L’ULTIMA TENTAZIONE DI QUENTIN (su “Grindhouse” di Tarantino)

Peggiu dell’irricanuscenza c’è sulu ‘a ‘ppatenza” – Cultura popolare

Sembrano non sbagliare mai gli antichi. Manco la fame è così lacerante come l’ingratitudine. Perché per quanto qualcosa sia realizzata gratuitamente vale pur sempre la formula del “buon rendere”. Ma il cinema e la sua storia più o meno recente non possono rivendicare da sé, nei confronti di registi e produttori, una qualche riconoscenza. È obbligo morale di chi il cinema lo ha portato avanti per anni come fortunata professione sottoporre alla nostra attenzione una parte di storia che non c’è più. Non tanto impedendo che il progresso inarrestabile e già sceneggiato abbia compimento, quanto più prendendone coscientemente e pubblicamente atto e focalizzando su di esso maggiore acume critico. Dire grazie, insomma, alla pellicola. Nulla di scontato in tutto ciò! Perché in un mondo ormai senza storia recente, appiattito non nel presente ma in una continua rincorsa alle volte di un irraggiungibile futuro (Cronenberg docet in Cosmopolis), tutti ci abituiamo a svolte più o meno epocali come fossero banali cambi di stagione. E se nulla più ci sconvolge o impietosisce, la riconoscenza artistica di un maestro e autore contemporaneo come Quentin Tarantino, nei confronti del mondo che lo ha reso grande, vale il triplo di quanto dia a vedere. Si passa al digitale, e nel torpore letargico e assuefacente della latrina hollywoodiana sembra essersene accorto solo lui. Quanto analizzato in funzione “nostalgica” nel saggio che ha inaugurato la nostra rubrica Grandangolo (“Si scrive digitale e si legge capitale”) trova insomma un illustre portavoce e pioniere nell’industria cinematografica delle maxi produzioni, dello star-system imposto e degli Oscar barattati. Gratuito populismo mediatico, quello del regista? Può darsi, ma cosa importa! Ci interessa poco se Tarantino abbia concesso un’ultima dose di morfina ad un circuito in stato vegetativo e destinato ormai alla sepoltura quale quello delle pellicole e poi se ne sia lavato le mani senza il minimo scrupolo e con la coscienza a posto. Perché la gratitudine, quella sì che conta! Verso un mondo fatto di imperfezioni, di crepe, di sane e salvifiche aporie. E a questo rende omaggio il suo film del 2007, Grindhouse, A prova di morte. Prima che il mondo cioè venisse invaso da una pandemia di digitalizzazionite acuta, Tarantino ci consegnava un film magistrale e, paradossalmente, innovativo. È un omaggio a quel cinema anni ’60 appartenente alla cosiddetta serie b: film cioè a basso costo e con trame non impegnative (e Tarantino avrà modo di patrocinare e presentare una rassegna di b-movies italiani in occasione della 61ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia). E l’omaggio è evidente soprattutto negli espedienti tecnici adottati perché il riferimento a quel determinato cinema potesse rendere maggiormente: bruciature di sigarette, sgranature, fuori quadri, inquadrature sfocate e salti e tagli di pellicola. Il tutto, naturalmente, riproposto e ostentato continuamente, come mero gioco registico autoreferenziale forse, ma anche e soprattutto come preziosismo artistico che possiamo fare nostro in quanto rappresentazione di un universo rarefatto e ormai lontano e di una qualche componente di artigianalità e corporeità che la visione di un film ha ormai perso (tutto è HD). Una chicca insomma questo film. E non pensiamo mica che il buon Quentinone volesse ergersi a paladino delle ultime salette del mondo che non possono prescindere ancora oggi dall’impiego del supporto pellicola. Ma finisce, come detto, più o meno involontariamente, a incarnare l’immagine di un regista che, dopo aver scosso, destabilizzato e detto ormai tutto sull’epoca post-moderna del cinema, decretandone di fatto la fine, immola doverosamente la sua opera agli altari del (supporto) passato, quello buono, genuino della pellicola, forse perché unico, dai Lumiérès fino all’altro ieri.

