LE SIRENE DEI TRENTA

benigniSuggestioni di metamorfosi. O, più verosimilmente, sosia da controfigura che assumono pensieri altri. Ma la verità è un’altra: l’agnello combattivo, integerrimo e socialmente impavido si sfianca moralmente sempre più, divenendo leone squattrinato, balordo, miserabile. Gli stati uniti d’america sono il male dell’umanità, il bene delle sue tasche; aggiungiamo che più si perde umanità, più si riempiono le tasche (o viceversa); concludiamo sillogisticamente che se ci si vuol (s)vendere a qualcuno, il miglior acquirente è l’america, il leone per eccellenza, ma miserabile per eccellenza. Due parole dunque: Roberto Benigni. Rassicuriamo tutti coloro che, in preda ad un shock anafilattico, non vorrebbero si facesse vilipendio delle spoglie del Robertone nazionale: il venduto in questione, il prostituitosi per meno di trenta denari, il corrotto nell’umanità e l’ingordo nelle tasche… è proprio lui! Che cambiamento radicale quello suo, che concessione gratuita (?) del proprio deretano! Sempre in posa, per l’abuso di messera america.

Metamorfosi, si diceva. Già, e per dimostrare lo straniante percorso involutivo di Benigni ci serviremo di due film da lui diretti e interpretati, famigerati quanto mai: Non ci resta che piangere e La vita è bella. Chiariamo all’istante: il primo è un capolavoro della storia della comicità italiana, il secondo è il maggior e probabilmente più indigesto (ad ogni uomo che mostri di avere appena un minimo di buon senso) polpettone della storia della cucina (non di certo del cinema) italiana. Ma andiamo con ordine. Non ci resta che piangere rappresenta la quintessenza del cinema d’autore; impegnato politicamente (nell’accezione di socialmente e socialisticamente); impiantato nel genere probabilmente più arduo (la commedia); indipendente. Non tanto da grosse produzioni, ma nel senso vintage del termine, in quanto svincolato da pressioni ideologiche, mediatiche, comunicative. È la storia di un bidello (Troisi) e un maestro (Benigni) che si ritrovano inspiegabilmente nel 1492. Dopo irriverenti e divertentissime peripezie, decidono di recarsi in Spagna per impedire a Colombo di partire alle volte dell’Occidente e scoprire una terra che sarebbe stata la rovina del mondo. Un film apparentemente lontanissimo da noi, ma che rivela problematiche tanto attuali quanto irrisolvibili. Perché nel 1984 si parlava già, da un lato, di una macroamerica, costituita da tutto quel calderone di ideali, ideologie, stili, modi, consuetudini, relazioni e rapporti imposti ed esportati più o meno coercitivamente; dall’altro di singole incarnazioni di tali credenziali americaniste, come Fred, lo spasimante, nel film, della sorella di Benigni. E ciò che più scuote è che sia proprio Benigni a pronunciare una feroce e sentita invettiva nei confronti di un’america sanguinaria, arrivista e carnefice. E al di là che il personaggio di Benigni sia mosso da questioni personali in questo biasimo spietato (non vuole che la sorella sposi Fred), è comunque una sequenza forte, insolita per messaggio veicolato, temerario e sfrontato, nella sua genuinità. E non si tratta di un personaggio scritturato da terzi e ad esso affidato. Il film è stato scritto e diretto da Troisi e dallo stesso Benigni, quindi è chiaro che Robertone abbia plasmato la personalità di questo combattivo maestro delle elementari sulla propria, a propria immagine. Un film a loro misura insomma, sfottente sino all’esasperazione, in cui la consapevolezza intellettuale di Benigni viene mitigata dalla (solo) apparente incoscienza intellettuale di Massimo Troisi. Un film in cui l’ironia diventa satira ma permane nell’ambito dell’umiltà più assoluta. Forse perché così diretta, defronzolata, destrutturata. Il monologo di Benigni appoggiato sul muro dell’ingenua Pia non ha nulla di malizioso. Non ha nulla dell’odierno Crozza, per intenderci. È satira solo ciò che verrà dopo, nella carriera del comico toscano. Quello, be’, è solo uno sfogo antiamericano che tutti vorrebbero sbraitare al mondo intero. E l’invettiva è reiterata, tanto che per tutta la sequenza successiva si discute sul talento degli americani, arrivando alla conclusione spropositatamente iperbolica secondo la quale nell’arte non esiste un solo americano degno di nota. Troisi e, ancor di più, Benigni sembrano entrare a gamba tesa senza temere un’espulsione. Ma il sistema mediatico sa come tappare buchi e rimediare alle situazioni spiacevoli. Sa insomma disinnescare mine vaganti e fare, all’occorrenza, da artificiere. Perché due sono le strade che portano all’omologazione informativa: l’eliminazione secca o la corruzione. E l’espulsione di cui sopra, per Benigni, non arriva. Ma arriva, ahinoi, una telefonata dall’alto.

