Youth. <<E ‘sti cazzi!>>, verrebbe da sbraitare. Perché seguendo una nota e mordace lezione di Enzo Castellari (autore di film cult poliziotteschi e western anni ’70 e ’80), il successo di un film parte già dalla reazione del pubblico al titolo. Se quest’ultimo viene accolto con un roboante <<Me’ coglioni!>>, allora vorrà dire che sarà gradito tanto da consentire una vasta fruizione del film. In caso contrario, be’… si vada alla reazione di cui sopra. E questa dialettica e romanesca corrispondenza verbale di un più o meno acuto gusto nella scelta del titolo sono lo specchio, alle volte, di un più o meno acuto gusto registico o addirittura filmico. Il buono, il brutto e il cattivo, per esempio, ha di certo un titolo impattante, maschio, ed è anche e sicuramente un capolavoro assoluto. Ma, oggigiorno, questa genuina tendenza al buon cinema italiano di genere, che vede nella scelta del titolo l’apogeo di una tanto conclamata (all’epoca) e salvifica artigianalità del mestierante chiamato regista, si è dissolta nel nome del cinema di serie A (o presunto tale), delle pretese massimaliste (sia registiche che di scrittura), dell’autorialità limata sino all’inverosimiglianza, affettata come un prosciutto crudo. Con cui imbottire smargiasse carriere da Oscar, per lo più. E tornando al film del giorno, vale a dire La giovinezza (così preferiamo chiamarlo, in quanto italofoni), il sintagma <<’Sti cazzi>> rivela una sconfessione totale dei casti dettami del cinema italiano di genere di quegli anni da parte degli autori contemporanei e ne rappresenta, in un certo qual senso, anche la morte.
Fatta questa premessa dai toni nostalgici, tra un giudizio estremo e l’altro (cioè tra il polpettone grossolanamente farcito e il diamante di preziosa fattura, tra <<’Sti cazzi>> e <<Me’ coglioni>> per intenderci), è opportuno per una volta elencare aspetti ora positivi ora negativi del nuovo film di Paolone Sorrentino. E non di certo per atteggiamento ignavo ci porremo in mezzo alla terribile contesa tra incondizionati detrattori e strenui difensori del regista napoletano, ma perché, avendo visto, rivisto, spolpato e rispolpato La giovinezza, vi abbiamo riscontrato sia chicche che rovinose cadute di stile. Partiamo dalla trama.
Due amici ormai anziani sono in vacanza in un centro delle Alpi. Uno è un ex compositore a cui degli emissari della regina Elisabetta chiedono invano di dirigere un concerto in onore del principe Filippo, l’altro è un regista ancora in attività alle prese con il finale della sua ultima fatica. Entrambi e in modo differente, dopo aver fatto conoscenza di decine di particolari personaggi, si rendono conto di quanto siano inadeguati alla società in cui sono costretti ormai a vivere. La giovinezza è il rifacimento più europeizzante, nonostante gli attori siano delle stelle di Hollywood, del patinatissimo La grande bellezza, non tanto per la presenza di una messa in scena più sobria (rimane, difatti, anche qui compiaciutamente magniloquente) ma per la presenza di riferimenti e piccoli particolari che rimandano di certo ad una cultura elevata e non massificata: dalla grande tradizione della musica classica ormai dimenticata e contaminata dalla musica pop di bassa lega al cinema impegnato, passando per lo sport sublimato come arte. Cifre stilistiche di un’Europa che fu, non ancora surrogato di tendenze oltre oceano, ma eccezionale unicum culturale. E Sorrentino tenta nel film di ricreare tale atmosfera rarefatta, di una cultura incontaminata perché segnata dall’età dei due artisti. I quali sembrano tuttavia non aver perso il talento di una vita. Ed è quest’ultimo il cardine di tutta la narrazione. Perché ostinatamente presentato come un dono divino da cui è impossibile discostarsi, di cui è impossibile disfarsi. Ma il conflitto vero e