LA DIMORA DEL GENERE

Si dia al cinema quel che è del cinema. Senza fronzoli o sperequazioni varie. Perché, tacciata com’è di essere la forma di arte più infima che ci sia (e ammesso che sia arte, onestamente), per lo meno le si consegni ciò che più rientra nel suo diretto dominio. Migliaia di volte sentiamo dire (e non si necessita di attestati di un qualche centro sperimentale di cinematografia per capirlo) che certi film vanno visti al cinema, solo lì, per apprezzarne la totale integrità formale. Niente di più vero. Poi c’è altro, c’è del cinema che, dall’alto della sua potenza contenutistica ma anche estetica, riesce ad impressionare anche su un 12 pollici. Ma questa è un’altra storia. La nostra disquisizione di oggi verte su quel calderone che approssimativamente ma coerentemente coi contenuti chiamiamo spesso “cinema di genere”. È chiaro dunque che più che in ogni altro caso proprio il genere risulta congruente con il ragionamento sopra esposto. E se vi sono registi che partendo dal genere se ne discostano sempre più rendendolo funzionale ad una suprema autorialità (Cronenberg, Carpenter, Scorsese), esistono pure addetti ai lavori che un certo leitmotiv della propria cinematografia lo mantengono sempre all’interno del genere stesso di appartenenza. Sperimentando sfumature diverse magari, ma senza mai davvero sconfinare in campi altri. È il caso del regista del giorno, punta di diamante del cinema di genere italiano nel mondo. Riconoscente verso i mostri sacri del cinema passato e per questo a sua volta riconosciuto come mostro sacro dai posteri. Stiamo parlando di Sergio Leone. Di lui si è detto tanto, troppo forse. Proviamo a dire qualcosa, senza troppe pretese, pure noi.

Ogni generazione di cinefili ha la sua condanna, una pena da scontare. Che sia quella di vivere nell’epoca delle “americanate” più americane del solito, pregne di colori sgargianti e sovraesposti ed effetti speciali zoticoni o che sia quello di non aver potuto vedere al cinema i film di genere del passato, spolpati e rispolpati tuttavia in videocassetta. Ma, per chi non se ne fosse accorto, viviamo nell’epoca della semplificazione estrema, dell’annichilimento dei vincoli (necessari!) temporali e del rilancio di qualche moda vintage che sa più di accattivante e ruffiano servilismo nei confronti delle masse che di spontaneo ritorno ad un passato genuino. Allora ecco che il supporto digitale si erge incautamente a garante dei desideri della nostra generazione, catapultandoci in una dimensione passata e forse già scaduta, che sarebbe piuttosto opportuno lasciare riposare in pace al fine di non dissacrarla. Detto questo, però, alla notizia che vi fosse nuovamente al cinema un cult come Per qualche dollaro in più non ho saputo resistere e sono corso a vederlo. Se non fosse stato riproposto, sia chiaro, avrei continuato a mangiare serenamente pane e cipolla come sempre e c’avrei dormito su lo stesso, magari invidiando mio padre che lo aveva visto al cinema, ma nulla di più. Ma il cinema è cinema! E sentire quella colonna sonora fischiettata, arguta, rockeggiante e beffarda in una sala cinematografica ha tutto un altro gusto. Tutto sembra molto più coinvolgente, avvolgente, persino credibile. Il cinema assume insomma dei tratti onirici, nel senso che al suo interno decade ogni logica precostituita e sembrano vigere regole altrimenti aliene. In questo contesto si inserisce naturalmente la Trilogia del Dollaro. Costituita da film innovativi nello stile, nella messinscena, nel racconto. E naturalmente nell’impostazione di base dello stesso genere di appartenenza, il Western. Ma film pure, per certi versi, assurdi, terribilmente sopra le righe se non addirittura grotteschi. Film che forse peserebbero ad un amante del realismo spietato nel cinema, perché spesso caricati, prolissi sino all’esasperazione, inverosimili. È vero, gli abiti, il trucco, la scenografia e le stesse inquadrature rimandano ad un realismo estetico opportunamente esibito, che attenua le apparenti spigolature della sceneggiatura. Ma viene comunque difficile credere che vi siano persone al mondo, soprattutto nel “lontano” West, che per spappolarsi le budella aspettino la fine della musica di un orologio da taschino. Che spendano la maggior parte delle giornate a dimostrare quanto bene sappiano sparare puntando i cappelli altrui. Che indispettiscano un fuorilegge accendendo sulla sua gobba un fiammifero. Che abbiano sempre, ma proprio sempre pronta una battuta perfettamente incastrata a mo’ di sentenza biblica. È chiaro che il genere non possa prescindere dalla visione sorda, “buia”, insudiciata ma discreta in una sala cinematografica. Visione altrimenti imbarazzante, persino superflua. Ma questo vale per il genere in senso stretto, naturalmente. Quando esso infatti sconfina, come anticipato, in campi limitrofi e si sublima al fine di veicolare un messaggio diverso, magari socialmente impegnato, il cinema tende a perdere la sua portata estetica ed estetizzante e diviene semplice ma nobilissimo medium. Ma vi è un film di Leone che riesce a conciliare entrambe le concezioni di cinema. Doppio indizio: si parla di un treno da costruire e c’è una proverbialmente perfetta Claudia Cardinale. Perché C’era una volta il West è il capolavoro assoluto di Leone, stando al criterio sopra esposto. Estetica ed etica, per così dire, perfettamente miscelati a creare un ritratto commovente, dunque sublime (non solo bello!) di un Occidente proiettato al progresso ma dimentico di un passato occulto e occultato, di sangue, infamia e oppressioni. Anche qui la sala cinematografica riesce a consegnarci un film che la tv di casa renderebbe forse sottotono ai più, ma nello stesso tempo Leone si serve di una messinscena perfetta e “di genere” per realizzare questa volta il film forse più politico (insieme a Giù la testa), per certi versi agli antipodi rispetto alla Trilogia precedente. Infatti, nonostante lo stile, i movimenti di camera e gli espedienti narrativi siano simili a quelli dei film con Eastwood (dai voluti cali di tono per poi improvvisamente far schizzare il film ai frequenti flashback dei protagonisti che svelano il loro misterioso passato), le musiche, le atmosfere e i personaggi sono molto più spossati, sgonfi, meno posticci, sofferenti e malinconici quanto mai. Il genere western comincia ufficialmente ad acquisire un senso. Solamente adesso.