E stilisticamente parlando, questo film non si fa mancare assolutamente nulla. La messinscena è perfetta e, con quel giocattolino tra le mani, Tarantino sembra decollare, pur rimanendo ancorato ad un certo classicismo. E ciò che gli permette di ottenere uno scarto a suo vantaggio nei confronti di registi ormai incauti come Nolan o Sorrentino è la capacità di bilanciare azione e stasi nelle riprese. Che questa sanità si sia parzialmente persa nel recente Django… quella è un’altra storia. Perché A prova di morte sa amalgamare benissimo carrelli evidenti a camere fisse, “action” a dialoghi cervellotici e prolissi (i quali, forse, hanno permesso che molti lo etichettassero, negligentemente, come il peggior film del regista). E Quentinone, da gran burlone qual è, sa divertire, ma soprattutto divertirsi. In questo film difatti si prende gioco di quei suoi fans affetti da “nerdismo acuto” da una parte, dall’altra di coloro i quali disprezzano incondizionatamente tutto quanto fuoriesca dal cinema hollywoodiano. In occasione dell’uscita del film, chi si aspettava molto sangue fu deluso. Lo fu pure chi desiderava una trama molto più congeniata. Piacque tanto alle donne, che videro nella pellicola il perfetto epilogo di quel cinema tarantiniano femministoide ad esse tributato (da Jackie Brown a Kill Bill), con protagoniste capaci di frenare il “macello di carni” del folle stuntman. È vero, il film è spudoratamente dalla parte delle donne e non vi è quell’”Aufhebung” finale che scavalchi la accademica divisione tra Bene e Male. Se in Kill Bill infatti l’uomo rivela alla fine la vera natura omicida di lei, la quale se ne rende conto ma non può non portare a termine la sua vendetta, in A prova di morte le donne che uccidono sono il Bene, lo stuntman è il Male, fine della storia (anche se è condannato un certo stile di vita femminile – delle prime protagoniste, che si “espongono” a tal punto da trovare la morte). Ma tutte queste sono chiacchiere da bar. Il film, come detto, non ha difatti alcuna pretesa, in quanto “b-movie”. Piuttosto nessuno parlò nel 2007 della valenza estetica, storica, artigianale del film. Perché il pubblico, vedendolo, correva subito dall’operatore in cabina lamentandosi della bassa qualità della pellicola. E Tarantino, per via di questa sorta di provocazione formale, avrà goduto parecchio, proponendo a tutti un modo di far cinema antipopolare, sfrontato e menefreghista. Infatti, agli albori della “primavera digitalizzante”, mentre il mondo si preparava all’evento 3D del secolo (Avatar, di qualche anno dopo), nessuno avrebbe mai potuto immaginare che vi fosse un regista al mondo così pazzo da realizzare un film appositamente “rovinato”. Se vi è dunque un testamento artistico di Tarantino, quello è A prova di morte, realizzato sì con apparecchiature altamente tecnologiche (nella seconda parte Tarantino fa infatti tutto ciò che gli frulla per la testa e che i mezzi gli consentono di fare, passando addirittura per un magnifico e “nitido” bianco e nero), ma utilizzate per ricostruire tecnicamente un mondo che quasi non esiste più. Un film che ci consegna un’incontrovertibile verità: non si può far cinema senza guardare come lo si è già fatto. Sia relativamente ai mezzi (il supporto pellicola) che per quanto riguarda il piano artistico e culturale (l’importanza dei classici, anche e soprattutto se al fine di rinnegarli), è necessaria dunque una conoscenza di fondo.