proprio dei due protagonisti emerge allorquando al proprio talento si abbina fatalmente l’impossibilità di adattarlo al presente. I due sono infatti uomini d’altri tempi, autori veri e artisti indiscussi, ma hanno subìto una sorta di atroce condanna da parte del tempo, loro tiranno, vale a dire la progressiva perdita della memoria a lungo termine, una sorta di alzheimer all’inverso (inusuale come trattazione della fase senile in ambito cinematografico) che non permette loro di ricordare il volto dei genitori. Un singolare morbo affligge dunque i nostri protagonisti: non ricordano più la fisionomia di chi li ha messi al mondo, ma ricordano rispettivamente tutte le arie composte, tutti i concerti diretti, tutti i film realizzati e il volto di tutte le muse in essi presenti. Il talento appartiene dunque ad una memoria a sé, fuori dalle logiche comuni, fuori dal tempo, mentre l’esistenza dei due appare molto lunga, anche per mezzo delle scelte registiche volutamente prolisse. <<Dicono che la vita sia breve, ma la vita è troppo lunga!>>, diceva Jimmy Gator in Magnolia. Ed è quello che sembrano pensare ogni attimo anche i due anziani amici in questo film. Quasi a lasciare intendere che ad una certa età sarebbe preferibile perdere completamente il senno o l’esistenza stessa piuttosto che stare ad osservare il mondo che rotola inesorabilmente sempre più verso il baratro e non poter far nulla. Non perché ormai privi di talento (come detto, il talento è la colonna portante di tutto il film, a qualunque fascia d’età si faccia riferimento), ma perché ormai spossati, disillusi, demotivati. Perché vecchi, insomma. Sta qui la drammaticità del film (non si parla infatti di tragicità vera e propria), nella consapevolezza cioè che il mantenimento di un talento puro anche in tarda età crea un’inadeguatezza di fondo alla società in cui si vive, che si vorrebbe invano ancora far esplodere come nei bei tempi ormai andati. Per questo rimane un film sulla giovinezza e non sulla vecchiaia, perché tratta del conflitto quasi irrisolvibile tra giovinezza d’animo, rappresentata dal talento appunto, incorruttibile e sempre presente, e il suo involucro materiale, sottoposto invece, forse salvificamente o forse a mo’ di condanna, alle corruttele del divenire. E non ci inganni il finale: La giovinezza è un film non propriamente ed esclusivamente positivo e speranzoso, ma un film narrante illusioni, disillusioni, vittorie e sconfitte. È ora una preghiera al buon Dio di poter risorgere dalle proprie ceneri, ora un’invettiva allo Stesso, reo di condannare ogni uomo all’appassimento. La giovinezza è tutto e il contrario di tutto, insomma.
A proposito. Nessuna uomo poteva esprimere tale conflitto meglio del terzo protagonista del film, emblema vivente di un verbo divino fattosi carne sotto le mentite spoglie di una semplice dote naturale: Diego Armando Maradona. Il suo ingresso in scena è da annali del cinema, in quanto un piano sequenza lo segue fin sulla lettiga dopo che l’ormai appesantito e malato genio del pallone ha fatto un bagno in piscina. Meravigliosa, tra tutte, la scena in cui il giocatore più superomistico della storia palleggia con una pallina da tennis, d’esterno, sotto il sole e appesantito come una betoniera. Il suo talento non viene minimamente scalfito dalla spiazzante ingiustizia della natura, che la volontà umana, alla maniera di un novello Fitzcarraldo, sembra per un attimo surclassare e abbattere. La stessa volontà che fa pronunciare all’apparentemente finito Diego, ancora una volta e quasi profeticamente, la parola futuro. In nome di un avvenire insperato che, come ben sappiamo, egli tornò davvero ad avere nelle vesti di allenatore della sua Argentina dopo ben cinque ricoveri (per ipertensione cardiaca, per overdose, per epatite e infine