Sospensione del giudizio. Epochè, la chiamavano i Greci. Sottoporre a rianalisi critica i grandi classici o in generale il sapere già acquisito e apparentemente inamovibile ed eventualmente rivalutarlo è dovere intellettuale di tutti. Il rischio per chi non lo fa è quello di assimilare passivamente ma inconsapevolmente un tipo di cultura. In campo cinematografico ciò è quanto mai vero. Perché se Leone è un genio, un talento indiscusso, bisogna almeno sapere perché lo sia, ammesso che lo sia. Lo è, senza dubbio. Ma, come detto, il vero Leone, libero da vincoli di mercato e botteghino, libero dalla schiavitù del compiacimento delle masse e dalle prerogative insuperabili che il genere a volte impone, è quello post – Trilogia. Un mio amico, alla notizia del restauro digitale dei tre film, saggiamente mi disse su questi ultimi: “Niente di più americano”. Già, perché, a parte qualche personaggio (Tuco o il terribile Indio), vi sono poche impronte, per così dire, “progressiste” in questi film. Anzi, come qualsiasi altro discreto western, almeno relativamente al soggetto, notiamo carenza di contenuti. Viene senza dubbio rappresentato un mondo di violenza e compiacenza della stessa, che comprende che per raggirare l’ipocrisia deve per lo meno fare di necessità virtù e rendersi avvezzi al sangue anche per lavoro, attraverso i cacciatori di taglie (l’America fondata sugli stermini operati dai cosiddetti pionieri ha portato già a termine il suo mandato e c’ha pure preso gusto). Ma niente di più. A livello contenutistico questa già di per sé sfumata critica ad una neonata nazione diviene ancora più labile allorquando entra in gioco una straniante e ambigua ironia tra le gesta di Eastwood, Volonté, Wallac, Van Cleef, Rabal e compagni. Straniante perché rende quasi legittimi i “mezzogiorni di fuoco”, tutti i superflui spari e le stragi di uomini fatti fuori come fossero noccioline, creando una sorta di disorientante ammiccamento nei confronti del pubblico verso tutto quel sangue sparso gratuitamente. Il tutto portando un’ironia di fondo facilmente fraintendibile e una musica non di certo struggente proprio dalla parte di pistoleri da strapazzo. Potremmo azzardarci a dire insomma che Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto e il cattivo (anche se in minor parte) sono quasi interamente “puro genere”, con una netta tendenza a mostrare disumanità tra i protagonisti, dipingendoli ciononostante in modo positivo. Ma allora questa trilogia non serve a nulla? Assolutamente no, altrimenti non si sarebbe definita, sin dall’inizio, cult. La sua è una schiacciante portata estetica. La valenza cinematografica di questi tre western sta infatti nella totale rivoluzione tecnica e stilistica del genere. Ai vecchi visi, imbellettati, puliti, sempre tirati a lucido e poco spontanei di reazionari alla John Wayne fanno da contraltari quelli naif, malconci, sudaticci, luridi e orripilanti della nuova generazione western (è un po’ lo stesso lavoro intrapreso da Pasolini quando realizzò Il vangelo secondo Matteo, stando giustamente ai canoni di bellezza di duemila anni fa). Se la sceneggiatura sembra apparentemente, come detto, un po’ troppo su di giri, la regia è quanto meno perfetta. Senza minimamente strafare, Leone sfoggia virtuosismi di camera e chicche di montaggio che elevano il genere a mestiere da vero e talentuoso artigiano (e artista) del cinema. A doverosi momenti di stallo fanno da contraltare sequenze di bellezza registica mai barocca che rasenta il delirio estatico (tra tutte quella del duello finale tra Volonté e Van Cleef in Per qualche dollaro in più, con un montaggio frenetico e riprese di dettagli al fulmicotone, presenti anche nel triello finale de Il buono, il brutto e il cattivo). L’immenso genio di Leone si erge anche quando, in fin dei conti, inserisce episodi e situazioni all’interno della sceneggiatura che non rendano affatto sgradevole la pellicola, di per sé già pericolante in potenza. Un esempio tra tanti quello della foga che Van Cleef mostra nel voler uccidere a tutti i costi Volonté, reo quest’ultimo di aver ucciso sua sorella anni prima. La vendetta diventa l’unico e, paradossalmente, indiscusso movente dell’uccisione dell’Indio, personaggio sì sgradevole, ma combattuto e scisso, che non merita, al di là del delitto di cui si era macchiato, trattamenti peggiori rispetto agli altri personaggi del film, tra cui lo stesso Eastwood, il più ingordo di denaro. Il West e l’America tutta della trilogia (come il West per antonomasia in realtà) è un eterno “luogo del delitto”, in cui il Male diabolicamente inteso perpetra la sua immagine dalle origini sino ai nostri giorni, i giorni di un’ennesima e quanto mai tragica e stucchevole guerra dichiarata all’Iraq. E tra le righe Leone sembra voler far intendere come l’Eastwood di Per qualche dollaro in più sia il prototipo dell’Americano medio che sarà, pronto a elargire generosamente proiettili per appena trenta denari. Odioso e presuntuoso quanto mai, se si assiste alle sue vicissitudini da un televisore di casa, senza poter apprezzare in toto il piano tecnico del film, si rischia di farsi piacere la sua etica comportamentale, ridendo magari ad una sua battuta. C’è un Leone dunque critico e solenne (C’era una volta il West) e uno critico ma immerso nel genere e in una compiacente ironia.

E naturalmente questi due versanti hanno costituito nel tempo due filoni completamente diversi del genere. L’Eastwood regista, per esempio, ha optato da sempre per un western molto più autoriale e discreto, mai sopra le righe, introspettivo e realista. Da Il cavaliere pallido fino a Gli spietati ha sempre messo in scena personaggi combattuti e intrisi di una certa po-etica, non di certo epici e magniloquenti come il capolavoro di Leone, ma non per questo ad esso inferiori. Proprio Gli spietati rappresenta, probabilmente, il più struggente e poetico western della storia, ed è un peccato che la nostra generazione non lo conosca e abbia invece apprezzato Django di Tarantino. A proposito, quest’ultimo rappresenta invece la “caricatura pop” (dalla potenza visiva indiscutibile ma un tantino troppo barocca) del filone leoniano immerso totalmente nel genere. Non è un caso che abbondino citazioni stilistiche, di sceneggiatura e sonore, ma risulta essere un western che sconfina pericolosamente nel post-post-moderno (sia chiaro, post-moderni erano, in fin dei conti, già i western leoniani), con musiche a volte improponibili e anacronistiche. Ad un finale pirotecnico che sembra promuovere Django a unico eroe del film (anziché relegarlo, insieme al resto dei personaggi, ad una massa uniforme di antieroi, assassini e fuorilegge) si oppone un finale ne Gli spietati in cui la vendetta sembra condannare il protagonista alla vita, nuovamente monotona, in un’ancora più spiazzante solitudine. E lo scatto che distingue un western piacevole come quello di Tarantino dal capolavoro di Eastwood è proprio la totale assenza della componente grottesca del secondo rispetto al primo. L’ironia ne Gli spietati (come del resto in C’era una volta il West) è solo interna ai personaggi, qualora la si trovi, non è scritturata o sceneggiata, non è espressa dai toni colloquiali e non pesa affatto. L’ironia in Django (come del resto quella di Per qualche dollaro in più, per esempio) appartiene invece al genere e rende tutta la pellicola molto grottesca e fumettistica (il sangue “pulp” e sovraesposto e i voli esorbitanti dei personaggi bersagliati da Django ne sono una conferma). Puro genere in Tarantino e omaggio ad esso contro autorialità nel genere in Eastwood. Stesso padre, Leone. Figli diversi.

