“Quant’ so’ brav’, quant’ so’ bel’”, sembra voler sbraitare sul red carpet dei Golden Globes ai quattro venti, da buon napoletano mattacchione qual è. E il suo imperturbabile aspetto, nonostante sembri che abbia raggiunto la totale atarassia, cela difatti la sua consapevolezza di essere (stato, aggiungiamo) il miglior regista al mondo. O almeno il più virtuoso della camera da presa. Avete presente quei falconieri che, unici al mondo, maneggiano rapaci come fossero peluche? O quelle ostetriche che osserviamo con invidia mentre si destreggiano brillantemente con un neonato tra le braccia? Bene, Paolone Sorrentino è chiaramente un tipo che smanetta la camera come un giocattolino, con i calli del mestiere, conducendo la sua professione, col tempo, diversamente da quanto si possa pensare a primo acchito, più verso una dimensione tecnica e artigianale che artistica (che non sempre coincidono). Ma andiamo con ordine. Non parleremo oggi in modo specifico dell’ultima sua fatica, La Grande Bellezza, bensì del suo cinema in toto, della sua “poetica”, segnata da una netta linea di demarcazione che la suddivide in due fasi ben distinte: una che oserei definire contenutistico – antropologica, un’altra invece prettamente estetico – masturbatoria. Detta così sembra essere stata una scelta selettiva ad aver regolato la nostra categorizzazione dei suoi film. Se non fosse che della prima fase appartiene la sola opera prima, L’uomo in più. Per intenderci, la biografia di Paolo Sorrentino potrebbe pure fermarsi lì. Inizio della carriera artistica e nello stesso tempo suo totale appagamento: 2001. E la sua odissea non è in nessuna orbita spaziale, come l’anno suggerisce, ma in una profonda e, soprattutto, umile indagine sulla coscienza dei protagonisti. Già, coscienza e umiltà sono le mots-clés di questa opera. Coscienza e non psiche. Perché questo Sorrentino ha la capacità di essere riflessivo e problematico all’ennesima potenza, senza avere alcuna pretesa però di incapsulare i personaggi in una fissità precostituita e pregiudiziale (molto più romanzesca che cinematografica, come si nota dalla sua ultima difettata opera, con un’insopportabile voce fuori campo di un paranoico Servillo). Paolone comprende in questa prima fase come il cinema, etimologicamente parlando, sia moto, azione e come gli attori altro non siano che “agenti assoluti”, in quanto sciolti da ogni soffocante vincolo imposto dall’alto dal “narratore”. L’uomo in più dà la parola a tutti noi. E sotto l’etichetta del “soddisfatti o rimborsati” ci permette di vedere nei personaggi ciò che vogliamo liberamente vedere senza alcuna ingerenza. La loro azione, diretta e non mediata, restituisce dunque una loro coscienza etica (comportamentale) più di quanto non lo riesca a fare l’indagine psicologica di una voice-off atta a imboccare emozioni allo spettatore, al fine che non fraintenda nulla (ed ecco la componente umiltà). È la scena a dover parlare, nient’altro. Nessun totalitarismo intellettivo. Evviva il fraintendimento insomma. E Sorrentino sembra aver capito dalla sua opera prima che il cinema, il suo cinema, poteva e doveva essere una macchia di Rorschach. Un’aura surreale e surrealista (alla Bañuel, ravvisabile nei sogni del protagonista, la cui esplicazione è lasciata in sospeso) che non entra affatto in rotta di collisione con una narrazione, come detto, lasciata libera alla sola azione. “Il realismo non esiste”, diceva un vecchio professore. Nel senso che non esiste puro e che non può prescindere da implicazioni altre. E L’uomo in più è il film più umano e, in questo senso, lasciatemelo dire, realista che la cinematografia post-moderna italiana (se non addirittura moderna, azzardando confronti col solo e sommo Monicelli) abbia partorito. Ed è profondamente realista anche e soprattutto perché, al di là della (e armoniosamente in opposizione alla) forma, è un perfetto “ciclo dei vinti” dei nostri giorni, narrando tutte le sfaccettature della sconfitta umana. Un realismo moderno, contornato da una regia che è di un’eleganza eiaculatoria e che non scade mai nello stucchevole né nel pacchiano (si ricordi a proposito il piano sequenza in discoteca, da annali del cinema). Sorrentino non fa avvertire o pesere la presenza del mezzo cinematografico, pur con virtuosismi di alto livello, comprendendo quale sia la discriminante che renderebbe il suo film barocco. Si mantiene paradossalmente più equilibrato di quanto si pensi, anche grazie ad una sceneggiatura sobria, a tratti volutamente sporca, idiomatica, timida e sentenziale, che rispecchia benissimo una realtà provincialotta, arrivista e angusta che opprime i due Pisapia. Ma è anche un film didascalico. Vedendolo si comprende cioè qual è il modello perfetto di cinema in termini di capacità di veicolare messaggi. Nel senso che un buon film come questo lascia l’amaro in bocca. E per meglio metabolizzarlo va rivisto. E rivisto. E così via, senza mai del tutto saziare la nostra esigenza di chissà quale natura. Un cinema insomma attanagliante, alla maniera, per certi versi, cronenberghiana. Tutto qui.