Quella che segue, in fondo alla pagina, è la scena più emblematica del film e in essa è racchiusa tutta l’idea di cinema tarantiniano. Un paio di minuti nei quali una delle protagoniste si esibisce in una lap-dance per “stuntman Mike“, magistralmente interpretato da Kurt Russell. Bene… questa scena è quello che gli Americani, a volte maldestramente, definiscono cult. E ha tutte le carte in regola per esserlo: una ragazza bellissima, di una bellezza non classica ma carnale e morbosa (anche la sua prorompente fisicità tutt’altro che comune al cinema e alla televisione lo dimostrano); un attore che non potrebbe che essere lui; una location caratteristica (un pub “on the road”); infine una musica straordinaria, la canzone Down in Mexico. È girata, naturalmente, come solo Tarantino sa fare: primissimi piani su dettagli, quali per esempio il piede di lei che incautamente si posa vicino al cavallo dei pantaloni di lui, il ginocchio al teso  torace o i due visi che si sfiorano, a testimonianza della forte e repressa tensione sessuale di tutta la sequenza; e poi quel carrello circolare, mai pacchiano e opportunamente inserito quando la canzone improvvisamente cambia ritmo così come cambiano le movenze di lei. Ma ciò che realmente attribuisce l’immortalità a questa scena è la fase finale, il passaggio alla scena successiva. Infatti quella della lap-dance è una scena fortissima per impatto visivo, tanto da non potervi trovare una degna conclusione. Ed ecco ergersi il genio di Tarantino, che cala l’asso e, inaspettatamente, al minuto 3:36 del video, “taglia la pellicola”, la fa saltare senza mostrare la fine della lap-dance, quasi come se mancassero parecchi fotogrammi, smorzando così le aspettative di tutti e riabbassando terribilmente il ritmo. Un lapsus del mezzo cinematografico diventa per la prima e ultima volta nella storia del cinema una voluta scelta stilistica e narrativa. Tarantino dunque, non di certo inconsapevolmente, conferisce all’imperfezione del supporto analogico della pellicola uno statuto artistico, che sa molto di addio, di eutanasia. E proprio questo espediente ci consente di intraprendere una riflessione teorica sul mondo della pellicola. L’analogico è costituito da un segnale che si definisce continuo, perché, anche interrompendosi per qualche attimo a causa della presenza di fotogrammi corrotti, esso passa ai fotogrammi successivi, consentendo la visione. Il digitale, invece, è costituito da componenti discrete (perché il film non è “impressionato” su alcuna pellicola) che non consentono la fruizione continua se non compromettendo intere scene o sequenze. Per semplificare in modo estremo: se un dvd si inceppa, lo possiamo gettare; se è un vhs (e soprattutto una pellicola) a danneggiarsi, si può rimediare tagliando quei determinati fotogrammi. Per non parlare poi dei guasti in cui incorre il segnale digitale, che spesso, come notiamo dai nostri televisori, non arriva per periodi più o meno lunghi.

Insomma, dietro una semplice scelta di montaggio e in un film che è stato considerato un flop, si cela tutto il mondo del cinema: quello della cabina dell’operatore, il quale ripara ancora pellicole usurate o spezzatesi per il troppo cumulo nelle bobine; quella della monosala di paese, che ancora può conoscere questa realtà incontaminata.

E rivedendo adesso questo film, sette anni dopo, mentre l’organigramma del tanto scongiurato “nuovo ordine digitale” si è costituito, fa ancora maggiore effetto. Forse solamente per noi, che il cinema lo amiamo, prima ancora che come strumento culturale (ebbene sì!), come luogo di una certa artigianalità, repressa all’ombra della piattaforma virtuale su banda larga. Perché “la cultura forse passa, ma le tradizioni devono rimanere”. L’omologazione ci è (stata) imposta da un’ondata di ammiccante progresso, il quale non è tuttavia modernità. Tutti a compiacerci dunque di fronte alla discretezza e alla conseguente interruzione del segnale digitale, a dispetto della “continuità analogica”. Perché il bello della pellicola, in fondo, è sempre stata la sua componente di esclusiva rimediabilità del supporto. Anche se corrotto, bruciato, imperfetto. Gagliarda per questo, la pellicola; metafora di tutto. Basta tagliare e ricucire. E si riparte.

 Gabriele Santoro

Fonte: UniversoTarantino

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BISBETICI DOPATI VOL.3, COSMOPOLIS

Temerarietà, strafottenza, pugno duro. Quanti registi vorremmo avessero queste qualità! Senza mezzi termini, fustigatori e critici sino all’insofferenza. Tanto da divenire un peso sullo stomaco, da essere palesemente impopolari. Lo è Scorsese naturalmente, come già detto nel precedente capitolo. Tuttavia quest’ultimo riesce ad essere “pop” almeno nello stile, nella messinscena e nel linguaggio. Sceneggiature deliziose e sopra le righe corroborano regie magistrali. Ma esistono poi registi alieni, che comunicano ancor più criticamente, per codici e con una regia molto meno ammiccante. E non si sta parlando naturalmente di un cinema onirico, angosciante e indecifrabile alla Linch né di un ormai datato surrealismo felliniano, ma di un regista che, probabilmente come Kubrick, si comincerà a comprendere tra qualche decennio per la potenza dei suoi messaggi. Infatti non si vuol credere fideisticamente che Cronenberg abbia avuto da giovane rivelazioni misteriche da una qualche entità suprema. Ma il suo cinema ha un non so che di… mistico. E la sacralità in questione varca i confini strettamente tecnici del mezzo cinematografico. I suoi film non sono mai esteticamente esaltanti. Nessun movimento di macchina vertiginoso, nessun preziosismo fantasmagorico. Perché è l’immagine del perfetto regista che compie un assoggettamento del medium ai messaggi da veicolare, andando contro ogni umana logica del guadagno che l’industria cinematografica mondiale propone. Non si avverte quasi mai la pesantezza della camera da presa perché non cincischia mai con quel giocattolino che tanto diverte registucoli (a confronto) come Nolan e Sorrentino. Quasi come l’opera si facesse, immensa e grandiosa, da sé. Quest’impronta glaciale da cinema europeo gli ha permesso di trattare temi scomodi e irritanti, di un’attualità terribile. Fino all’ultima sua fatica, irrecensibile forse. Ma in un periodo nel quale Cronenberg è precipitato nel più profondo oblio, parlare del suo cinema è sempre e comunque propedeutico. Passiamo, dunque, al film del secolo.

