Can che abbaia non morde, è vero. Ma mai svegliare il can che dorme, e questo è ancor più sacrosanto. No, state sereni, non è la solita pubblicità progresso che punta sulla sensibilizzazione cinofila. È solo… una metafora. E persino il cinema ci ha mostrato, per via dei suoi precedenti tematici e narrativi, che è da incoscienti scherzare col fuoco apparentemente spento con atteggiamento oltranzista. Abusare dell’apparente predisposizione di un individuo al patimento è quanto mai pericoloso insomma. Niente di nuovo sotto il sole, per carità. Ma è drammaticamente e sconvolgentemente nuova la modalità in cui ce lo mostra un film spagnolo del 2010, sconosciuto ai più, vincitore del Leone d’argento a Venezia (molto più affidabile di Los Angeles), ossia Balada triste de trompeta (La ballata dell’amore e dell’odio). Facendo tuttavia astrazione da premi più o meno arbitrari e da limitativi atteggiamenti più o meno pregiudiziali dovuti alla nazionalità del film, bisogna ammettere che, probabilmente, è uno dei migliori prodotti degli ultimi anni. Premettendo che è un film non facilmente metabolizzabile e che appare a primo acchito eccessivamente tronfio, scenograficamente parlando, e pompato all’esasperazione a livello di sceneggiatura, man mano che lo si assimila si smussa in tutte le sue spigolature. Il film narra le vicende di Javier, pagliaccio triste di una compagnia circense, il quale eredita la passione per il circo dal padre. Quest’ultimo era stato a sua volta un pagliaccio allegro e aveva combattuto al fianco del fronte antinazionalista e antifranchista ai tempi della guerra civile per poi essere condannato ai lavori forzati sotto il regime di Franco. Javier è innamorato della donna del pagliaccio allegro, uomo gretto e violento, e la sua opposizione al rapporto tra i due provoca un’escalation di violenza che culminerà con la morte della donna e l’arresto dei due. Al di là della trama, apparentemente banale e melodrammatica, è un film che sedimenta, alla stregua di Cronenberg, ma che, diversamente dai film di quest’ultimo, presenta un’ingorda fame scenica con un’acme finale, in occasione dello scontro frontale tra i due, trionfalmente e baroccamente esibito che nel regista canadese, per esempio (e per ovvie ragioni), non troviamo. Già, ragguagliamo il sommo regista all’autore di questo film, Alex de la Iglesia, non per manie di blasfemia, ma a buon diritto, dato che, in un certo qual modo, anche oggi parleremo di mutazione. Tema più spartanamente trattato, non inerente al piano fisiognomico, tanto caro al primo Cronenberg, ma a quello caratteriale, psicologico, mentale. Umano insomma, immerso totalmente in un mare di azioni, situazioni, sconvolgimenti e cause da cui prende avvio. E, paradossalmente, continuando su questo versante, de la Iglesia sembra mischiare coscientemente le carte, rendendo tra loro vicendevolmente implicativi livello genetico e livello psicologico dei personaggi, del loro dramma. Ma vediamo perché.
