Vogliamo raccontarvi una storia. Ci sta un tizio che ha perso una figlia, morta ammazzata da ignoti, e che si ritrova a spalleggiare un’agente dell’FBI nelle indagini sull’omicidio di una ragazza, anch’ella morta ammazzata. Il lieto fine (si fa per dire) vede il nostro protagonista, che di mestiere fa il cacciatore (per la salvaguardia dell’indifesa fauna del luogo contro terribili predatori) rintraccerà il colpevole dell’omicidio e lo lascerà morire, male. Storiella banale, non è vero? Vi invito allora a vedere un film uscito da poco nelle sale italiane, vale a dire I segreti di Wind River. Una storia cinematograficamente a dir poco usuale, ma inserita in dinamiche narrative che lo rendono un film eccezionale. Partiamo dall’ambientazione: il film è girato interamente sulla neve. Su un bianco, tuttavia, per niente candido, ma macchiato da un colore agli antipodi simbolici: il rosso. Su un rosso, dunque, ematico. E il primissimo scorrimento di sangue è quello animale, quasi come se il regista, Taylor Sheridan, volesse gradualmente introdurci in una storia brutalmente violenta. Ma lo fa, nello stesso tempo, con un colpo di fucile roboante e acusticamente invasivo. Protagonista della sequenza è il nostro cacciatore, interpretato da Jeremy Renner, che fa del suo lavoro un orientamento etico. Annientare la ferinità animale, quel mondo di predatori seriali che minacciano l’esistenza di altri animali biologicamente impotenti al loro cospetto, rappresenta uno stravolgimento dello stato di natura di hobbesiana memoria. Uno sconquassamento, tuttavia, che non appare innaturale. Una dimensione “iperetica” nel microcosmo più selvaggio di tutto l’Occidente. Il film infatti è incentrato interamente sulle vicende di una comunità nativo-americana, quella della riserva di Wind River. In essa l’uomo bianco continua a perpetrare recidivamente, come i puma e i lupi delle nevi soggetti al mirino del fucile del protagonista, forme di indebite ingerenze politiche, sociali e civili, o, ancor peggio, forme di totale indifferenza (le autorità locali, infatti, lamentano nel film un numero di uomini insufficiente per ottemperare alla sicurezza e alla giustizia della riserva). La conquista del West si ripropone. La conquista del West, forse, non si è mai interrotta. E l’Occidente tutto sembra essere pronto a negare, se necessario, che sia mai esistito un Occidente, quello nativo-americano, diverso da quello da noi conosciuto, in cui la civiltà affondava le proprie radici su categorie a noi aliene, pericolosamente aliene, perché a noi sconosciute. La nostra società post-progressista veicola messaggi stucchevolmente perbenisti e monasteriali con ogni medium a sua disposizione, al fine di sensibilizzare noi, povere pecorelle smarrite, in tema di tolleranza nei confronti di questa o quella “minoranza” sociale. Ma la vera questione problematica, sembra suggerire il film, appare di valenza civile, non sociale. Nessuno prova a porre il tema in questi termine. Forse perché il contatto con altre civiltà sarebbe per noi poco gratificante, se non addirittura mortificante. Forse perché non troveremmo le risposte necessarie. Forse perché cerchiamo risposte dove non è necessario trovarle, in preda alla nostra smania, tutta occidentaloide, di porre l’intero mondo sotto una cappa di quella che potremmo definire onnispiegazionite acuta. Allora l’unico rimedio a questa inavvicinabilità civile è distrarre le stupidissime masse, che finiscono col blaterare sul nulla cosmico, appresso ai media di cui sopra. La vera diversità da tutelare è quella tra civiltà, in ultima analisi tra razze. Ebbene sì, questa parola si può ancora pronunciare, a dispetto del pensiero monasteriale sopra citato.
Un film, dunque, che narra le vicende di personaggi ingabbiati, stretti nella morsa di una violenza reiterata. Il protagonista è infatti attanagliato da una tragedia familiare che lo ha segnato irrimediabilmente. Che non lascia alcuna speranza, sentimento traviante e puerile (come ci ricordava già parecchi anni fa il grande Monicelli). Che lo ha portato, infine, ad una maturata capacità di “abbandonarsi al dolore”, convivere con e abituarsi ad esso (che non svanirà mai) affinché non rimanga schiacciato. Toccante ma allo stesso tempo glaciale, a tal proposito, il discorso a modo suo consolatorio del protagonista al padre della ragazza uccisa. Con cui è legato, oltre che dallo strazio, anche dalla conoscenza del mondo nativo. Il nostro protagonista non è nativo come l’amico in questione, ma nativa era l’ex moglie. Già, ex. Dopo la tragedia della morte della figlia il nostro cacciatore sembra non essere riuscito ad elaborare il lutto assieme alla moglie. Un’ennesima testimonianza della mancata convergenza di intenti esistenziali e categorie mentali tra l’uomo bianco e l’uomo (la donna, in questo caso) nativo? Più che probabile! Ma esistono uomini che riescono a vivere in un limbo, in una sorta di zona morta in cui gli sbarramenti socio-civili sembrano smussarsi. Zone d’ombra in cui uomini giusti riescono a quietarsi o a scoprire il proprio ruolo in questo mondo, a gestire l’ambivalenza, l’ambiguità di una scelta impopolare come quella di entrare senza alcun diritto di sangue in una comunità apparentemente chiusa e claustrofobica. E giusta appare anche la coprotagonista del film, un’agente dell’FBI alle prime armi, sottovalutata da tutti, ma capace di affrontare le tempeste violentissime (meteorologiche e non) che quel maledettissimo territorio abbandonato da Dio può riservare.