Già, perché Cosmopolis descrive, destruttura e infine condanna senza tuttavia alcun patema la società contemporanea e i poteri che ne indirizzano il percorso. Il tutto con una messinscena parecchio, troppo autoriale. Di un’autorialità ostentata come mai è successo col regista canadese, ma funzionale alla causa. Perché il film deve risultare snervante e logorroico all’ennesima potenza, ambientato in luoghi angusti, resi tali non necessariamente dalla loro limitatezza dimensionale (si pensi all’auto in cui è girato gran parte del film) ma dalla ossessiva e seriale presentazione di identiche tematiche in ogni scena, affrontate da personaggi diversi. Diverse visioni del mondo che stridono e infine collidono irrimediabilmente. Il film è incentrato sulle vicende dell’uomo finanziariamente più potente al mondo, che, per raggiungere il suo parrucchiere di fiducia, deve attraversare tutta la città, bloccata da manifestanti, anarchici, da un funerale di stato e dalla visita del Presidente. Un viaggio metropolitano filtrato da un microcosmo, quello della limousine, e da una galleria di personaggi ora astuti, ora intelligenti, ora guardinghi, ora apatici, ora disperati e spregiudicati. Che disquisiscono di economia, sembrerebbe. Anche, ma non solamente. Ciò che a noi comuni mortali sembra dibattito finanziario non è altro che dibattito cyber-finanziario, dunque tecnologico. Alt, perché si necessita di più di cinque minuti di silenzio assoluto per comprendere la portata terribilmente tsunamica del dialogo tra il protagonista e la bionda esperta di storia e teoria economica a metà del film. A nostro avviso è il punto focale. Perché si parla di cyber capitale, innanzi tutto. Di soldi dunque (e qui si torna a The wolf of Wall Street) irreali per chi investe e reali per chi incassa. Ma si parla soprattutto di tempo, di progresso dunque. Di come cioè qualunque cittadino medio si ribelli al potere (il che fa già comunque notizia, almeno in Italia, in Sicilia, ad Agira soprattutto) non perché conscio della propria condizione sociale (la rivoluzione di marxiana memoria) ma perché impossibilitato a seguire le orme della falcata del progresso, troppo veloce, troppo disorientante. I cittadini rimangono indietro perché, paradossalmente, preferirebbero avere di meno (di quel superfluo tecnologico). Perché vorrebbero che si ricominciasse a marciare a passo d’uomo, come non si fa più da tempo. Perché vorrebbero sia tutto un po’ meno pianificato e scandito dai martellanti tempi che la tecnologia e la finanza, maledettamente abbinate, impongono. “Viviamo in un perenne futuro”. Così presente da divenire il nuovo presente, perdendo quello autentico. Siamo proiettati, ci suggerisce Cronenberg, verso una destinazione che sembra non avvistarsi mai. Verso un mito da raggiungere cui cercheranno di approdare anche i nostri figli e figli dei nostri figli e così via senza sosta e soluzione. Viviamo per il futuro in un presente inesistente. Una corsa contro il tempo insomma! Non una rivolta per rivendicare diritti in campo lavorativo o sociale, ma per riportare il tempo al suo naturale e non coercitivo corso, strappandolo dallo statuto di “bene aziendale”. E questa forbice che vede da una parte i potenti e dall’altra insoddisfatte mine vaganti è ben rappresentata dalla netta frattura tra due piani del film: uno che potremmo definire inside (il contesto all’interno della limousine) e uno outside (all’esterno). E l’intuizione geniale di Cronenberg sta proprio nell’aver reso cyber-punk non l’ambientazione outside, ma l’interno della limousine e di aver dunque fatto attecchire l’atmosfera futuribile in un microcosmo asfissiante e aver invece ridotto (o semplicemente lasciato) all’osso il mondo circostante, quasi come se le scene outside fossero ambientate ai giorni nostri. La limousine è chiaramente l’habitat dei poteri forti, tecnologizzata e confortevole, ma l’esterno è