Già, abbiamo parlato di dramma. Con cognizione di causa. Non nell’accezione claudicante e fallace del “gergo” (perché di questo si tratta!) giornalistico, il quale lo identifica col termine “tragedia”, ma in un’accezione… etimologica. Perché questo film ha un non so che di teatrale. Drammatico, per l’appunto, prima ancora che tragico. E questa componente risalta agli occhi allorquando il film si apre come una voragine (nell’ultima mezzora per intenderci) e sembra fagocitare tutti i personaggi, spedendoli in una dimensione altra, quasi caricaturale, fumettistica, senza dubbio scenica. Le vicissitudini dei personaggi piombano in un immaginario teatro e lì sembrano risolversi acremente. Dal basso della nostra umile posizione di spettatori, sembriamo assistere ad una storia convulsa, confusa, accelerata vertiginosamente nel finale. Ma proprio il cambio di scenografia e ambientazione, divenuto proprio nel finale volutamente monumentale ed esagerato, rende paradossalmente credibile l’epilogo. Tutto viene elevato sopra le righe e sembra assistere al finale di una tragedia (questa volta sì) greca. Ma diversamente da quest’ultimo termine di paragone, non vi è alcun messo che ci racconti cosa sia successo fuori dalla scena. Il tutto è ripreso, o, per rimanere in tema, portato in scena. E ha anche una spiegazione l’ambientazione dell’ultima sequenza, vale a dire l’apice della croce che si erge sulla monumentale Valle dei Caduti. Lì infatti ebbero inizio per Javier tutte le tribolazioni familiari, col padre costretto da Franco a lavorare alla costruzione dell’opera. Lì deve verosimilmente finire tutto. O ricominciare forse, nella più desolante amarezza e tristezza. Senza una donna, senza la donna. Tremendamente misogino, a tratti, il film. Di una misoginia istintiva e non ideologica, naturale e innata, verrebbe da dire. Logica, insomma. Perché come una sorta di novella Elena, la protagonista del film, donna avvenente, spontanea e prorompente, rappresenta un cliché del genere femminile. Quello della belloccia media e fondamentalmente ingenuotta, che, pur nella totale (forse) buona fede, provoca la più inimmaginabile baraonda sentimentale, civile, umana. Ne rimane compromessa questa volta non una città di mitologico retaggio ma l’animo dei due protagonisti. Scissi sino all’esasperazione da una binomica visione della faccenda, ora tentativo di far valere il vero amore per una donna, ora pretesto per scatenare semplicemente una rabbia repressa secolarmente. Ed è questo il fulcro del film. Chi dei due amava realmente la ragazza? Di sicuro non il pagliaccio felice, verrebbe da dire. Ma non siamo neppure tanto certi che la risposta giusta sia l’opposta. Ebbene sì, la maschilistoide sentenza che andrebbe tirata fuori da questo calderone è che sicuramente la contesa tra maschi alfa concerne più il campo dell’odio che quello dell’amore o addirittura dell’onore. Come ha osservato Andrea Rapisarda, “questa commistione di violenza della guerra e violenza dell’amore che Javier è costretto a subire lo plasma in un stile caricaturale molto alla Taxi Driver”. Niente di più vero. Javier non è semplicemente un pazzo schizoide ridotto allo stato semibrado, ma neppure un eroe (si badi bene), come non lo era Travis nel film di Scorsese. Entrambi semplici vasi traboccati per via di un’insofferente esasperazione. Apparentemente risorti dalle loro macerie di inamovibilità sociale, ma in realtà ancora più sconfitti di prima. E il titolo italiano del film sembra calzare perfettamente. In questa ballata triste cui il film allude anche (ma non solo) metaforicamente, rinveniamo una variopinta sfilata di personaggi al limite del verosimile. Carnefici, vittime, o soprattutto entrambi contemporaneamente. Ma tutti pagliacci. Tutti concorrenti di uno spettacolo circense (che sa molto di farsa assurda) chiamata vita sociale. E in questa visione che solo eufemisticamente definiremmo hobbesiana, violenze e continue usurpazioni sembrano minacciare chiunque, dal poveraccio come Javier al potente per antonomasia (Francisco Franco). L’”homo homini lupus” di plautiana memoria diviene “homo homini hyaena”. E come tale al delirio umano segue il ghigno beffardo e atroce, sanguinario e iracondo, come nel caso dell’agghiacciante scena finale, che vede i due protagonisti rispettivamente ridere amaramente e piangere dopo il loro ultimo scontro. E il finale che potrebbe apparire alla Michael Bay o James Cameroon, diviene paradossalmente l’unico da poter presentare. Lo scontro sulla croce della Valle dei Caduti rappresenta niente meno che la detronizzazione della storia, dei suoi miti di sempre. Una rivalutazione antiaccademica che sa molto di rivalsa dell’uomo inteso come singolo, prescindente da tutto l’apparato storico che i libri di scuola, su un versante o un altro, ci hanno sempre propinato. Le botte tra miserrimi e minuti pagliacci (neppure uomini) divengono uno scontro tra titani, epico, degno di un novero tra gli annali. Un simbolo degli ipocriti, blasfemi, populisti e roboanti fasti della dittatura franchista (o della dittatura in senso lato) usato beffardamente come semplice teatro di contesa personale, personalissima.