Ciò che si consiglia in questa sede è di vedere tutti i film di genere (ma proprio tutti, da Tarantino a quella latrina di Bay) in una sala cinematografica, il suo habitat naturale insomma. Perché snobbare il cinema inteso come luogo deputato alla visione significa mandare al diavolo la tradizione prediletta dai nostri padri, e dai nostri nonni prima di loro. E significa, soprattutto, vanificare ogni tentativo di legittimazione artistica del cinema messo in atto da maestri come Sergio Leone. E Agira ha ancora una saletta. Notizia non così scontata, vista la chiusura di migliaia di cinema negli ultimi anni. Ce l’ha, in pieno centro storico. Così, giusto per ricordarlo.

Gabriele Santoro

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NON DI SOLO CALCIO…!

Trampolino. Da cui rimbalzare per piombare altrove. Passando da un argomento all’altro come fossero noccioline. Ma con molta cautela, naturalmente! Cinema, in fin dei conti e pragmaticamente, vuol dire anche questo. Creare precedenti tematici da sciorinare e tirar fuori quando serve, se serve. Per parlare d’altro, non necessariamente di cinema stesso. Di religione, perché no. Di politica, sempre. Di etica, magari. Di morale, delicatamente. Di calcio, sicuro!

Avevo due desideri fino a poco tempo fa. Uno era quello di vedere un film diretto da Cronenberg, con Julianne Moore e Philip Saymour Hoffman. Parzialmente realizzatosi, ma non del tutto, per ovvie ragioni di cronaca che ha coinvolto Hoffman (pace all’anima sua!). L’altro era quello di vedere realizzato un film sul più forte giocatore della storia del calcio, affidando però la sceneggiatura a Martin Scorsese. Ci saranno sicuramente migliori registi, si penserà. Non c’è dubbio, ma Scorsese sa fare qualcosa che nessun altro regista sa fare: riuscire a rendere ammiccanti personaggi altrimenti odiosi e repellenti. Motivando, umanamente, ogni loro impulso, facendone dominio comune. Personaggi come il pugile La Motta e Jordan Belfort, tanto per citare due esempi solo cronologicamente lontani tra loro, rendono manifesta l’impossibilità, da parte nostra, di approdare ad un giudizio morale univoco sulle loro gesta. Perché sono uomini e da tali agiscono, seppur in maniera inconsueta. Nessuno come lui, insomma, è capace di renderci solidali anche verso tendenze comportamentali apparentemente lontane da noi. E chi merita più degli altri, tra tutti gli uomini di sport che hanno condotto un’esistenza così dissipata e “scorsesiana”, che gli si dedichi un film biografico? Naturalmente chi è stato il migliore. Se poi si vuol parlare di aria a bagnomaria e negare che Diego Armando Maradona sia stato il non plus ultra, il primus inter pares, allora si vuol fare un buco nell’acqua. Saltando a piè pari ogni azzardato ed improponibile confronto con atleti del presente (solo questo sono diventati i calciatori oggi), bisogna accostarsi un po’ più alla storia propriamente detta per comprendere chi fosse realmente Maradona. Tornare insomma indietro nel tempo, a quando il calcio si chiamava più frugalmente ma opportunamente pallone. A quando saper giocare a pallone non era il corrispettivo dell’odierno “saper giocare a calcio”, rifuggendo ogni barocchismo tecnico, estetico – olistico, pubblicitario. Niente “cricchie” da Gallo Cedrone, I-Phones placcati in oro, Maserati maculate (come se non bastassero già sobrie per attirare l’attenzione), cadute simulate da sbronza di libera uscita un sabato di carnevale, atterramenti coreografici a tempo che neppure Roberto Bolle. Maradona insomma giocava a pallone in un ambiente estraneo (ancora per poco) a beceri orientamenti che potremmo definire… “Cool and the sGang”. Ebbene sì, perché solo strafacendosi di qualche droga un normotipo sarebbe disposto a presentarsi conciato così in campo senza temere reazioni da parte di pubblico e tifosi. E se Dieghito fu un tipo che negli anni Ottanta, comunque, faceva tendenza, questa è un’altra storia. Perché indirizzava mode potendoselo permettere, senza alcun timore reverenziale verso nessuno. Era un uomo di copertina anche lui, è vero, ma non perché protagonista della cronaca rosa, ma di quella, se non nera, comunque grigiastra. Immerso in un altro modo di intendere calcio, insomma, si diceva. Quello dell’atletismo del cuore, delle storie romantiche, delle rivalse sociali, delle vendette politiche.

Ma andiamo con ordine. Ciò che oggi ci dà lo spunto per parlare di calcio (anzi, “del” calcio!), il nostro trampolino in questione insomma, è un film del 2007, di Marco Risi, Maradona, la mano de Dios. Film fatto coi piedi, si specifichi subito (da qui il desiderio sfrenato che a dirigere un film sul dio del calcio sia, come sopra agognato, un tipo che ci sa fare come Scorsese). Ma in questo film emerge qualcosa di unico, che forse neppure lo stesso Martin probabilmente sarebbe riuscito a far ergere, gargantuesco nella sua eterna solitudine: il mito di Maradona. Vi è una scena difatti nella quale l’ormai ex giocatore del Napoli, a seguito di un malore per overdose e presso una clinica psichiatrica, condivide il suo delirio per la permanenza in quell’orribile posto con la moglie, confidandogli però con un sorriso di soddisfazione: “Qui c’è chi si crede Napoleone e tutti gli altri ci credono. Chi si crede il Papa e tutti ci credono. Io ho detto di essere Maradona, ma nessuno vuole credermi.” Bang! Questo breve dialogo è come una fucilata. Perché chi ha conosciuto Maradona, da tifoso del Napoli o magari da semplice amante del pallone, sa che può benissimo essere accostato ad una qualche immagine deificata o divina. Senza alcuna blasfemia, si badi bene. Perché con lui tutto è concesso. Allora mai come adesso è opportuno credere alla Parabola dei Talenti, a lui tanto aderente, per predestinazione, per vissuto, per storia. Non si ricorda cristiano alcuno che, dichiarando ingenuamente ed in sordina i suoi due sogni ad un giornalista all’età di nove anni, cioè quelli di giocare un mondiale con l’Argentina e di vincerlo, li abbia visti poi realizzatisi nemmeno vent’anni dopo. Se fosse un film lo si etichetterebbe come una solita storiella da strapazzo tra il melenso e il melò. Ma è cronaca! Ecco perché quella sequenza del film sopra citata sembra molto più che verosimile. E poco importa se quelle frasi Maradona le abbia davvero pronunciate. Perché riconsegnano la perfetta icona di un mito e l’essenza di tale identificazione. Perché sembrano descrivere l’uomo e il calciatore più di quanto quel noiosissimo film non riesca a fare per tutta la restante parte. L’essenza del mito, si diceva. Trasmutata e trasvalutata rispetto alla concezione usuale. Dire “Mito” e dire “Maradona” assumono sfumature differenti. La seconda parola ha difatti trasceso la categoria stessa della prima. Il tutto proprio perché fino a Maradona nessuno avrebbe mai potuto immaginare che il verbo del talento allo stato ideale e puramente concettuale potesse farsi carne in un solo individuo. Tutto uomo, peraltro. Nessuna incarnazione divina (da qui una sorta di necessità di deificazione). L’uomo travalica se stesso. E comincia ad averne paura, perché molto anticonvenzionalmente umano. E tale forma particolare di “volontà di potenza” si autodefinisce in ciò che c’è di più immanente al mondo, il pallone. Niente di teorico o trascendente. Solo umano pallone. Ma sono solo parole al vento queste. Per ben comprendere come le frasi di quella scena siano anzi riduttive della grandezza di Maradona, è necessario accostare le parole ai fatti. E che fatti! Elevare “l’umano pallone” ad entità sovraordinata è compito non facile. Soprattutto se provieni da una casa popolare di Villa Fiorito e se durante l’infanzia hai giocato con un pallone di lana. Magari riesci ad emergere, ma, per dimostrare di valere più degli altri, devi essere in grado di sfidare tutto e tutti ed uscirne vincitore. Oltre la mediocrità, oltre l’improbabilità. Oltre la fisica, soprattutto. E’ il 3 novembre 1985. Il Napoli ospita la Juventus del Trap, imbattuta per le prime otto giornate. A guastare la festa, come è prevedibile che sia, è proprio Maradona. E’ il secondo tempo quando l’arbitro fischia un calcio di punizione indiretto, dentro l’aria. Impossibile da battere direttamente in porta (se non puntando sul secondo palo, di potenza) per via dell’eccessiva vicinanza della barriera. Bastian contrario! “Come non det…”, sembra esclamare il San Paolo, prima di spalancare, stordito e collassato, la bocca per lo stupore. Il resto è storia, naturalmente. Girata e rigirata, ma che non fa mai male ricordare. Il calabrone spicca il volo come fosse colibrì, ignorando le leggi della natura che altrimenti lo vincolerebbero al suolo, se solo ne fosse al corrente. E Maradona fa finta di non esserne al corrente. Calcia ugualmente con quel (solo) suo interno sinistro, segnando una traiettoria improbabile (non impossibile, a questo punto!), scavalcando la barriera con quel pallone ben più “maneggevole” di quelli poco pratici di lana. Villa Fiorito è lontana ormai e con un pallone vero è un gioco da ragazzi fare ciò che riusciva a fare con ogni altro tipo di oggetto. Ecco allora perché Maradona riuscì ad arrivare persino dove non sono arrivati i professori universitari, scervellatisi e spremutisi le meningi, questi ultimi, per anni al fine di sgamare il trucco. Proprio come Jackman in The prestige di Nolan. Ma non c’è trucco, non c’è inganno. Pura magia, arte suprema, chiamatela come vi pare. Di sicuro è genio. “Puro, limpido, crestallino”, direbbe il colonnello Kurtz. Tutto questo giorno 3 novembre. Tra le commemorazioni dei defunti e dei caduti in guerra, quello dello scivolone della Vecchia ed imbattuta Signora. Solo frutto del caso?

