di Caprio), per poi agguantare, loro sì, soldi reali. Ma a tratti sembra trapelare nel film una sorta di relazione empatica verso quel povero broker rimbecillito da un mondo che gli sta un tantino grande. Si arriva dunque a pensare che il personaggio di Di Caprio sia il vero sconfitto (inter pares) del film, al di là del tradimento finale dell’amico. Forse perché il suo personaggio subisce un’evoluzione, per così dire, “socialistica”, tramutandosi da lupo sbranatutti a una sorta di Robin Wood della finanza moderna. Il suo atteggiamento insolente, forgiato su quello del suo mentore interpretato da McConaughey, sembra sfumare a favore dei piccoli risparmiatori e accanirsi contro quegli individui economicamente davvero influenti. Ma tutti i personaggi dimostrano però in maniera indistinta come qualunque persona si voglia arricchire riesca a farlo eludendo il controllo statale. Non perché facilmente eludibile. Non perché fittizio. Perché assente! La vera causa di ogni collasso economico dell’Occidente, sembra tuonare Scorsese, è il fallimento, istituzionalmente parlando, della nozione di Stato, dal momento che prima che quest’ultimo si renda conto della degenerazione acuta provocata da agenzie private o speculazioni varie, la frittata è già bella che servita. Lo spietato laissez-faire mostra di essere andato alla deriva già da tempo in un circuito di “spennamenti” più o meno legittimi ma spesso paradossalmente legali. E si sfiora il paradosso allorquando la beneamata patria permette di spolparsi pure gli ossicini dei poveri risparmiatori e interviene solamente con accuse molto pretestuose di frode fiscale quando si toccano gli intoccabili. E se ne Il capitale umano Gifuni investiva sul tracollo delle azioni, il ruolo dei protagonisti di questo film è venderle. Vendere monnezza insomma. Azioni cioè talmente al ribasso da meritare una dote oratoria degna del miglior logografo dell’antica Grecia al fine di far credere agli investitori che siano invece foriere di proficui guadagni. Ricordate Wanna Marchi, la tizia che raggirava quei poveri disgraziati in tv facendo loro credere di essere marziani sulla Terra? Bene, tutti i brokers del film sono delle Wanna Marchi, delle defecazioni incondizionate, che molto “sofisticamente”, per così dire, convincono povere vittime a fare ciò che non dovrebbero logicamente fare. Persino Di Caprio, dunque, in quest’ottica, merita la dannazione eterna perché consigliere fraudolento e traditore del prossimo, fine dei giochi. Ricco o povero che sia, senza alcuno scrupolo di coscienza. Ecco l’America! “This is the way”, sembra cantare il protagonista del film. “The american way”, diremmo noi. Tutto il resto è solo contorno di radicchio. Dal popper alla mescalina, dalle anfetamine a farmaci psicotropi e paralisiferi, dalla cocaina al “wild sex” (fino ad approdare al “wild sex” con annessa cocaina, che è il massimo!). Tutto atto ad offuscare la madre di tutti i problemi: quella nebulosa che si chiama stato. E nel film l’unica presenza politico-statale è quella fumettistica e caricaturale bandiera a stelle e strisce che il buon Martin è solito ostentare in ogni suo film in funzione naturalmente antifrastica (da quella dell’atavica e già sanguinaria America di Gangs of New York a quella delle metropoli solitarie e schizoidi di Taxi driver). E anche in questo film i personaggi agiscono, si arricchiscono, si strafanno, si tradiscono reciprocamente “in the name of the USA”.

In quest’ottica, dunque, fatta di pugnalate alle spalle e miserrimi sciacallaggi, di spregiudicata lotta per la sopraffazione (enonomica e non solo) e continue competizioni al fine di appurare chi ce l’abbia più lungo, Di Caprio sembra quasi giustificato nell’impiegare parte del suo prezioso tempo in puerili e folli scorribande. Semplicemente si gode come può il denaro che ha strappato di tasca a qualche modesto risparmiatore (secondo legge) o a qualche titano (a questo punto in modo fraudolento). Non fa altro che infliggere all’America continui colpi che questo stato merita e che la sua economia nazionale consente di fare, fine della storia. Ed è giustificato proprio dall’immane quantità di denaro che lo circonda. Perché una volta che lo si ha, sembra volerci dire Scorsese, questa è l’unica opzione che si prende in considerazione: spararseli come fossero birra fresca d’estate. Converrebbe non averli? Sicuramente non averne troppi, se sempre si riuscisse a non divenire schiavi delle lusinghiere sirene dell’universo pecuniario (basterebbe per prima cosa riattaccare il telefono quando un broker qualunque dovesse tentare di propinarci questa o quell’altra azione). Perché il denaro è un treno da prendere in corsa, solo andata. Destinazione buco nero.

Gabriele Santoro

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