Lo storico Polibio rimproverava a Teopompo di aver incentrato le sue Filippiche eminentemente sulla figura di Filippo il Macedone e aver fatto della storia di tutto un popolo una misera cornice per le imprese del suo eroe. Ma non sempre piantare le vicende di un individuo in una storia già conosciuta appare di cattivo gusto. Perché, prima di tutto, in questo caso non si narra di un eroe, ma di vicende (almeno inizialmente) profondamente intime. È vero, film come Forrest Gump hanno fatto di questa impostazione narrativa un superfluo trastullo di sceneggiatura. De la Iglesia invece sceglie di parlare di un individuo che con la storia c’azzecca poco o niente, ma che la storia, quella dei padroni che la scrivono, la subisce o tenta di schivarla. Per inseguire ciò che realmente conta per lui, per imporre titanicamente la sua di storia, la sua di guerra. Per una donna forse. O semplicemente per una rivalsa personale, per far riaffiorare un’ira senza precedenti, che rischierebbe, altrimenti, di implodere. A proposito di guerra. Il tema è trattato con una maturità eccezionale. Mai di parte (il che non significa politicamente corretto), perché il regista sembra volerci dire che non esiste una resistenza pacifica, senza (gratuiti) spargimenti di sangue. In una storia scritta abbastanza manicheisticamente, ogni opposizione al potere è sempre vista benevolmente, anche qualora il prezzo della libertà sia un’efferatezza disumana. Ma il film va oltre. Ed è il caso delle sequenze iniziali del film. Il padre di Javier, pagliaccio allegro, sembra combattere da esperto mercenario, con una brutalità che sa più di repressa tendenza omicida innata che di patriottico livore libertario. Tutti coloro che impugnano un coltello, nazionalisti o meno, franchisti o meno, sembrano essere dei pagliacci, non solo chi vi è travestito. “Quando hai una pistola in mano, qual è la differenza?”, chiedeva Jack Nicholson in The Departed. Ed è proprio questo il punto. Non c’è un bene o un male, nemmeno se al cospetto di una resistenza socio-politica ad una dittatura come quella di Franco. Il film esprime il vero volto della violenza, nuda e cruda. Allo stato grezzo, non lavorato. Che non conosce bandiere, emblemi ideologici, politici, nazionalità o stato sociale. L’ira è una tendenza naturale, un’inclinazione universale e tutti, ma proprio tutti sono capaci di calare l’asso della violenza furibonda. Un monito dunque per i padroni, che da gente come Javier, vilipeso e reietto, un vero poveraccio, non si aspetterebbe mai una simile reazione alla vita. E la verità sembra detenerla un unico personaggio nel film. Si tratta del primo pagliaccio triste, spalla del padre di Javier. Nell’episodio in questione, alla insistente e reazionaria recluta del fronte antifranchista, impegnato nella resistenza, il pagliaccio, “dall’alto della sua umiltà”, rivendica la sua volontà e il suo bisogno di continuare a lavorare anziché combattere. Naturalmente verrà abbattuto come un cavallo malato e non si vedrà più. È come se il miglior personaggio non abbia possibilità di vita in quella Spagna adesso troppo presa da ostilità che sanno più di scontri tra quartieri allo sbaraglio. E allora, al fine di sopravvivere, il padre di Javier diviene all’occorrenza un criminale. Come farà, anni più tardi, il povero figliolo.