atemporale, un mondo in balia di continui sovvertimenti, che non gode affatto del progresso perché ne viene fagocitato. E mentre il mondo scappa dal tempo e dal futuro, l’imperturbabile Pattinson non sente che qualche scossone o urto a quell’astronave che ha come veicolo, quasi come a lasciar intendere che il potere, a qualunque livello si trovi, non risente minimamente dei trambusti socio-economici (quando non è addirittura esso stesso ad orchestrarli). Anche la categoria dello spazio insomma tende a estraniare alcuni personaggi rispetto ad altri, ma elemento per nulla scontato è che ad essere rappresentato come emarginato e reietto non è il popolo, ma il potere. Con questa esplicito allontanamento del potere dall’outside, Cronenberg, a nostro avviso, avrebbe mostrato due aspetti distinti del mondo contemporaneo: da una parte si intuisce come la tecnologia abbia quasi lo scopo di costringere gli individui ad una rincorsa alla totale semplificazione e al totale annullamento di ogni sistema relazionale col mondo circostante, assimilabile persino ad un così piccolo ma così “completo” involucro come può essere una limousine (basti pensare alla stanza di ciascuno di noi, divenuta a causa di quella latrina di Facebook un apparentemente immenso universo); dall’altra Cronenberg ci mostra la disfatta dell’uomo moderno partendo però da una disillusa fiducia nei confronti di chi il potere, sia esso scientifico, sia esso finanziario, come in questo caso, lo incarna. Se insomma Scorsese provoca conati di vomito a coloro ai quali è indirizzata la sua critica, Cronenberg parla all’uomo. All’uomo dell’alta finanza, all’uomo di potere, ma innanzi tutto all’uomo, che è consapevole di essere ad un passo dal precipizio, nonostante sia troppo tardi. Un essere che inglobato in un mondo tutto suo decide, non senza remore, delle sorti del mondo (non solamente finanziario) senza averne un minimo contatto e di fronte ad un semplice monitor. Ma ci sono sequenze in cui il monitor si stacca e il protagonista deve per forza maggiore relazionarsi con l’outside. E a cosa mai può dedicarsi un uomo che sta segregato tutto il giorno in un’auto, dopo essere stato a contatto con tabelle informative, indici, percentuali e numeri da capogiro? S E S S O! Rincorrendo per esempio sua moglie, una donzella insopportabile e fastidiosamente indecifrabile e chiedendole di continuo di poter far l’amore, credendo che sia il modo migliore per consolidare il loro insolito e comunque sfasato rapporto. Oppure andando a letto con una sensuale componente della sua guardia del corpo. Nel momento cioè di massimo livello di capacità tecnologico-finanziarie raggiunto dall’umanità, l’uomo più potente del mondo ha un solo hobby extra lavorativo, il sesso. Come a voler dire che la reazione dell’uomo (stressato dal peso del potere e svuotato di ogni umanità) ad una vita da cani è liberarsi di ogni sovrastruttura e scatenare gli istinti primordiali, che diventano, paradossalmente, le reali e più genuine esigenze nonché le uniche, perché non finanziarie o virtuali. Anche la limousine è teatro di desideri sessuali, ma se nel primo caso è per lui un’esperienza insipida con una flaubertiana Juliette Binoche, è spontanea e irrefrenabile la “tensione sessuale”, come lo stesso Pattinson la definisce, che coglie una sua consulente che lo va a trovare in auto. Tensione sessuale che svela la reale natura umana, nascosta tra un pallottoliere di Wall Street, una disquisizione sul saliscendi del valore della moneta e una bottiglia sgretolata che funge da antistress. Il tutto durante un check-up che il protagonista è solito fare ossessivamente ogni giorno, in una sequenza tra le più memorabili della storia del cinema. Ipocondria pura mentre fuori regna l’anarchia. Ma tutto paradossalmente quasi senza malizia, perché il film rappresenta la degenerazione di un potere, quello finanziario o tecnologico, che sembrava