E’ chiaro, alla luce di quanto detto, che “l’umano pallone” assume connotati di portata non di certo ordinaria. Ma la sublimazione passa per il campo, non è importata da fuori. Ecco perché il personaggio Maradona, scapestrato (ma non come si narra) e dissipato, rimarrà confinato al di fuori del campo di calcio. Ecco perché non si può identificare costui come l’iniziatore di un certo approccio al calcio, “fashionizzato”, posticcio, rifatto dei giorni nostri. La legittimazione “artistica” o quanto meno tecnica del pallone prescinde da una qualche patologia di “mondanità dandy” che un buon calciatore può comunque avere (affari di casa sua!). All’immagine dell’uomo, insomma, si accosta il mito sul campo, quello che si sovraordina, stando alla scena del film, a entità di ben altra caratura ieratica, solo perché, a buon diritto, più alla nostra portata, immanente, umano, recente, nato povero, popolare e populista, soprattutto.

Già, populista. Nel senso più genuino del termine. Impegnato politicamente in una rivalsa sociale, che parte da Villa Fiorito, per raggiungere il tetto del mondo. Con al seguito tutti coloro che come lui credevano che persino col pallone, l’unico strumento di cui ci si poteva servire, si potesse approdare ad una qualche rivalsa nei confronti di oppressori coloniali secolari. Ed è come se la storia avesse concesso a Diego Armando Maradona, durante i mondiali del 1986, di potersi vendicare sullo spietato colonialismo inglese, responsabile dell’episodio della guerra per le Malvinas, oppressore nei confronti di una fin troppo vilipesa Argentina. Ma proprio la sua partita più eclatante, “la partita del secolo”, come è stata chiamata, quella contro l’Inghilterra (in cui metterà alla berlina tutto un sistema culturale occidentale, prima con un gol disonestissimo ma quanto mai opportuno, di mano, e poi con quella suprema rete dopo aver scartato tutti, che è, se non la più bella, probabilmente la più vitalistica e roboante della storia), cela il segreto della scalata verso l’Olimpo del calcio. Maradona ha dimostrato in quell’occasione come per essere il migliore si debba trascendere l’etimologia stessa della parola calcio. Il gioco di squadra più famoso al mondo diventa gioco terribilmente individualista (e necessariamente direi!). Palla a Maradona e altri dieci giocatori concentratissimi ma poco più che mediocri a pendere dal suo sinistro. Nessuno si sognerebbe di inserire Maradona nella propria squadra dei sogni, perché al di fuori di ogni logica, al di fuori del tempo, al di fuori del calcio. “Metacalcio” dunque, non classificabile, raffrontabile o inseribile in studi di dati calcistici. “Maradona te lo manda Dio, tu devi solo stare attento”, disse Francisco Cornejo, primo allenatore del giocatore, non rivendicando alcun merito per averlo scoperto. E un dono di Dio non può mica essere statistica!

Potremmo citare almeno un’altra decina di casi di assoluta prodigiosità calcistica di Maradona, dal gol in torsione dalla trequarti contro il Verona (roba da Igor Cassina in forma olimpionica) al gol di testa dai trenta metri contro in Milan, di controbalzo, con gittata simile ad una potente pompa idraulica. Passando per il gol direttamente da calcio d’angolo o da centrocampo, e per i quattro gol promessi sentenziosamente e realizzati ad un incredulo portiere, Gatti, quando il fenomeno militava ancora nell’Argentinos Junior. E parafrasando il monologo iniziale di un capolavoro di Anderson, Magnolia, “è un caso” che ad un uomo riescano numeri del genere, affidati sì ad un istinto innato e talentuoso ma premeditati e consapevolmente esibiti? “E’ un caso” che a conquistare in meno di un decennio l’universo calcistico sia un poveretto e disgraziato, nato dalle miserie di Villa Fiorito? E ancora. “E’ un caso” che tutto ciò sia avvenuto ogni qual volta lo volesse? Volontà di potenza! Troppo umana, per essere vera.

