Alla voce fantascienza, il nostro personalissimo e aggiornato dizionario del cinema recita: <<genere oramai in disuso, se non impiegato al fine di veicolare messaggi pericolosamente e coattivamente imposti>>. Si dà il caso, tuttavia, che il film di cui parleremo oggi, che è innanzi tutto, per l’appunto, un film di fantascienza, post-apocalittico e distopico prima ancora che un action, rappresenti l’eccezione che conferma la regola. Nella appiattita e appiattente cinematografia fantascientifica odierna, rispondente ad un programma di riassestamento ideologico filotecnologico (e pensare che la fantascienza nasce per scongiurare il tanto agognato mondo della tecnologia! – mostrandone e svelandone le estreme e annichilenti conseguenze), Mad Max – Fury Road è un’inversione di tendenza nel genere che conosciamo. A primo acchito apparentemente maldestra. Ma, completandone la visione, il regista, vale a dire il maestro George Miller, rivela un gusto eccelso nelle scelte ora registiche, ora scritturali. I fasti nefasti di un’infinita rincorsa all’uomo, gli eccessivi orpelli di un’estetica asianeggiante ed estremamente impattante ostentata nella furia di un continuo inseguimento, col tempo lasciano il posto all’essenziale. Il film nel finale si libera di tutta la sua patinata confettura per restituirci solo ciò che più merita di essere impresso nella nostra memoria, cioè il messaggio finale. Tutt’altro che nefasto, questa volta. Tutt’altro che pazzo.
Trama: Max, un ex poliziotto ossessionato dai fantasmi dei familiari che non è riuscito a salvare durante il disastro nucleare, si ritrova quasi involontariamente ad aiutare la disertrice imperatrice Furiosa a mettere in salvo le uniche donne fertili dalla smania procreatrice del capo della Cittadella, Immortan Joe. Fury Road non è un remake, né un sequel dei film della vecchia saga. È piuttosto un rifacimento, una rivisitazione in chiave contemporanea e soprattutto postmoderna. Chiunque abbia visto già solo una sequenza della vecchia saga, coglierebbe al volo l’“accelerazione” stilistica, attoriale e di montaggio che quest’ultimo film propone. Un film che parte a tremila giri, pronto a dover cambiare marcia da un momento all’altro, ma che rimane, sospeso, perennemente sull’orlo del baratro, senza mai precipitare o sottostare al volere dello spettatore e concedergli ciò che desidera. Scalando di marcia anzi, anche se dopo macrosequenze d’azione ininterrotte. Un film che, diversamente dalle prerogative, risulta salvificamente impopolare. In quanto “osceno” sotto certi aspetti (nel senso beniano del temine), stirato ai limiti della sopportazione scenica ed (est)etica. Ed è proprio questa ricalcata e reiterata esasperazione filmica che conferisce alla pellicola la possibilità di divenire altro da sé. Abbiamo qualche tempo fa potuto appurare come l’ultima fatica di Martin Scorsese, vale a dire The wolf of Wall Street, fosse riuscita, proprio attraverso una durata eccessiva e sequenze tacciate di prolissità, a provocare sdegno nello spettatore nei confronti di quel mondo così variopinto ma deleterio e materialista che altrimenti sarebbe risultato ammiccante. E allo stesso modo, Fury Road risulta alla lunga tutt’altro che un film di scorribande automobilistiche. Delocalizzando infatti il focus della narrazione e ponendolo su un’impalcatura action, il grande Miller riesce Ad interloquire ancora meglio con lo spettatore (<<Se nel cinema vuoi dire qualcosa di forte, dilla attraverso il genere!