aver illuso tutti con aspettative fuori dalla portata dell’uomo (lo dimostra il fatto stesso che Pattinson non si fidi delle macchine e ogni giorno cerchi di scongiurare l’avvento di gravi malattie). E come in molti suoi film, per esempio in Rabid, anche qui il carnefice è anche la vittima sconsolata del sistema da lui stesso creato, che gli si ritorce contro. In quel film era stato il medico che aveva osato sfidare le conoscenze fino a quel momento acquisite, adesso è l’introduzione di questi capitali cibernetici e di questi esasperati e irrefrenabili liberi mercati virtuali a costare la vita a Pattinson. È se alla fine riesce a raggiungere il parrucchiere (emblema dell’insoddisfazione esistenziale e malinconica delle vecchie generazioni – stordite, palesemente presuntuose e sorde – di fronte alla catastrofe imminente) è solo per arrivare puntuale alla sua “resa dei conti”. In questo film infatti, come detto, vi è un’apocalittica consapevolezza da parte dell’ormai navigato uomo d’affari: il prossimo ad essere sacrificato sarà lui, perché è chiaro che ormai l’asse del potere si è spostato dall’ambito politico a quello finanziario se non addirittura tecnologico (“Ancora ammazzano i presidenti?”, chiede sarcasticamente il protagonista al suo agente). La tanto vituperata politica ha in realtà perso il suo scettro, divenendo però una copertura, un diversivo per chi ancora crede come noi che il problema sia questo o quel politico nazionale. Il problema, semmai, sarebbe per chi lavora questo o quel politico nazionale, a quale Mangiafuoco finanziario deve rendere conto. È il fallimento dello Stato come istituzione, si diceva nello scorso capitolo. E si ripete nuovamente, perché se il mondo ha deciso di affidarsi, sembra tuonare Cronenberg, a uomini di finanza, è perché reali cambiamenti e ribaltoni la politica non ne ha mai realmente conosciuti. Dunque è sì un film che mette al patibolo il mondo finanziario, ma che molto intelligentemente mostra come al potere economico non ci sia alternativa e la politica, nel film, non esiste affatto. Vi si può leggere persino un fallimento della nozione di democrazia, “regime” da sempre illusorio e forfaittario, che si serve di espedienti balordi (per esempio le invenzioni tecnologiche, per rimanere in tema) che facciano da contentino per un popolo che crede ancora a Babbo Natale. E se il cinema è l’universale che allude ad un particolare allora non è necessario andare troppo lontano. Perché non si parla qui solamente di poteri nazionali o sovranazionali. Basta osservare Agira! Il nostro paesino è il manifesto del fallimento di una politica appiccicaticcia, condotta per vent’anni circa da individui inspiegabilmente (data la loro incompetenza intellettuale) millantatori quanto mai. Essi, a differenza del protagonista di Cosmopolis, per esempio, il quale, in conflitto con se stesso, sa di meritare la morte, crederanno a fine mandato di aver portato a termine un buon lavoro, poiché mai ostacolati da nessuno. Tutti i rappresentanti politici del nostro paese dovrebbero pertanto sorbirsi questo film, perché servirebbe a sedarli, sconvolgerli, terrorizzarli (ammesso che almeno Cronenberg riesca a farlo, anche se dubitiamo di ciò). Perché è un film che tiene basse le aspettative del potere, minacciandolo non di un’eventuale rivalsa della coscienza di classe, ma della follia di singoli individui, depressi ed esanimi. E l’inaffidabilità della politica permette che il potere si sposti verso l’asse economico, che la gente cioè si affidi a realtà nuove e “straniere”, a grossi imprenditori cioè che creano sì necessari posti di lavoro in grossi centri commerciali ma che smembrano e delocalizzano l’universo cittadino neanche fosse un’industria automobilistica, smantellando ogni realtà artigianale. Ancora una volta si guardi Agira. È un progresso che non è affatto modernità. È l’eutanasia di cui ci accontentiamo.