Quando la nostra generazione dovrà raccontare storielle ai figli prima che si addormentino, narrerà di un uomo, presuntuoso, insolente, strafottente, arguto, tarchiatello, vizioso sì ma soprattutto virtuoso. Di qualunque cosa fosse sferica e palleggiabile. Narrerà di un ometto venuto al mondo con quella famosa e vaticinante intervista a nove anni e morto nel bel mezzo del mondiale di USA 94 (mentre eravamo appena nati). Il suo mito dura meno di quanto sembri e meriti. Come è giusto che sia, naturalmente, affinché sia tale. Narreremo di un uomo magari (si spera!) ancora in vita, ma come fosse dipartito. Perché qui sta la differenza con i “divi” del presente: il suo mito si arresta sul campo, ma non in partite solamente ufficiali, chiudendo la propria carriera in squadre arabe, australiane o canadesi di millesima categoria, ma in quelle che contano, in quei suoi naturali campi di battaglia che si chiamano Coppe del Mondo (anche se continuò ancora a giocare dopo il mondiale negli Stati Uniti). Maradona è un personaggio scomodo e coraggioso, caustico e provocatore, inviso ai più ma allo stesso tempo terribilmente “pop”. Non semplice dialettica del genio e sregolatezza, ma dell’eroe di epoca post-moderna, leader nel bene e nel male, compiacente di portarsi sulle spalle una croce con delizia in potenza, il suo amato numero 10. A quest’ultimo dedichiamo questo testo, unico ricordo beato di un uomo bistrattato e fin troppo condannato, oggigiorno sottovalutato e accantonato dalla critica calcistica e non, dal giornalismo di bassa lega e dagli stessi amanti del gioco del pallone. Personaggio infinito o quanto meno indefinito. Che sentiamo parlar male dell’America, esponenziale, goffa ma realissima caricatura politico-culturale di quell’Inghilterra da lui già troppo odiata e beffata nel mondiale che vinse, stravinse, da solo. Che sentiamo sbraitare contro caporaloni da strapazzo che primeggiano come fossero puritani Fürer dagli alti ranghi di quell’ingordo Reich che la FIFA rappresenta. Che incarna lo spirito romantico ormai decaduto, pronto a insudiciarsi i calzoncini per la propria gente. Così lontano dal pallone moderno. La realtà, la storia dunque sembrano impressionare più di un film, più di quell’apparentemente surreale confessione di Maradona alla fidanzata nella scena del film preso in analisi. Icona di un popolo più di chiunque altro. Per questo mito. Chapeau!

Ps: Liquidiamo immediatamente chiunque tocchi il tasto dolente dell’abuso di droga fuori dal campo: “Del resto tutti hanno tirato in questi anni di merda, chi è che non l’ha fatto?” (Cit. Tony Pisapia, L’uomo in più)

Gabriele Santoro

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LA VERITA’ TI FA MALE! (su “Maps to the stars” di Cronenberg)

Agghiacciante. Credo che l’aggettivo che più a questo film si addice sia proprio questo. Raggelante in un finale che sembra principio di nulla, apocalisse di tutto. Niente spazio per misericordiosi giudizi divini ed eventualità di approdi in regni lontani e salvifici. Dio, stando alle suggestioni finali del film, sembra aver invertito la rotta, aggiustando e revisionando coscienziosamente i suoi piani. L’uomo ha perso la sua bussola, sembra navigare a vista alle volte di un illusorio ed effimero successo professionale. Dunque punibile; come non crede più di essere, per intenderci, dai tempi dell’Antico Testamento. Perché Maps to the stars di David Cronenberg, il film di cui stiamo parlando, rimanda sicuramente ad una visione dei rapporti umani, seppur atroce, comunque provvidenziale. Tutto sembra quadrare, nulla è lasciato al caso e ogni cosa va come è normale, viste le premesse, che vada: alla deriva. Tutto “scientificamente” spiegato, ma inspiegabilmente ancora più ambiguo. Perché stupisce il modo in cui i protagonisti approdano alla disfatta esistenziale. Tutti a prostituirsi non più alla ricompensa economica dei trenta denari ma al mero compiacimento per ogni forma di tradimento messa in atto. Sadici, i protagonisti del film. Di un sadismo (torniamo all’aggettivo iniziale) agghiacciante.

Maps to the stars è il capolavoro assoluto di Cronenberg. È la summa stilistica, artistica e contenutistica del suo cinema. Nulla di nuovo nel soggetto, sia chiaro. È la banale storia di sei personaggi che si destreggiano tra i meandri di una Hollywood ostentatrice, materialista e ossessiva: un autista amorfo e arrivista; un’attrice fallita affetta da complesso di inferiorità nei confronti della madre defunta, grande attrice del passato; una famigliola composta da un padre fisioterapista, una moglie agente di spettacolo del figlioletto, a sua volta attore scapestrato e già tremendamente vissuto; infine una ragazza, appartenente anche lei alla suddetta famiglia, uscita da un ospedale psichiatrico dove era stata condotta da bambina dopo aver appiccato il fuoco in casa (per il quale evento rimase sfigurata). Il film sembra essere una trasposizione post-moderna di Inseparabili, altro meraviglioso e struggente film del regista canadese, con protagonista l’immenso Jeremy Irons. Le analogie sono molte: dal tema dei fratelli indissolubilmente legati da un destino comune, anche se apparentemente tanto lontano, alla presenza dell’elemento sessuale visto come ossessione da esorcizzare o assecondare (filo conduttore anche, e soprattutto, di un altro film di Cronenberg, Crash), fino al tema dell’estrema paura non tanto di invecchiare, quanto più di invecchiare con evidenti ma inevitabili segni dell’età (una sorta di morboso terrore della mutazione – tema sempre centrale in Cronenberg – , questa volta biologica). Ma se in Inseparabili il finale crea sconforto e, perché no, commozione, in Maps non c’è spazio per le lacrime. Fratello e sorella si accasciano senza simboleggiare La Pietà di Michelangelo, come avviene per i due gemelli interpretati da Irons. Filo conduttore provvidenziale, si diceva, ma questa volta Dio non si mostra. Non c’è affatto alcuna forma di compassione o pietà ostentate dal pur sempre ateo (?) Cronenberg. Si ripropone il tema dell’irrimediabilità del danno, frequente nel suo cinema, da Rabid a Pasto nudo, da Videodrome a A history of violence, da La promessa dell’assassino a Spider, fino a Cosmopolis. Come i protagonisti di tutti questi film anche ora vi è un peccato originale incontrovertibilmente traviante e irredimibile. E la suggestione principale è rappresentata dal fatto che questa colpa primordiale risale ai genitori dei due protagonisti, in realtà inconsapevoli, prima di sposarsi, di essere fratello e sorella. Si può dunque leggere un riferimento esplicito alle vicende di Edipo, macchiatosi di patricidio e incesto, le cui terribili colpe ricadono sui figli, impegnati a scannarsi vicendevolmente per tutta la vita (si tratta di Eteocle e Polinice, protagonisti della tragedia di Eschilo I sette contro Tebe). Ma i due figli protagonisti del film sommano ad una tendenza omicida innata (la sorella piromane aveva da piccola tentato di uccidere il fratellino e quest’ultimo, precoce star di Hollywood, manifesta di continuo una voglia repressa di uccidere) un amore incondizionato, quasi carnale, incestuoso per retaggio parentale. Ma ciò che più spiazza della trama del film è l’inspiegabile turba psichica della ragazza. Perché ella si giustifica per aver dato fuoco alla casa da bambina indicando la sua colpa come una giusta vendetta nei confronti dei genitori, rei di essere, come detto, fratelli di sangue. Da qui un atroce ritratto, realizzato da Cronenberg, della società contemporanea, vittima, inconsciamente, di vecchi ma ormai radicati retaggi “psicanalitici”, attribuendo colpe e delitti a individui in (più o meno) buona fede e dando necessariamente e freudianamente (ahi noi!) una motivazione logica a tutto ciò che appaia già un tantino umano. C’è poi chi potrebbe dare una lettura “deterministica” alle vicende narrate nel film, motivando cioè le azioni e le reazioni dei due giovani protagonisti con l’alto rischio genetico e biologico che l’accoppiamento tra due consanguinei può portare con sé. Ma questo aspetto pertiene più ad un’aderenza tematica al “solito” cinema del regista che ad un orientamento darwiniano di fondo. Ci riferiamo alle mutazioni, come detto, alle spiazzanti ed ossessive metamorfosi, alle anomalie, fisiologiche, genetiche, etiche. Ecco allora riproporsi il tanto discusso tema cronenberghiano del rapporto conflittuale tra scienza e uomo, tra medicina e uomo. Tra uomo e natura, in ultima istanza. Sì perché la consueta buona fede insita in ogni protagonista dei suoi film si schianta con la “coleridgiana” incapacità di travalicare i limiti che la Natura ci impone, di trascendere la condizione umana. In Rabid per esempio, il buono del film è il dottore, impegnato nel tentativo di migliorare la qualità della vita di persone sfigurate da incidenti, attraverso la chirurgia plastica. Il cattivo, ragionando in termini fumettistici, è, invece… sempre lui! Perché artefice, seppur involontariamente, di una violazione evidente del “codice naturale”, avendo creato un siero sì rigenerante ma accidentalmente capace di trasformare in mostri. In Maps to the stars si nota invece l’inclinazione ad un’anomalia etica, l’inusuale matrimonio cioè tra fratelli e il cortocircuito psichico che esso sembra provocare. Ma il denominatore comune è sempre quello: tutti, proprio tutti i protagonisti della filmografia di Cronenberg si riscoprono artefici e/o vittime di una controtendenza, di uno scardinamento sociale, di un cambiamento. E per questo, nonostante tutto, incorrono sempre in una morte più o meno purificatrice. Tuttavia l’elemento che fa da collante tra le varie vicende di questo film è il fuoco. Fuoco che brucia ma non rigenera o purifica affatto. Immagine che, secondo la tradizione biblica, si contrappone a quella dell’acqua, richiamo ad una rinascita catartica (i sogni di Noè nell’ultimo film di Aronofsky ne sono un esempio).