per disfunzione renale). Riscontriamo dunque due diverse reazioni alla vita nel film: da una parte, la decisione del vecchio regista di gettarsi dal balcone dopo aver constatato quanto brutto sia diventato quel mondo che credeva di conoscere e saper raccontare bene (alla maniera del protagonista di Birdman, per certi versi); dall’altra la testimonianza, seppur romanzata ma comunque reale, di un semidio dalle sembianze esclusivamente umane e per questo parecchio sofferente, ma pronto a ricominciare strenuamente, tentando il volo un po’ come uno strafottente calabrone in apparenza impossibilitato a farlo. Un po’ come un semidio, di fatto morto, resuscitato, rimorto, e di nuovo resuscitato, e avanti così per almeno cinque o sei volte e con una disinvoltura unica. Ma Maradona è anche altro. Rappresenta una netta presa di posizione in ambito artistico e culturale, in quanto oggetto speciale di un culto che è forse divenuto tendenza, ma anche personaggio emblema di un’ostilità profonda verso ogni tipo di cultura massificata di matrice americanistoide (la presentazione di Maradona avviene di spalle, mostrando il faccione di Marx tatuato sulla schiena; motivo per cui non arriverà alcun Oscar per Sorrentino). Torniamo dunque al messaggio iniziale, secondo cui tutto ciò che è sana cultura elitaria (nell’accezione di aristocratica) non dovrebbe avere nulla a che spartire con il cattivissimo gusto trash (ancor più che pop) di orripilanti video sbandierati su emittenti musicali, di effetti speciali terribilmente sovraesposti, della imperante monnezza seriale della tv preferita al vero cinema d’autore o semplicemente al cinema. Il tutto a scongiurare un concetto di bellezza inteso esclusivamente come pomposa e pompata ricchezza visiva, proponendolo invece come completezza etico-estetica (ne è l’incarnazione Miss Universo, capace, viva Dio, anche di parlare).
Ma allora cosa non funziona in una pellicola di cui, fino a questo momento, abbiamo tessuto esclusivamente lodi? La risposta è secca: la sceneggiatura! E se si acquisisse per un attimo il punto di vista di chi considera a buon diritto la sceneggiatura come il sinolo, come “il tutto filmico”, sia materia che forma estetica, allora questo film risulterebbe manchevole in toto. Se una messa in scena del genere fosse difatti corroborata da una sceneggiatura più pacata, più verosimile e senz’altro meno sentenziale, meno lavorata, in questo caso risulterebbe molto probabilmente un film delizioso, una vera opera d’arte. Ma se ai fasti di una pinacoteca trasposta su pellicola aggiungiamo dialoghi forzati ed epifonematici, la frittata sembra servita. E guardare La giovinezza è come assistere ad uno spettacolo circense nel quale ogni secondo esplosioni pirotecniche e salti mortali improponibili allietano (ma nello stesso tempo, alla lunga, affaticano) i nostri occhi. Il tutto appesantito da frasi che metteremmo benissimo in bocca a sciamani o santoni, quando, invece, sarebbe preferibile il silenzio (ed è lo stesso anziano regista interpretato da Keitel a trovare nel silenzio il giusto finale del suo film). E cerchiamo dunque di dare una nostra personale interpretazione di questa smania totalitaria che Paolone mette in mostra ogni qual volta impugni una camera da presa. Innanzi tutto soggetto e sceneggiatura degli ultimi due film sembrano entrambi tratti da 8½ di Fellini (ancor più che da La dolce vita). E i riferimenti sono parecchi: dagli artisti a cui manca l’ispirazione per ricominciare un percorso artistico agli ingressi in scena di personaggi bislacchi in pure stile carnescialesco e circense all’elemento onirico (presente in realtà, ma in maniera surrealistica e dunque enigmatica, già da L’uomo in più). Per non parlare poi dello stile registico manierato e manipolatissimo, in cui Sorrentino