Non c’è alcun dubbio sul fatto che de la Iglesia conosca benissimo il cinema europeo. Il suo risulta essere un film innovativo nella messa in scena, ma che affonda le sue radici in un cinema classico, mai di cattivo gusto. Pur corroborando l’estetica del film con trovate considerabili eccessive, pur realizzando un film a volte sopra le righe, tutto rientra negli argini e non risulta essere indigesto. L’influenza di Fellini è evidente, soprattutto per l’ambientazione circense (che fa pensare immediatamente a 8½) e per le conseguenti pretenziosità e magniloquenza delle riprese. Ma i movimenti di camera non sono quelli nauseabondi dell’ultimo Sorrentino (o dello stesso Fellini), ma trovano nell’equilibrio il loro punto di forza. E nemmeno nel miglior Fellini potremmo trovare un’immagine così esteticamente impattante, destinata a divenire cult, come quella della grottesca e atrocemente satirica donna pagliaccio (da cui è travestito il padre di Javier durante gli scontri) che uccide a colpi di machete e versa sangue a bizzeffe, prendendoci gusto. Per non parlare della fotografia, nitidamente chiaroscurale, contrastata ma al punto giusto, affidata a Kiko de la Rica, che sembra ricordare Tom Stern, lo storico direttore della fotografia nei film di Eastwood. E come già annunciato nell’incipit, de la Iglesia sembra essersi spolpato tutto Cronenberg. O almeno la sua seconda fase, quello di A history of violence. Non a caso citiamo proprio questo film del maestro canadese perché, per certi versi, sembra collimare, tematicamente parlando, con La ballata dell’amore e dell’odio. In entrambi i film assistiamo al risveglio di una coscienza non politica, non di classe, ma antropologica, sociale. E se nel film di Cronenberg Viggo Mortensen era già stato un omicida (come, per intenderci, Clint Eastwood nel suo capolavoro Gli Spietati), Javier scopre di esserlo progressivamente, insieme allo spettatore, che si sconvolge, al cospetto di cotanta logica sanguinaria, inaspettata, ma nello stesso tempo prevedibile. Qui dunque si parla di una mutazione propriamente detta, poiché l’involuzione (o evoluzione, dipende dai punti di vista) viene narrata in tempo reale e lo spettatore vi assiste autopticamente. Le turbe psichiche degenerano ogni istante di più fino a raggiungere l’apice; credibile, perché frutto di una quasi estatica scalata graduale verso la pura follia. Ma il terribile messaggio veicolato dal regista sembra riguardare la natura genetica dell’ira. Proprio come un tumore, questo sentimento può anche covare per anni e anni, ma, se si è ad esso programmati e predisposti, non si attende altro che una scintilla che faccia scoppiare questa polveriera. Cosicché non ci si possa stupire se persino un individuo apparentemente fesso e indefesso esplode irrimediabilmente. E un plauso va, naturalmente, ad un attore straordinario che interpreta Javier, vale a dire Carlos Areces. Sconosciuto ai più (noi compresi), che dà una lezione di recitazione al mondo intero riuscendo a trasformarsi, trasfigurarsi ed effettivamente raggiungere l’estremo delirio con una strepitosa mimica facciale.
Un film essenzialmente socialista. Che esplica una rivoluzione degli ultimi che non attendono il Regno dei Cieli; dei reietti. Tali perché goffi, antiestetici, poco accattivanti o poco violenti. Che si riscoprono tuttavia capaci di diventarlo e surclassare tutto e tutti. Per ottenere nulla tuttavia (e qui risiede la sconfitta definitiva dell’uomo). Un film impossibile, per certi versi, da decifrare. Ora noir, ora commedia amara, ora horror, ora gautieriano (la trama del film, eccetto il finale, è molto simile a quella del romanzo Capitan Fracassa di Gautier), ora action, ora tragedia. Con quel finale estremamente gotico, che suggella la fine di una donna presentataci come un angelo caduto dal cielo e morta, invece, da demone seminatore di discordia cacciato via dall’aldilà. Incapace di provare vero amore; che pagherà caro, con la propria vita. Ennesimo film pseudo-apocalittico, per certi versi, che recensiamo. Perché, in fondo, solo non dispensando gratuite speranze, in finali lieti, il cinema può davvero consegnarne alcune.
Gabriele Santoro
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