Dunque gli episodi di questo film vanno ben oltre la semplice espiazione attraverso la morte (eXistenZ o Cosmopolis) o, nei peggiori dei casi, attraverso l’apocalisse (Rabid sempre) o il terribile peso di restare in vita (A history of violence o Spider): qui si parla dell’uomo spogliato di ogni sovrastruttura che il cinema troppo buonista non ci presenta mai; si parla dell’umanità nuda, capace di liberare ogni sorta di immediato e selvaggio approccio alle relazioni umane; e non si parla solamente (si badi bene!) di istinti ferini, ma di disarmanti calcoli razionali; si parla di cattiveria allo stato non lavorato, grezza, ma comunque ragionata. A tal proposito la scena più emblematica è quella nella quale un’attrice fuori giri, arrivista, bugiarda e superba, interpretata da Julianne Moore (piccola annotazione: interpretazione da Regno dei Cieli!), si esibisce in un tifo da stadio dopo essere venuta a conoscenza che è entrata nel cast di un film dopo che la sua rivale professionale ha dovuto dare forfait a causa della morte del figlioletto. Chi non ha mai esultato per le sventure altrui, scagli la prima pietra! Imbarazzante insomma lo scarto tra un Cronenberg e un registucolo qualunque alla Robert Redford, il quale si accontenta dell’etichetta del “politicamente corretto”, dello scontato, dell’irreale al fine di non mostrare ciò che potrebbe risultare fastidioso, scandaloso, provocatorio, “troppo reale per essere vero”. E chi ha visto questa scena avrà almeno una volta indirizzato a se stesso la domanda “Sarò forse anch’io così?”, scongiurandone subito l’eventualità, gettando nell’oblio quella dannata e troppo martellante visione. Dimenticare tuttavia questa scena sarà difficile, perché Cronenberg utilizza tutto ciò che il suo mestiere gli concede al fine di renderla unica: tralasciando la messinscena (da sempre perfetta in Cronenberg e unica nel riuscito tentativo di bilanciare temi caldissimi ad una regia fredda e non troppo “americana”), è da brividi, tornando al tema del “glaciale”, la musica che fa da sottofondo alla scena. Premettendo che non si può negare una certa componente orrorifica in ogni film di Cronenberg, anche in quelli dichiaratamente noir (La promessa dell’assassino), qui questa tendenza è espressa (oltre che dalle continue visioni fantasmatiche e mortifere del ragazzino e del personaggio della Moore) da una base inquietante, tremendamente tuonante, che fa da magnifico e straniante contraltare al canto gioioso della donna. Due musiche polari e antitetiche insomma, quella diegetica e quella extradiegetica, che attivano un meccanismo nello spettatore di vergognoso spaesamento, che sa molto, come detto, di rispecchiamento comportamentale (seppur tacito), di una parte di personalità latente in ognuno di noi, da nascondere e mai ammettere di avere. E ancora. Cronenberg vuole farci sentire talmente tanto parte di quella “danzante e galleggiante merda del mondo” che ci offre un altro assist: chi non ha provato ribrezzo allorquando l’avvenente e aitante giovane autista, interpretato dall’inespressivo Pattinson, si approccia sessualmente con la ragazza sfigurata, anche se per secondi fini? O chi non ha goduto personalmente del rapporto sessuale dello stesso Pattinson con la sensuale Julianne Moore? Ma non c’è da allarmarsi troppo, perché nolente o volente l’uomo è questo, frutto di un inesauribile quanto palliativo tentativo di omettere certe tendenze sinistre in noi insite. Ma basta ammetterlo, onestà intellettuale! L’anima, la sua cura, l’inattendibilità della bellezza esteriore e la priorità della parola sul tutto il resto: balle! Retaggi solo retorici di un Occidente troppo Occidentale già da qualche secolo. Una critica al west sbraitata dal west per eccellenza, quello dell’America tronfia e piena di sé, dei “pionieri di Hollywood”, degli Oscar barattati in cambio di proseliti americanistoidi, della fame di fama. Quella dell’industria cinematografica che dietro apparenze solidali cela un mondo balordo e meschino, fatto di ghigni concorrenziali e sgambetti scorretti. Stando così le cose, sfuma ogni piacere nella visione di un film, perché, dopo Maps to the stars, sembrerebbe quasi che ogni produzione sia afflitta da sotterfugi e scalate di siffatto genere. Questo è il cinema, il vero cinema. Mai realmente arte, a livello realizzativo; ma soprattutto gioco di ombre, “dietro le quinte”.

