Storie dentro altre storie. Storie dietro altre storie. E questo sembra fare il cinema. Raccontare qualcosa e adombrare realtà altre e stranianti, a volte inaspettate. Scatole cinesi insomma, scrutabili fino ad un certo punto e tanto atroci e sconcertanti da non poter essere sfiorate per paura che qualcosa sia svelato sotto il segno dello scalpore. È il tormento del cinema. Ma ne è pure l’estasi, perché sottacere certi aspetti della vita privata di un attore è l’unico modo per credere realmente che quegli individui che interpretano personaggi vari siano solo sagome sfocate e senza personalità alcuna, che si attivano e animano solo dopo un ciak. E noi ci crediamo, crediamo a questa sindrome “bartoniana” alla Bruce Wayne che affligge uomini comuni tanto esanimi e insignificanti da divenire fenomeni da baraccone solo dopo aver indossato una maschera. Ci crediamo, ma fino a prova contraria. Quando la sacrilega cronaca nera, più o meno menzognera, perfora il tessuto artificioso del mondo altrettanto fallace del cinema e si mostra nuda a noi, qualcosa si rompe. Il cortocircuito determinato dai due livelli, fittizio (narrativo e cinematografico) e reale (di vita vissuta), che si sovrappongono più o meno congruentemente, creano un disorientamento di fondo. E chi, sentendo della morte per overdose di Philip Saymour Hoffman, non ha subito pensato al protagonista di quel bel film di Sidney Lumet, Onora il padre e la madre, e a quello di Truman Capote di Bennett Miller, da lui stesso magistralmente interpretati? Realtà e rappresentazione invadono pericolosamente i reciproci domini. “Oltre il giardino” sembra esserci ancora mondo insomma e oltre il cinema Hoffman sembrava avere un’esistenza sorprendentemente troppo simile a quelle di alcune sue indimenticabili interpretazioni. E adesso che siamo entrati ignobilmente nel suo privato, alcuni suoi film si sostituiscono alla realtà per potercene mostrare una che prima non avremmo mai (o quasi) pensato di accostare alla sua persona, così apparentemente esente da vizi più o meno criticabili. L’eroina e l’alcool nella vita di ogni giorno ma anche in quella professionale, in quei film sopra citati. Un metodo Stanislavskij, potremmo azzardarci a dire, a tal punto profondamente e beffardamente applicato. Ma l’informazione non può denigrare l’operato artistico (perché di questo si tratta) del più grande caratterista del mondo. Sottoscriviamo quanto detto. Perché lo era davvero! C’è chi riscopre il buon Lucio Dalla solo dopo la sua dipartita (la nostra generazione per esempio, ma <<meglio tardi che mai!>>, verrebbe da dire) e chi lo ha sempre amato. E Hoffman lo abbiamo sempre amato! Nato, cresciuto e sepolto dal cinema, come i grandi della storia (da Rino Gaetano nella musica al fenomeno Ronaldo nel calcio) ha abbandonato presto la sua “professione”, già tuttavia foriera di un’eredità sorprendentemente corposa. Da Scent of a woman, per niente offuscato, seppur ancora acerbo, dal veterano Pacino, al ruolo del segretario servile nella commedia che ha spaccato il secolo, Il grande Lebowski, ai tre film capolavoro firmati Anderson, vale a dire Boogie nights, Magnolia e The Master (tanto negligentemente vituperati dalla critica), alla performance nostalgica de La 25esima ora fino a quelle da protagonista nei sopracitati Onora il padre e la madre e Truman Capote. Tutte interpretazioni da canonizzazione. Altro che banalissimo Oscar…! Immagino l’uomo Hoffman, combattuto e afflitto, fare della statuetta, qualora avesse deciso di portarsene una fino a casa, un appendi – cappello. Spesso si crede erroneamente che sia la fama a corrompere gli animi. Magari è invece questione di abissi esistenziali che nemmeno la fama (questo sì) riesce a colmare. Non si tratta di un’apologia del vizio, ma di ammettere che a volte ci sono dinamiche nel mondo dello star-system (o in generale della cronaca nera, seppur privata, comunque pubblicizzata) che non riusciamo a comprendere e che, soprattutto, non abbiamo il diritto di giudicare. <<È il voler giudicare che ci sconfigge>>, diceva Kurtz in Apocalypse Now, in ogni senso. E se da una parte un regista temerario come Cronenberg porta sulla scena cinematografica