>>, direbbe qualcuno). E la messinscena è perfetta. Il regista dà una lezione di cinema a tutti i registucoli di patetici blockbusters (comunemente definiti “americanate”), da Snyder a Nolan, passando per Bay. Lo stile è volutamente nevrastenico, così come il montaggio, ma nonostante ciò non provoca vertigini o convulsioni, riuscendo piuttosto a definire ogni minimo fotogramma. Assente quasi totalmente il tanto repellente rallenty (eccetto che nella scena della morte di Nux, il che conferisce al personaggio maggiore spessore e levatura), troviamo invece parecchie velocizzazioni, che richiamano il vecchio cinema rocambolesco e funambolico in bianco e nero (primo tra tutti Buster Keaton). Marchiabile come antineorealista, il cinema di Miller è tanto straniante da allontanare, quasi come in un sogno freudianamente esplicato, il tema centrale (che diventa contenuto latente), sovrastrutturandolo con elementi apparentemente secondari (contenuto manifesto) che il genere propone. Un cinema dunque più complesso, che tuttavia mette in risalto le problematiche affrontate più di quanto non riesca a fare un cinema più intuitivo, chiaro, lineare ma per questo banalizzato (la verità è perennemente sotto i nostri occhi, ma coperta da scene barocche che tuttavia non nauseano mai). La struttura del film, dunque, risulta altalenante. In maniera alternata impressionano nel prologo e nell’epilogo i temi trattati, mentre nella parte centrale del film vi è una ricchissima galleria di personaggi, peripezie, mezzi di trasporto e situazioni che possiamo definire, a pieno diritto, visionari. Tali, infatti, sono le auto, “disegnate” genialmente, proponendo autocisterne da duemila cavalli, vetture sportive su cingolato, altre arrangiate a mo’ di porcospini e altre ancora recanti lunghissime aste per l’“abbordaggio” da parte dei Koala. Per poi passare ai fotogrammi che rimarranno impressi nell’immaginario cinematografico collettivo: Max incatenato alla parte anteriore della vettura guidata dal figlio di guerra Nux, quasi a simboleggiare quelle caratteristiche prue delle Navi Dragone vichinghe recanti mostruose rappresentazioni apotropaiche; lo stesso Max, nella stessa circostanza, a fungere da “sacca di sangue” per un convalescente Nux; la mastodontica Doof Wagon, armata di altoparlanti, grancasse e diretta da un allucinante musicista mascherato che non possiede altro verbo che il suono distorto della sua chitarra – lanciafiamme (come se la musica eavy metal fosse parte integrante e indispensabile per le operazioni di guerra); la memorabile sequenza dello sfruttamento fisico inferto alle madri che mettono il loro latte a disposizione di Immortan Joe; lo stesso signore della guerra che, monopolizzando e privatizzando l’acqua, la raziona come fosse una pericolosa e assuefacente droga che provoca dipendenza; e poi la banda dei Koala, sfrenati assalitori dei veicoli altrui, e quella degli assatanati Porcospini; per arrivare alle commoventi sequenze della strenua protezione della borsa contenente i semi biologici da parte dell’anziana signora e del sacrificio (degno di essere chiamato tale, questa volta) di Nux per amore di una ragazza. Proviamo a dedurre adesso, da queste scene cult, un indirizzo di pensiero che Miller, quasi convulsamente e pazzamente, vuole proporre.
Cauto socialismo. O mancino conservatorismo. Sembrano retorici ossimori, ma celano un imperativo categorico in Fury Road: qualunque sia la forma di governo da cui è retta una comunità, l’unica arma che il popolo detiene è, paradossalmente, il potere istituzionale. Vale a dire che il popolo, dipinto in questo film come una massa informe priva di ogni capacità decisionale (ma per lo meno spudoratamente, dal momento che oggigiorno non ci sentiamo così inermi solo perché crediamo che un post su un social network significhi contare qualcosa in questo mondo), può solo augurarsi che sia un componente del sistema politico ad inaugurare un cambiamento sociale. Da qui ne deriva una critica ad ogni forma di incondizionata democrazia, data l’assenza di organizzazione e addirittura di capacità intellettiva della plebaglia nei momenti di acuta difficoltà. Dunque è il potere stesso, o comunque una sua parte moderata, non dispotica e afflitta da quella tutt’altro che virale malattia chiamata onestà etico-morale, a divenire inaspettatamente lo strumento del sovvertimento statale. Nel film, infatti, la ribellione parte dalla decisione di Furiosa di tradire Immortan Joe e non di certo dall’ultimo componente dell’ultimo gradino della scala sociale. Da qui una miriade di ipotesi interpretative. Miller vuole forse dirci che noi popolo non abbiamo alcuna speranza di destabilizzare l’ordine