Passiamo adesso ad un’analisi prettamente formale. Urge a tal proposito una premessa di carattere estetico: il film può a buon diritto essere sussunto sotto la categoria del cosiddetto cinema minimalista. Quest’ultimo vede in storie il più delle volte trite e ritrite l’oggetto prediletto di formulazione cinematografica, perché capace di ottimizzare tempi, luoghi ed espedienti narrativi, tirando fuori da un piccolo cilindro opere inaspettatamente gradevoli. Questo è il cinema che oggi più ci soddisfa in tale sede. Perché non roboante o altezzosamente pretenzioso, perché genuino e frugalmente spontaneo, seppur inserito in piani di realizzazione prolissi e limatissimi. I segreti di Wind River presenta una messinscena a tratti estasiante, con scelte avvedute e mai banali (né tantomeno sopra le righe) che richiamano uno stile da western 2.0. La camera a spalla, comunque misurata e per nulla stucchevole, mitiga un netto e brusco ritorno al passato leoniano, consentendo una commistione di soluzioni estetiche caratterizzate da quella prerogativa che il cinema, ahinoi, non considera più tale: l’eleganza. Qualche esempio a riguardo: la già citata scena iniziale dell’uccisione del lupo da parte del protagonista, fulminea nella risoluzione finale e quasi commovente (nella sua naturalezza) appena qualche attimo prima, per il continuo campo e controcampo tra predatore e preda (ad evidenziare che, seppur giustificato, l’intervento umano risulta sempre chirurgicamente invasivo); le scene di conflitto a fuoco, calibratissime e corroborate da grandi prove attoriali (tra tutte quella di Elizabeth Olsen, in occasione dell’ingresso nella casa dei tre tossicodipendenti sospettati dell’omicidio, e naturalmente quella finale, di ispirazione tarantiniana ma assolutamente riformulata nella forma e nei toni); infine la scena immediatamente precedente alla carneficina finale, in cui si palesa un omaggio cinematografico (tra i più nobili e sentitamente appassionati di sempre) a Il silenzio degli innocenti. Quest’ultimo esempio merita un discorso a sé. Il film, fino a quel punto, presenta un montaggio lineare, ma il regista pensa bene di inserire, al momento opportuno, un’unica soluzione registica virtuosistica, vale a dire un brusco e inaspettato flashback che richiama, per la circostanza in cui avviene, una storica scena del grande capolavoro di Demme. Il tutto dosato, col contagocce. È questo il segreto dell’evidenza!
La sceneggiatura, poi, è tutto un gioco delle parti, una pantomima bella e buona capace di portarti in cielo per poi scaraventarti nella peggiore latrina umana. Da buon western qual è, il nostro film propone un registro linguistico, esposto dal protagonista, inizialmente solenne. Di una solennità quasi affettata, vistosamente anacronistica. L’America imbellettata e tronfia, dei berretti verdi e dei cecchini sulle baraccopoli mediorientali lascia spazio ad una doverosa indagine sul nauseabondo cuore della nazione, quella vera e non mediata dai colossi televisivi, quella della violenza irrilevante ai fini scandalistici, ma esistente, eccome! E lo fa scardinando questa stessa idea di America, rivoltando come un calzino il sottobosco socio-civile, per una volta protagonista in una storia hollywoodiana. I discorsi altisonanti del protagonista, i suoi dettami morali al figlio, la sua rigida postura da incallito NeoCon si sfaldano per mostrarci un uomo martoriato dalla vita, vacante nell’anima, se non fosse per il dolore che in essa alberga. L’emblema non dell’ipocrisia occidentale, ma della commiserabile e strenua tendenza ad apparire più forti di quanto si sia. Ora il rischio è che si possa sottovalutare la questione perché sottoposta ad una lente di ingrandimento, perché svuotata di ogni sana reticenza che la renda valida. Ma correremo volentieri questo rischio. E sapete perché? Ho letto i titoli di coda, e tra le figure di spicco ho notato un nome, quello del produttore del film, un uomo che ha sempre consegnato al pubblico mondiale grandi capolavori, mettendoci non la faccia, ma addirittura i soldi, scommettendo su progetti pilota che hanno rivoluzionato il cinema (non solo americano), consentendo, tanto per citare l’esempio più eclatante, ad un tipetto come Tarantino di scrivere la storia del post-moderno cinematografico.
Quasi dimenticavo, il grande produttore di cui sopra… si chiama Weinstein. E chi se lo aspettava…!
Gabriele Santoro
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