le latrine hollywoodiane occultate da fasti barocchi, c’è chi invece di questo mondo posticcio da facciata color panna rimane pubblicamente e realmente vittima. Perché magari ingenuamente o sadomasochisticamente in balia di manie autodistruttive chiamate droga o quant’altro. A tal proposito, dunque, vadano rimosse e catapultate in un sacro oblio le interpretazioni sopra citate così pericolosamente attinenti alla sua vita quotidiana e alla cronaca che lo ha definitivamente relegato all’altro mondo. Altrimenti il giochino rischia di interrompersi e il cinema passerebbe da “fabbrica dei sogni” a “latrina degli incubi”. Si ricordi dunque quella sorta di sciamano metropolitano interpretato in The Master. Rimanga impressa quella magnifica sequenza della costrizione nei confronti di un altrettanto strepitoso Joaquin Phoenix di tenere gli occhi aperti fino alla lacrimazione. Ma si dimentichino Truman Capote e Onora il padre e la madre. Piuttosto, riaffiori alla nostra memoria persino la sua leggera ma divertente interpretazione in Alla fine arriva Polly, nei panni di un attore ormai da tutti dimenticato, aggrappato alle glorie del passato, spaccone ma inconcludente. L’unica certezza che abbiamo è che Hoffman, invece, non verrà mai dimenticato come attore. Si renda omaggio dunque ad un professionista che già tanto aveva dato al cinema. Eterno secondo forse e quasi mai protagonista, ma va bene così. Perché nelle poche interpretazioni come attore principale sembrava annichilire titanicamente l’operato di chiunque gli stesse attorno sul set. Un J. Phoenix, un W. H. Macy, un M. Walberg, un C. Cooper, un J. Bridges gli tenevano testa con fatica, sul filo di un rasoio. È stato tutto ed il contrario di tutto nella sua carriera. Si pensa sia quello del cattivo e spietato il ruolo che rende di più per un buon attore. Ma la grandezza di Hoffman risiedeva nell’aver consegnato ad altre tipologie di personaggi uno statuto cinematografico inaspettato, così da ergere un timido e reietto, un filosofo e master postmoderno, uno scrittore autolesionista, un segretario a parassita a titani più di quanto non sia riuscito a fare con il terribile antagonista in Mission Impossible III. È stato un attore ingombrante, vero, talentuoso, istrionico e giustamente spregiudicato. Un attore mai in sordina. Ogni sua battuta era un tuono, anche se a volte marcata, in Italia, dal troppo schiacciante doppiaggio di Pannofino. Bastava la sua mimica facciale per convincere. Come in Magnolia, con un’espressione da ebete stordito cui vengono concesse rivelazioni mistiche, mentre cerca di rintracciare Tom Cruise al telefono. Espressione non da tutti. Espressione che va immortalata con un primo piano fisso (un plauso al regista!).
C’è poi un secondo livello su cui analizzare le carriere degli attori: le loro collaborazioni. E Hoffman ha creato, tra gli altri, un sodalizio con il regista forse più controcorrente della nuova generazione, vale a dire Paul Thomas Anderson. E l’anticonformismo scenico di quest’ultimo, che scruta i personaggi sino all’esasperazione visiva e all’astenuanza riflessiva, sceglie Hoffman come marchio di fabbrica. O forse è stato lui ad aver scelto Anderson. Perché l’immagine dell’attore inteso come figura media, intellettualmente parlando, inerte e inetta, prima donna e puttana facilmente gestibile dal lenone chiamato regista, è solo una vecchia e anacronistica leggenda, o per lo meno non sempre è veritiera. Perché uno come Hoffman sembra aver dimostrato, nella sua breve, travagliata ma brillante carriera, tanta onesta intellettuale e tanta maturità professionale, quasi mai prostituite all’interesse economico che il mercato cinematografico nove volte su dieci propugna. E Anderson aveva di certo scritturato altri personaggi per lui; da destinare, ahinoi, a terzi. Nella speranza che nasca una nuova generazione di attori che, come lui, decideranno di porre il loro talento a servizio della causa. Senza narcisisticamente prevalere, in ogni film, sugli altri interpreti. Perché si può essere protagonisti comunque. E Hoffman lo era, anche con un cameo di dieci minuti.
Gabriele Santoro
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