costituito e che anzi siamo condannati alla passività sociale? O forse vuole indicarci la strada per il rinnovamento, consigliandoci di sfruttare le nostre capacità per entrare nelle trame del potere ma senza rimanerne schiavi, e anzi sovvertendo, una volta dentro, un intero sistema, facendolo collassare dall’interno? A nostro avviso, Miller ha risentito parecchio della sua non acerba età, e ha “semplicemente” voluto ribadire quale sia la più sacra delle nostre potenziali risorse, vale a dire la libertà. Ricordate Monicelli? Ha per tutta la vita sbraitato ai quattro venti quanto fosse deleteria per i giovani la parola speranza. La sua morte, tuttavia, riformula un tantino la sua concezione della vita. Gettandosi dalla finestra dell’ospedale dopo che gli era stato diagnosticato un male incurabile in età ormai avanzatissima, ha mostrato alle nuove generazioni il senso delle sue precedenti parole. La speranza è nociva perché passiva, solo in potenza, preventiva insomma. La sua diatesi attiva corrisponde all’azione naturalmente, finalizzata esclusivamente al mantenimento della libertà, senza alcun compromesso. E allo stesso modo Miller ha parlato di speranza nel film, tacciandola di incompiutezza se non accompagnata dall’assunzione di forti responsabilità. Ma anche in questo caso l’agire secondo libertà è la chiave di lettura finale. Libertà non comunemente intesa, ma libertà morale. Nux, per esempio, è quasi condannato sin dall’inizio, da una sorta di forza provvidenziale, a morire per qualcuno. Non può scegliere tra il farlo e il non farlo, ma può deliberare per chi morire. E lo stesso vale per tutti gli altri personaggi, di cui prevediamo la fine già dall’inizio del film. Rispondiamo insomma ad una legislazione necessaria, ma all’interno di essa possiamo “liberamente” scegliere come adempiere al nostro “obbligato” destino. Dialettica dei contrari, apparentemente. Responsabilità morale, potremmo rinominarla.
Per un attimo torniamo al personaggio di Nux. La struttura a matrioska del film consente l’intersecarsi di migliaia di storie e caratteri. E tra tutti i componenti di questo dipinto munchiano che è Fury Road, spicca quello di questo giovane, incompreso e abbandonato. In primis: sembra l’unico figlio di guerra ad avere una coscienza, mentre gli altri agiscono per puro istinto (non di sopravvivenza, ma di morte). Ma è una sorta di coscienza plasmatasi in itinere, una volta affrancatosi dalle pretenziose aspettative di Immortan Joe. Il percorso di Nux è dunque paragonabile a quello dei protagonisti dei romanzi di formazione, nella quale un novello ‘Ntoni verghiano incappa nei furori giovanili e vi si dimena cercando un indirizzo alla propria esistenza. E ciò non può prescindere dalla ribellione nei confronti di un padre dispotico, depositario delle forze del figlio che ad esso è vincolato. Nux recide dunque il cordone che lo lega a Immortan Joe (le madri non esistono se non come macchine procreatrici), rivoltando il proprio complesso di inferiorità contro il padre. Che comprende di non aver mai amato, ma piuttosto venerato, cercando di non deluderlo mai e di ricevere da lui consensi. E intuisce soprattutto che se si deve morire per qualcosa, vale la pena di farlo per la propria amata. Al diavolo l’approvazione paterna e le promesse di vita eterna! La redenzione definitiva di Nux passa per l’immanente forza del sacrificio amoroso.
E dalla storia dei figli di guerra come Nux si può dedurre qualcosa di estremamente attuale. Miller, tra le righe, vuole mostrarci le trame di potere che si celano sotto ogni forma di atto terroristico che i media riconducono al fenomeno del fanatismo religioso. I kamikaze (chiamati nel film con un termine simile) non sarebbero altro che un esercito di inebetiti (per somministrazione di chissà quale sostanza) di cui l’Occidente si serve per sconvolgere le comunità. Difatti, così come nel mondo reale, anche in Fury Road la stessa figura che arma i figli di guerra, cioè Immortan Joe, detiene ogni forma di risorsa, tra cui l’acqua. Esercizio di finissima onestà intellettuale, da parte di Miller.