Gabriele Santoro

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BISBETICI DOPATI VOL.2, THE WOLF OF WALL STREET

Approcci. Il cinema è solo questione di prospettive e approcci. E magari, dunque, svariate visioni del mondo. Tutto il resto non è costituito da altro se non da implicazioni successive. Non tanto ciò che si vuol comunicare quanto piuttosto come la si comunica rappresenta la discriminante tra le varie opere cinematografiche che trattano identiche tematiche. E il Male, si sa, è molto più arduo descriverlo. Perché è così lucidamente sfaccettato, così razionalmente ricco di spigolature che merita ed esige differenti approcci narrativi per tentare di svelarne almeno una parte. Si è confabulato nel primo volume di questa disquisizione sul mondo economico (visto dal basso della nostra esperienza da ignari comuni mortali) de Il capitale umano di Virzì. Si è evidenziato come il regista italiano abbia abiurato volontariamente ogni tentativo di addentrarsi completamente nel diabolico mondo dell’alta finanza e di raccontare la storia dal punto di vista dell’inavvicinabile personaggio di Gifuni, nonostante il film dimostri comunque un notevole tasso di impegno socio-civile che si arresta in quel solco segnato per un pubblico non troppo pretenzioso ma neppure lassista. Ma ci sono registi che per storia e tradizione hanno una missione: guardare da vicino. E l’oggetto dell’indagine è in questo caso un’America così tronfia e incondizionatamente orgogliosa di sé da non accorgersi di essere claudicante dalla nascita. L’asse si sposta insomma da un’Italia già troppo vituperata e maledetta di suo ad un’America mai paga di adulazioni fuori luogo e degna di una perpetrata invettiva. E il nuovo approccio narrativo, come detto più analitico e pignolo, che non teme nulla e non ostenta paure tematiche reverenziali ma che, sprezzante e politicamente scorretto, esplicita l’inesplicabile, è quello di Martin Scorsese.