A volte le parole sono vane per tipi come Cronenberg. Ma parlarne, soprattutto dal pulpito di un cinema di paese, fa sempre bene. Evidenziandone genio, valenza artistica, levatura culturale. Anche solo liquidando Maps to the stars come il film dell’anno. Perché lo è, persino a livello tecnico, con trovate congeniali alla causa: primi piani con grandangoli appositamente diffusi (presenti soprattutto nel suo cinema di inizio millennio – eXistenZ, Spider, Cosmopolis) ma non esasperati (alla Joel Schumacher per intenderci); fotografia “plastica”, lucida ma perfetta, molto simile al suo film precedente, che vede nel direttore Peter Suschitzky (ormai storico collaboratore di Cronenberg) uno degli artisti più eminenti nel campo, con la sua capacità di gestire, (r)innovare e rivoluzionare le luci come nessuno al mondo; infine la solita messinscena, quella che farebbe pensare al regista canadese già a due miglia di distanza (anche se sono presenti più carrellate e la regia risulta un tantino meno fredda del solito). Film viscerale, sviscerante, come tutti gli altri di questo genio assoluto, che, insieme a Linch, anche se in modo diverso, ci propone una forma di cinema che agisce sull’inconscio e lì sedimenta, giorno dopo giorno. Tragedia greca post-moderna, “film teatrale” dai toni apocalittici, ilarotragodìa un po’ noir, satira pungente. Tutto questo è Maps to the stars, che fa di David Cronenberg un kamikaze (più che un terrorista come Fulci) dei generi, miscelandoli e confondendoli; capace, buttandosi a capofitto, di scardinare la concezione di cinema dal suo interno, parlando di esso, destabilizzandolo, annichilendolo, decratandone solennemente, di fatto, la fine. Non più “metacinema”. Spazio all’“anticinema”!

Ps: ringrazio Salvo, il quale, con la sua instancabile (contro)informazione cinematografica tra le più giovani generazioni, ci ha fatto conoscere il più grande regista vivente. Con la speranza che, adesso che sappiamo chi sia, Cronenberg possa consegnarci ancora altri capolavori.

Gabriele Santoro

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L’ULTIMA TENTAZIONE DI QUENTIN (su “Grindhouse” di Tarantino)

Peggiu dell’irricanuscenza c’è sulu ‘a ‘ppatenza” – Cultura popolare

Sembrano non sbagliare mai gli antichi. Manco la fame è così lacerante come l’ingratitudine. Perché per quanto qualcosa sia realizzata gratuitamente vale pur sempre la formula del “buon rendere”. Ma il cinema e la sua storia più o meno recente non possono rivendicare da sé, nei confronti di registi e produttori, una qualche riconoscenza. È obbligo morale di chi il cinema lo ha portato avanti per anni come fortunata professione sottoporre alla nostra attenzione una parte di storia che non c’è più. Non tanto impedendo che il progresso inarrestabile e già sceneggiato abbia compimento, quanto più prendendone coscientemente e pubblicamente atto e focalizzando su di esso maggiore acume critico. Dire grazie, insomma, alla pellicola. Nulla di scontato in tutto ciò! Perché in un mondo ormai senza storia recente, appiattito non nel presente ma in una continua rincorsa alle volte di un irraggiungibile futuro (Cronenberg docet in Cosmopolis), tutti ci abituiamo a svolte più o meno epocali come fossero banali cambi di stagione. E se nulla più ci sconvolge o impietosisce, la riconoscenza artistica di un maestro e autore contemporaneo come Quentin Tarantino, nei confronti del mondo che lo ha reso grande, vale il triplo di quanto dia a vedere. Si passa al digitale, e nel torpore letargico e assuefacente della latrina hollywoodiana sembra essersene accorto solo lui. Quanto analizzato in funzione “nostalgica” nel saggio che ha inaugurato la nostra rubrica Grandangolo (“Si scrive digitale e si legge capitale”) trova insomma un illustre portavoce e pioniere nell’industria cinematografica delle maxi produzioni, dello star-system imposto e degli Oscar barattati. Gratuito populismo mediatico, quello del regista? Può darsi, ma cosa importa! Ci interessa poco se Tarantino abbia concesso un’ultima dose di morfina ad un circuito in stato vegetativo e destinato ormai alla sepoltura quale quello delle pellicole e poi se ne sia lavato le mani senza il minimo scrupolo e con la coscienza a posto. Perché la gratitudine, quella sì che conta! Verso un mondo fatto di imperfezioni, di crepe, di sane e salvifiche aporie. E a questo rende omaggio il suo film del 2007, Grindhouse, A prova di morte. Prima che il mondo cioè venisse invaso da una pandemia di digitalizzazionite acuta, Tarantino ci consegnava un film magistrale e, paradossalmente, innovativo. È un omaggio a quel cinema anni ’60 appartenente alla cosiddetta serie b: film cioè a basso costo e con trame non impegnative (e Tarantino avrà modo di patrocinare e presentare una rassegna di b-movies italiani in occasione della 61ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia). E l’omaggio è evidente soprattutto negli espedienti tecnici adottati perché il riferimento a quel determinato cinema potesse rendere maggiormente: bruciature di sigarette, sgranature, fuori quadri, inquadrature sfocate e salti e tagli di pellicola. Il tutto, naturalmente, riproposto e ostentato continuamente, come mero gioco registico autoreferenziale forse, ma anche e soprattutto come preziosismo artistico che possiamo fare nostro in quanto rappresentazione di un universo rarefatto e ormai lontano e di una qualche componente di artigianalità e corporeità che la visione di un film ha ormai perso (tutto è HD). Una chicca insomma questo film. E non pensiamo mica che il buon Quentinone volesse ergersi a paladino delle ultime salette del mondo che non possono prescindere ancora oggi dall’impiego del supporto pellicola. Ma finisce, come detto, più o meno involontariamente, a incarnare l’immagine di un regista che, dopo aver scosso, destabilizzato e detto ormai tutto sull’epoca post-moderna del cinema, decretandone di fatto la fine, immola doverosamente la sua opera agli altari del (supporto) passato, quello buono, genuino della pellicola, forse perché unico, dai Lumiérès fino all’altro ieri.