È chiaro che il sistema americanistoide abbia visto una vena pungente in Benigni da poter rigirare a proprio vantaggio nemmeno fosse stata una frittata di uova e cipolle. E probabilmente non esiste cosa più umiliante e mortificante che essere tagliato fuori permettendoti di rimanere dentro. Trasmutandoti in ogni tua essenza. Modificandoti geneticamente. Perché ne La vita è bella è presente la più toccante dichiarazione d’amore della storia del cinema. Non quella rivolta a sua moglie o alla vita, ma proprio a messera america. Perché non passa inosservato quel finale antistorico, balordo, meschino, disonesto, traviante e induttore di ignoranza profonda in cui gli ameriCANI vengono dipinti come gli affrancatori dell’europa centro-settentrionale. La storia ufficiale (e non di certo quella underground) ci ha difatti insegnato che della liberazione di quella parte di europa e dei campi di sterminio si sono occupati soprattutto i ben più vicini Russi. È lapalissiano il processo di acuta mistificazione messo in atto da Benigni. Raccattatore di Oscar, accattone di consensi, raccoglitore di applausi. Caro Benigni, “gli applausi dicono molto di chi applaude e poco di chi è applaudito”, diceva un saggio professore. E a questo proposito, la fama di questo film denota un’elevatissima negligenza storica di chi lo preferisce a tanti altri. È logico che se avesse presentato i Russi come liberatori dei campi non sarebbe riuscito a vedere Los Angeles neppure col binocolo. Ma di fronte a questo bivio, avrebbe semplicemente potuto abbandonare l’idea di realizzare quel finale, con quel bambino trionfalmente e tronfiamente esibito su quel carro armato (roba da accapponare la pelle, a testimonianza del fatto che in america tutto termina con scorrazzate barocche e millantatrici). E invece no! Decide piuttosto di calare l’asso e mostrarci una sequenza da reato penale, penalissimo. Sia chiaro: ciascuno di noi è in vendita ed ha un prezzo in questo mondo. Ma qui non si tratta di costi e sconti, ma dell’esorbitante scarto intercorso tra il Benigni critico e quello politicamente corretto, tra la spina nel fianco di una cultura somministrata per endovena e l’amico fidato della stessa, di cui è oramai barboncino raccattaosso. Se facessimo l’esperimento di vedere prima Non ci resta che piangere e immediatamente dopo La vita è bella, rimarremmo spiazzati, disorientati. Un altro regista, un altro sceneggiatore, un altro uomo. Prostituzione intellettuale, potremmo definirla. Risposta a quella telefonata di cui sopra, ahinoi, potremmo rinominarla.

E Non ci resta che piangere non è che il secondo esempio di un Benigni capitano di ventura, disincantato nella sua protesta, per niente docile o addomesticato. Il suo esordio alla regia risale infatti all’anno precedente, il 1983, con Tu mi turbi. In questo film rimane celebre l’episodio della dura presa di posizione contro il sistema bancario, con la solita verve causticamente giocherellona che lo contraddistingueva. All’invito del direttore di banca a ricevere delle garanzie economiche inerenti al prestito richiesto per un’eventuale impossibilità di estinzione del debito, Benigni ribatte: <<Direttore, allora, se io ho bisogno di una melanzana e devo andare dall’ortolano, devo avere un miliardo di melanzane a casa?>>. Benigni aveva creato un personaggio tutto suo, che aveva già esibito anni prima a teatro, il contadino toscano Cioni. E con Tu mi turbi non fa altro che trasporlo in termini cinematografici e urbani. Un personaggio ingenuo (come si nota dall’episodio della banca), squisitamente smaliziato, fortunatamente per noi poco immesso nella civilizzazione che appiattisce e smaterializza. Sotto mentite spoglie si celava in realtà un intellettuale arguto e acuto, strenuo detrattore, socialisticamente parlando, delle magagne dei poteri che contano. E per di più credente, secondo uno schema che la sinistra intellettualoide e culturalmente dominante del tempo (e di oggi) non propugnava affatto.