La ricetta perfetta insomma nelle mani di un arguto Sorrentino. Se non fosse che comincia a manifestare, con i successivi film, una verve diversa che risente di una memoria a molto breve termine. Allora Paolone, film dopo film, rincara sempre più la dose e, come uno schizzoide bambino di cinque anni con una pompa in mano e un palloncino da gonfiare, preme sempre più il pistone fino a rischiare lo scoppio e…via con dolly vertiginosi, estenuanti carrellate e panoramiche da capogiro. Tutto un po’ sopra le righe e frenetico, mostrando continui lapsi dovuti al peso eccessivo ed evidentissimo che la camera acquisisce. L’involuzione è però stata graduale. Si è passati dalla regia ancora a tratti bilanciata di un grottesco e comunque gradevole (e apparentemente sottotono) L’amico di famiglia a un Le conseguenze dell’amore (quello sì) sottotono e non apprezzabile se non con un rincaro sostanziale di movimenti di macchina, virtuosi al limite del possibile (creando però una collisione stridente tra sceneggiatura con pretese eccessive, abbastanza limata e forse affettata, e regia altrettanto eccessiva). Poi abbiamo una tregua. E Il divo lo è perché il protagonista risulta essere sopra le righe tanto quanto lo è la messa in scena e, anche se si ha sempre l’impressione di navigare a vista e rimanere perennemente sospesi durante la visione, il film non si prende mai comunque realmente sul serio, almeno ad una lettura primaria. E poi? Poi l’oblio. Premesso che non si possono pretendere da Eracle tredici fatiche, dico pure che undici e mezzo Sorrentino le aveva già portate a temine con solo L’uomo in più. Allora la caduta (che comunque coincide perfettamente col maggior tasso di popolarità raggiunto) è ammorbidita dalla doverosa riconoscenza artistico-culturale che la sua prima fase merita e di cui la troppo verace critica non deve essere dimentica. Ma non si può non ammettere quanto il dolly si sia fatto carne negli ultimi due film. Quanto Paolone si sia autoeroticamente trastullato tra tutte le miriadi di opzioni che quel giocattolino che teneva tra le mani gli offriva. Una spregiudicata sublimazione della tecnica cinematografica che non è ahimè sublimazione artistica. Il deragliamento del mezzo cinematografico verso la sola catarsi estetica; l’unica possibile, per la potenza eccessiva del suo impatto. Allora ecco il tentativo di rendere la sceneggiatura funzionale alla messa in scena (la cosa forse più deleteria) e non invece viceversa. Ecco il tentativo incauto di incastrare a dovere il tema(-prezzemolo) dell’olocausto in This must be the place o di porre troppa carne al fuoco, che brucia già a fine primo tempo (prima che entri in scena insomma il “personaggio chiave di volta”, la Santa), ne La grande bellezza. Con ciò non si intende denigrare questi ultimi due film incondizionatamente, ma in relazione ad uno standard artistico di levatura altissima cui il regista ci ha abituato nella prima fase e con i film che ancora ne risentivano. Il problema sta dunque nell’idea stessa di cinema, diventato da estetizzante ad anestetizzante, da visivamente ricco a tronfio. La superbia precede la caduta, è vero. Ma il buon Paolo non è superbo. Ha semplicemente cominciato, magari narcisisticamente, a percorrere la lunga e comunque meritata discesa dopo aver scalato l’Everest e, di conseguenza, a raccogliere quanto seminato proprio ora che è in atto il deterioramento del suo cinema. Quella frase di cui sopra, sul red carpet, l’avrà pure pensata. E che la pensi anche a Los Angeles, durante quella pantomima che la cerimonia per la consegna degli Oscar rappresenta! Vale per quella volta nel 2001 in cui meritava di pronunciarla ma non poteva perché assente. La dica pure! La sua parte nel cinema, tanto, l’ha già fatta.
Gabriele Santoro
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