E stilisticamente parlando, questo film non si fa mancare assolutamente nulla. La messinscena è perfetta e, con quel giocattolino tra le mani, Tarantino sembra decollare, pur rimanendo ancorato ad un certo classicismo. E ciò che gli permette di ottenere uno scarto a suo vantaggio nei confronti di registi ormai incauti come Nolan o Sorrentino è la capacità di bilanciare azione e stasi nelle riprese. Che questa sanità si sia parzialmente persa nel recente Django… quella è un’altra storia. Perché A prova di morte sa amalgamare benissimo carrelli evidenti a camere fisse, “action” a dialoghi cervellotici e prolissi (i quali, forse, hanno permesso che molti lo etichettassero, negligentemente, come il peggior film del regista). E Quentinone, da gran burlone qual è, sa divertire, ma soprattutto divertirsi. In questo film difatti si prende gioco di quei suoi fans affetti da “nerdismo acuto” da una parte, dall’altra di coloro i quali disprezzano incondizionatamente tutto quanto fuoriesca dal cinema hollywoodiano. In occasione dell’uscita del film, chi si aspettava molto sangue fu deluso. Lo fu pure chi desiderava una trama molto più congeniata. Piacque tanto alle donne, che videro nella pellicola il perfetto epilogo di quel cinema tarantiniano femministoide ad esse tributato (da Jackie Brown a Kill Bill), con protagoniste capaci di frenare il “macello di carni” del folle stuntman. È vero, il film è spudoratamente dalla parte delle donne e non vi è quell’”Aufhebung” finale che scavalchi la accademica divisione tra Bene e Male. Se in Kill Bill infatti l’uomo rivela alla fine la vera natura omicida di lei, la quale se ne rende conto ma non può non portare a termine la sua vendetta, in A prova di morte le donne che uccidono sono il Bene, lo stuntman è il Male, fine della storia (anche se è condannato un certo stile di vita femminile – delle prime protagoniste, che si “espongono” a tal punto da trovare la morte). Ma tutte queste sono chiacchiere da bar. Il film, come detto, non ha difatti alcuna pretesa, in quanto “b-movie”. Piuttosto nessuno parlò nel 2007 della valenza estetica, storica, artigianale del film. Perché il pubblico, vedendolo, correva subito dall’operatore in cabina lamentandosi della bassa qualità della pellicola. E Tarantino, per via di questa sorta di provocazione formale, avrà goduto parecchio, proponendo a tutti un modo di far cinema antipopolare, sfrontato e menefreghista. Infatti, agli albori della “primavera digitalizzante”, mentre il mondo si preparava all’evento 3D del secolo (Avatar, di qualche anno dopo), nessuno avrebbe mai potuto immaginare che vi fosse un regista al mondo così pazzo da realizzare un film appositamente “rovinato”. Se vi è dunque un testamento artistico di Tarantino, quello è A prova di morte, realizzato sì con apparecchiature altamente tecnologiche (nella seconda parte Tarantino fa infatti tutto ciò che gli frulla per la testa e che i mezzi gli consentono di fare, passando addirittura per un magnifico e “nitido” bianco e nero), ma utilizzate per ricostruire tecnicamente un mondo che quasi non esiste più. Un film che ci consegna un’incontrovertibile verità: non si può far cinema senza guardare come lo si è già fatto. Sia relativamente ai mezzi (il supporto pellicola) che per quanto riguarda il piano artistico e culturale (l’importanza dei classici, anche e soprattutto se al fine di rinnegarli), è necessaria dunque una conoscenza di fondo.

Quella che segue, in fondo alla pagina, è la scena più emblematica del film e in essa è racchiusa tutta l’idea di cinema tarantiniano. Un paio di minuti nei quali una delle protagoniste si esibisce in una lap-dance per “stuntman Mike“, magistralmente interpretato da Kurt Russell. Bene… questa scena è quello che gli Americani, a volte maldestramente, definiscono cult. E ha tutte le carte in regola per esserlo: una ragazza bellissima, di una bellezza non classica ma carnale e morbosa (anche la sua prorompente fisicità tutt’altro che comune al cinema e alla televisione lo dimostrano); un attore che non potrebbe che essere lui; una location caratteristica (un pub “on the road”); infine una musica straordinaria, la canzone Down in Mexico. È girata, naturalmente, come solo Tarantino sa fare: primissimi piani su dettagli, quali per esempio il piede di lei che incautamente si posa vicino al cavallo dei pantaloni di lui, il ginocchio al teso  torace o i due visi che si sfiorano, a testimonianza della forte e repressa tensione sessuale di tutta la sequenza; e poi quel carrello circolare, mai pacchiano e opportunamente inserito quando la canzone improvvisamente cambia ritmo così come cambiano le movenze di lei. Ma ciò che realmente attribuisce l’immortalità a questa scena è la fase finale, il passaggio alla scena successiva. Infatti quella della lap-dance è una scena fortissima per impatto visivo, tanto da non potervi trovare una degna conclusione. Ed ecco ergersi il genio di Tarantino, che cala l’asso e, inaspettatamente, al minuto 3:36 del video, “taglia la pellicola”, la fa saltare senza mostrare la fine della lap-dance, quasi come se mancassero parecchi fotogrammi, smorzando così le aspettative di tutti e riabbassando terribilmente il ritmo. Un lapsus del mezzo cinematografico diventa per la prima e ultima volta nella storia del cinema una voluta scelta stilistica e narrativa. Tarantino dunque, non di certo inconsapevolmente, conferisce all’imperfezione del supporto analogico della pellicola uno statuto artistico, che sa molto di addio, di eutanasia. E proprio questo espediente ci consente di intraprendere una riflessione teorica sul mondo della pellicola. L’analogico è costituito da un segnale che si definisce continuo, perché, anche interrompendosi per qualche attimo a causa della presenza di fotogrammi corrotti, esso passa ai fotogrammi successivi, consentendo la visione. Il digitale, invece, è costituito da componenti discrete (perché il film non è “impressionato” su alcuna pellicola) che non consentono la fruizione continua se non compromettendo intere scene o sequenze. Per semplificare in modo estremo: se un dvd si inceppa, lo possiamo gettare; se è un vhs (e soprattutto una pellicola) a danneggiarsi, si può rimediare tagliando quei determinati fotogrammi. Per non parlare poi dei guasti in cui incorre il segnale digitale, che spesso, come notiamo dai nostri televisori, non arriva per periodi più o meno lunghi.

Insomma, dietro una semplice scelta di montaggio e in un film che è stato considerato un flop, si cela tutto il mondo del cinema: quello della cabina dell’operatore, il quale ripara ancora pellicole usurate o spezzatesi per il troppo cumulo nelle bobine; quella della monosala di paese, che ancora può conoscere questa realtà incontaminata.

E rivedendo adesso questo film, sette anni dopo, mentre l’organigramma del tanto scongiurato “nuovo ordine digitale” si è costituito, fa ancora maggiore effetto. Forse solamente per noi, che il cinema lo amiamo, prima ancora che come strumento culturale (ebbene sì!), come luogo di una certa artigianalità, repressa all’ombra della piattaforma virtuale su banda larga. Perché “la cultura forse passa, ma le tradizioni devono rimanere”. L’omologazione ci è (stata) imposta da un’ondata di ammiccante progresso, il quale non è tuttavia modernità. Tutti a compiacerci dunque di fronte alla discretezza e alla conseguente interruzione del segnale digitale, a dispetto della “continuità analogica”. Perché il bello della pellicola, in fondo, è sempre stata la sua componente di esclusiva rimediabilità del supporto. Anche se corrotto, bruciato, imperfetto. Gagliarda per questo, la pellicola; metafora di tutto. Basta tagliare e ricucire. E si riparte.

 Gabriele Santoro

Fonte: UniversoTarantino

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SMETTO QUANDO VOGLIO

 

smetto

 

In Smetto quando voglio, Pietro Zinni ha trentasette anni, fa il ricercatore ed è un genio. Ma questo non è sufficiente. Arrivano i tagli all’università e viene licenziato. Cosa può fare per sopravvivere un nerd che nella vita ha sempre e solo studiato? L’idea è drammaticamente semplice: mettere insieme una banda criminale come non se ne sono mai viste. Recluta i migliori tra i suoi ex colleghi, che nonostante le competenze vivono ormai tutti ai margini della società, facendo chi il benzinaio, chi il lavapiatti, chi il giocatore di poker. Macroeconomia, Neurobiologia, Antropologia, Lettere Classiche e Archeologia si riveleranno perfette per scalare la piramide malavitosa.

ComingSoon

 

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