Esiste poi un sequel della saga “I politici ghigni… di Benigni”, si chiama La tigre e la neve. Di certo un film più apprezzabile e un tantino più onesto de La vita è bella, ma non eccessivamente convincente. Narra di un professore la cui amata entra in coma in Iraq, durante la guerra. Un film apologetico sulla figura del soldato (americano), dipinto pateticamente come un uomo qualunque che fa della paura l’elemento predominante al fronte, in quanto spossato, debole, solo, abbandonato e bla bla bla. Per carità, cose sacrosantamente vere. Ma nel frattempo Benigni dimentica di parlare del perché la guerra in Iraq, l’ennesima guerra in Iraq ci sia (cosa fondamentale). E questo vuoto pneumatico va compensato con una melensa farcitura poetica sotto cui si sedimenta il nulla, il trastullo buonista. Scomodare il D’Annunzio poeta, sommo per antonomasia (dell’Alcyone, per esempio) non basta per distrarre paraculisticamente il pubblico dalle domande cui il film davvero dovrebbe rispondere e che non prende volontariamente nemmeno in considerazione. Ma urge una doverosa digressione: probabilmente chiunque di noi svenderebbe la propria coscienza critica alla fama hollywoodiana, al denaro facilmente riscuotibile, all’ammiccamento verso i più influenti, potenti. Ma sta a noi umili fruitori cinematografici, per lo meno, giudicare quale sia stato il miglior Benigni, il vero Benigni, riconoscendo la sua fase matura negli esordi, e la sua fase corrotta, in realtà, nella sua fase considerata matura. Ammettendo inoltre che la resistenza ad una certa sottocultura di matrice statunitense non rappresenta(va) per Benigni un suo sbandieramento politico a tinte rosseggianti. Al contrario il comico che oggi è diventato, quello sì che rappresenta la vox populi progressista, mancina, satiricamente emancipata; pddina, renziana, soprattutto, neodemocristianamente europea. Protagonista di un programma di manzoniano riassestamento culturale che parte dalla latrina chiamata tv e finalizzato a riscuotere consensi politici tra i sempre più sfiduciati Italiani (ricordiamo a proposito gli appuntamenti con le esegesi della costituzione o del nostro reazionario inno nazionale). Programma pianificato, naturalmente, da quel diavolone in giacca, cravatta e pietra filosofale che il presidente Napolitano rappresenta. Non dunque burattino della sinistra italiana, si badi bene. Ma, come si è detto, suo protagonista d’eccezione, sua punta di diamante. Nulla di diverso dal rappresentante artistico dell’altro versante, Barbareschi. Ma il nostro retaggio politico-culturale, snobbante e saccente, ci impone di considerare quest’ultimo poca roba in confronto a Benigni. Eppure, cosa è peggio: l’assenza di talento o una genialità sprecata e investita male?

P.s.: Si è appositamente deliberato di lasciare in minuscolo parole come americano, americani, america, costituzione, inno nazionale, europa. Entità queste ultime troppo spesso menzionate ma così lontane da noi da non doverle nemmeno avvicinare col pensiero e da non meritare un carattere grafico d’eccezione. Sia questo un umile invito a parlare del nostro di paesino, sia esso Agira, Regalbuto, Nissoria o Leonforte, e di nient’altro sia lontano appena un palmo dal nostro naso. Tornare insomma alle culture locali è l’imperativo categorico. Non italiane, non regionali, ma solo paesane! Perché siamo così protesi col naso all’insù da non comprendere che è la realtà particolare il vero punto focale da cui ripartire. Senza troppe pretese.

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