E questo film sembra propinarci altre tre certezze. La prima riguarda il dibattito sulla privatizzazione dei beni primari: nel periodo di maggiore destatalizzazione che il mondo abbia mai conosciuto, questo film ci mostra che dobbiamo diffidare di qualunque uomo politico proponga come punto cardine del proprio programma la privatizzazione di un servizio col pretesto di una migliore gestibilità dello stesso. Le risorse che realmente servono all’uomo non si esauriscono mai, sembra tuonare il film. Lampante in tal senso la sequenza in cui si scopre che Immortan Joe ha a disposizione infinite quantità di acqua ricavate dal centro della terra (anche se il discorso iniziale del signore della guerra lascia presagire che realmente l’uomo è capace di farsi schiavizzare da qualunque cosa creda di dominare, persino dall’acqua). La seconda certezza riguarda il binomio ribellione/rivoluzione: quella intrapresa da Furiosa è, inizialmente, solo una reazione femminista e giustiziera al padre, al fine di mettere in salvo le fertili donne. Ma una volta raggiunto il Giardino Verde e accortasi con rammarico che tutto si è ormai inaridito, decide, su consiglio di Max, di tornare indietro, alla Cittadella, e trasformare proprio quel luogo di sottomissione e inferno in un’oasi di pace che avrebbe voluto trovare nella terra natia. Il paradiso non è il Valhalla, né il tanto agognato luogo dei ricordi d’infanzia ormai andato in frantumi, ma ciò che è immediatamente sotto il nostro naso. Un film così apparentemente furioso e nevrotico si rivela di un ottimismo spiazzante e naturalissimo, mostrandoci che la via per la felicità collettiva passa per il rinsavimento della propria terra, e non di certo per una codarda fuga verso fantastici Eden, tali solo perché lontani e sconosciuti. La terza certezza è quella che più ci sta a cuore, viste le nostre ultime recensioni: il film condanna senza alcuna remissione la manipolazione del corpo umano, sia essa meccanica, genetica o tecnologica. Estreme conseguenze macchiettistiche, allucinate ma geniali sono i personaggi di Rictus e Corpus (autocitazione milleriana del personaggio di Master-Blaster di Mad Max – Oltre la sfera del tuono), due figli di guerra che, quasi connessi consanguineamente, rappresentano la mente e il braccio di un essere imbattibile. Una parte è fisicamente menomata ma intelligentissima, l’altra intellettivamente inefficiente ma erculea. Il progresso e la conseguente apocalisse hanno intaccato geneticamente il genere umano, manomettendone le proprietà e obbligandolo alla fusione meccanica e funzionale tra gli organismi. Altro personaggio emblematico è Furiosa, dotata di un braccio artificiale, che tuttavia, nel suo momento di massima debolezza e in preda alle lacrime, rimuove quasi a rappresentare una nudità integrale mascherata fino a quel momento da tenacia e falsa durezza. Per non parlare del corpo ormai totalmente mascherato di Immortan Joe, tra corpetti riproducenti fittiziamente una prestanza fisica ormai perduta nel tempo (critica alla smania autoerotica della cura del corpo?) e accessori che allunghino strenuamente l’esistenza. La vita invece, quella spontaneamente sorta e non oggetto di interferenze, viene spudoratamente e dolorosamente derisa e profanata. Davvero intollerabile la sequenza in cui il dottore informa con noncuranza e leggerezza verbale che sia la donna che il bambino nel suo grembo sono deceduti. Come se si fosse trattato di futili chiacchiere. Fury Road parla dunque della vita calpestata e del trionfo della macchina. Eretta, quest’ultima, a vitello d’oro.
In ultima analisi, diciamo che chiunque, in questo film, vive di ideali. Immortan Joe, il personaggio forse più intimamente combattuto, dedica la sua tribolata esistenza da dio minore alla generazione di una nuova e sana stirpe. Furiosa vuole tornare nella terra che le ha dato i natali. Nux cerca un valido motivo per morire. La povera vecchietta vuole far risorgere la natura, devastata dall’incoscienza umana. Mentre Max, avendo perso qualunque cosa per cui combattere, aiuta il resto dei personaggi a raggiungere i loro nobilissimi obiettivi, senza fermarsi mai, senza più pensare al passato. Ciascuno combatte per la propria causa, senza nette distinzioni tra personaggi positivi e non. Chiamateli dunque idealisti, chiamateli sognatori. Ma non chiamateli pazzi! Rappresentano l’uomo del XXI secolo, il quale, pur vegetando, stentatamente sbraita al mondo intero di essere ancora in pista. Vaneggiando e delirando, apparentemente posseduto da onnipotenza ma aggrappandosi ad ogni attimo in più di vita che riesce ad elemosinare da Dio. Sono semplicemente vivi. E il mondo appartiene a loro.
Gabriele Santoro
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