somiglia al più ebbro Scorsese: carrelli accelerati da parco avventure, dolly vertiginosi e a volte anche nauseabondi. Il tutto con un montaggio apparentemente originalissimo, in quanto tendente ad accavallare in modo alternato scene diverse prima che cambi definitivamente la sequenza, ma che in realtà richiama perfettamente lo stile di Donn Cambern in Easy Rider. Davvero originale, invece, la scelte kubrickiane e visivamente provocatorie di girare le scene dialogiche, anziché con un usuale campo-controcampo, con deliziosi piani d’ascolto (il che rende questo film, sotto certi aspetti, impopolare) e di allungare spesso il campo di ripresa, facendo credere allo spettatore che la scena stia per cambiare, per poi ridurlo nuovamente con netti primi piani. Tanta comunque, ma proprio tanta erudizione cinematografica riscontriamo in quest’ultimissimo Sorrentino. Ma possiamo ancora chiamarlo Sorrentino? È ancora sé stesso o si compiace forse eccessivamente e senza riscontro cinematografico reale di compiere rifacimenti post-moderni di film ormai passati? Il cinema di oggi ha più bisogno di “pseudoremake” o di autori d’eccezione, che sappiano, pur ancorati nella tradizione del passato, dare un’impronta nuova alla nostra realtà culturale? Non più di cinefili e sfrenati omaggi al cinema ha bisogno la cultura occidentale, ma di chi annienti l’oggi senza nemmeno menzionare ciò che è stato ieri, bene o male che sia (l’emblema, a tal riguardo, è l’ultima pellicola di Cronenberg, di cui abbiamo già parlato in questa rubrica, vale a dire Maps to the stars). Certo, la critica allo star system è abbastanza verace anche ne La giovinezza, ed è forse anche la chiave di volta dell’intera narrazione, per via della decisione finale del vecchio regista in seguito al rifiuto della sua musa di girare con lui. Ma tutto rimane in un involucro ermetico e vincolante che si chiama “richiamo ai modelli”. È come se il cinema di Paolo Sorrentino, insomma, vivesse di eterne contraddizioni performative, e questa è la ragione per la quale il pubblico ostenta reazioni radicali e contrarie: <<o lo si ama o lo si odia>>, dice qualcuno. E se questa recensione può apparire macchiata di vaghezza di giudizio, è solo perché abbiamo cercato di essere obiettivi quanto mai nel prendere una posizione a riguardo. E il nucleo del nostro giudizio sul Paolone nazionale è questo: il suo cinema è (diventato?) una pericolosa combinazione di cinema d’eccezione e cinema falso-autoriale. Facendo riferimento all’ambito calcistico, tanto per rimanere in tema, il suo cinema considerato di serie A sembra franare e retrocedere molto spesso in serie cadette. Uno stile insomma campato in aria, apparentemente barcollante, vago.
Ma La giovinezza è portatrice sana di una speranza, e cioè che, vista la parziale evoluzione rispetto al precedente La grande bellezza, il cinema di Sorrentino possa tornare pian piano a vestire i panni degli esordi, quelli del capolavoro assoluto L’uomo in più, per intenderci, mirabile esempio di equilibrio tra regia e sceneggiatura al cui livello nessun altro regista è mai arrivato. Che possa dunque tornare, il buon Paolone, a guardare la realtà come i protagonisti del suo ultimo film, con quel cannocchiale girato (non in segno di vecchiaia, ma di umiltà di pretese) così da non permettergli di volgere lo sguardo altrove, troppo lontano. Che possa puntare sempre meno, con l’età che avanza, a Hollywood e possa tornare a raccontare l’Italia, la sua Napoli, il nostro dramma meridionale. Riducendo la portata magari, ma si tratterebbe di una sua, di una nostra portata. Per tornare a farci sbraitare, dalle nostre salette, l’unica cosa che vale la pena urlare: <<Me’ coglioni!>>. Titolo a parte, naturalmente.
Gabriele Santoro
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