“Bello, ma…” e “va bene, però…” sono state le principali e più quotate parole incipitarie di ogni recensione più o meno accreditata. Ma ogni condanna incondizionata nei confronti dell’ultima fatica di Scorsese, The wolf of wall street, è punibile con la fustigazione, poiché l’oggetto delle critiche è quasi sempre corrispondente proprio a ciò che rende grande l’opera. Per carità, soffre anch’essa di lacune (per via, per esempio, di cincischiamenti eccessivi sugli effetti speciali, come nella sequenza della tempesta a mare) ma, piuttosto, le si attribuiscono i difetti più strampalati, quali la presunta durata eccessiva o il fatto che per tre ore il buon vecchio Martin rigiri la stessa minestra nauseabonda. Ma premettendo (come fosse il Verbo, l’ineluttabile e fondamentale testimonianza di fede cinematografica) che non è scritto in nessun codice civile che si debba realizzare un film della durata massima di novanta minuti, deduciamo che la critica cinematografica deve saper contestualizzare e comprendere l’approccio di un regista sui temi trattati. Quest’ultimo aspetto è il più rilevante in quanto l’apparente simpatia nutrita da Scorsese nei confronti del personaggio interpretato da Di Caprio farebbe erroneamente pensare, se non ad un film apologetico, comunque ad un film “ammiccante” riguardo la mostruosità dell’alta finanza. Ma è proprio la durata, con la sua estenuante presentazione di identiche situazioni in ogni scena, a far (s)cadere il personaggio agli occhi dello spettatore. Se fosse dunque durato un’ora e mezza saremmo stati compiaciuti del sistema su cui si indaga nel film. Ma non è questa la sensazione finale che riesce a descrivere un mondo deludente e illusorio, pur mantenendo la narrazione sopra le righe, nient’affatto melensa né tantomeno pateticamente ribaltatasi nel finale. Eh già, nulla sembra cambiare né stupefacentemente sconvolgersi nel mondo selvaggio e cannibalesco della finanza. Nessuno si redime insomma, perché quella sarebbe magari la vera contraddizione, il reale paradosso. Ecco prendere forma l’imperscrutabile e tremendo buco nero (se ne parlava nel primo capitolo) in cui il protagonista entra da broker per vendere prima azioni spicciole a persone spicciole, poi azioni più o meno spicciole a persone più o meno grandi (il che rende la sua attività, come vedremo, antropologicamente più accettabile). Chi vi entra non ne esce più, almeno non completamente. La forza di attrazione che il denaro esercita (magari verso tutto il mondo fatiscente rappresentato, non necessariamente dal punto di vista strettamente pecuniario) sembra surclassare persino le dinamiche e le leggi della gravitazione universale. Certo, qualcuno potrebbe leggere in ciò un’evidente contraddizione visti i 100 milioni di budget di cui il film disponeva. Parlare di speculazioni azionarie con una produzione del genere potrebbe apparire un po’ come inveire contro l’estinzione del cervo rosso il giorno dell’apertura della caccia con un fucile a doppia canna in mano. Ma il cinema di Scorsese va inserito in quell’ambito di codominio tra il cinema di genere (spesso ormai di maxiproduzione) e il cinema autoriale. Convivenza molto più tradizionale e assodata nel cinema americano che non in quello italiano e per noi dunque inaccettabile e incomprensibile. Ma c’è comunque modo e modo di gestire un alto budget e sicuramente Scorsese lo sa fare come pochi, investendo tutto quel denaro per i più nobili dei propositi. Perché è “relativamente facile” attaccare il sistema finanziario di Wall Street dall’esterno, magari dal mondo della cinematografia indipendente. Ma l’audace ostinazione è propria di chi, malgrado lo possa fare, dopo anni e anni di carriera, non prostituisce i propri ideali di impegno cinematografico e riesce a far implodere dall’interno lo stesso sistema che critica, pur godendo dei vantaggi che esso offre. In puro stile americanissimo (dalla sua solita “lucida e geniale frenesia” nelle riprese, nel montaggio e nei dialoghi serratissimi, il tutto sempre ad un ritmo elevato e quasi convulso, fino a quelle interpretazioni così perfette da sembrare paurosamente e maledettamente reali) Scorsese sembra scimmiottare l’America stessa, rendendola una macchietta che brama per ogni tipo di droga(-ossessione): il denaro, che introduce al mondo delle sostanze stupefacenti che introducono al mondo della ninfomania maniacalmente compulsiva. Le miriadi di dollari sbattuti in faccia allo spettatore in ogni sequenza non sono fini a sé stessi, bensì rappresentano un diapason che dà il “la” ad un altro mondo che il denaro è riuscito ad acquistare facilmente. Ma questo nuovo stile di vita (che è un vezzeggiativo definire dissipato), barattato per mezzo del denaro con quello precedente, è, questa volta sì, fine a sé stesso. Oltre il sesso sfrenato, le belle auto e la sperimentazione sui propri corpi-cavia di tanto bizzarre quanto sconclusionate droghe non c’è nulla. Non vi è timore di un collasso economico se non apocalittico (Cosmopolis, di cui tratteremo nel prossimo capitolo) comunque nazionale (Il capitale umano). Tutto è piuttosto filtrato da occhi disincantati, sfrenati, babbioni anche se furbastri, infine fessi, anche se ricchi. E nella sua insensatezza di fondo, nella sua infunzionalità narrativa, questo film svela che proprio tali sono le peculiarità dello stesso mondo descritto, insensatezza e infunzionalità. L’economia nera dei porci grossi dimostra di essere abbordabile persino da semplici arrivisti medio-borghesi da strapazzo, i quali giochicchiano promettendo ai clienti soldi che non esistono se non virtualmente (lo spiega benissimo McConaughey nel fantastico dialogo con un ancora ingenuo Di Caprio), per poi agguantare, loro sì, soldi reali. Ma a tratti sembra trapelare nel film una sorta di relazione empatica verso quel povero broker rimbecillito da un mondo che gli sta un tantino grande. Si arriva dunque a pensare che il personaggio di Di Caprio sia il vero sconfitto (inter pares) del film, al di là del tradimento finale dell’amico. Forse perché il suo personaggio subisce un’evoluzione, per così dire, “socialistica”, tramutandosi da lupo sbranatutti a una sorta di Robin Wood della finanza moderna. Il suo atteggiamento insolente, forgiato su quello del suo mentore interpretato da McConaughey, sembra sfumare a favore dei piccoli risparmiatori e accanirsi contro quegli individui economicamente davvero influenti. Ma tutti i personaggi dimostrano però in maniera indistinta come qualunque persona si voglia arricchire riesca a farlo eludendo il controllo statale. Non perché facilmente eludibile. Non perché fittizio. Perché assente! La vera causa di ogni collasso economico dell’Occidente, sembra tuonare Scorsese, è il fallimento, istituzionalmente parlando, della nozione di Stato, dal momento che prima che quest’ultimo si renda conto della degenerazione acuta provocata da agenzie private o speculazioni varie, la frittata è già bella che servita. Lo spietato laissez-faire mostra di essere andato alla deriva già da tempo in un circuito di “spennamenti” più o meno legittimi ma spesso paradossalmente legali. E si sfiora il paradosso allorquando la beneamata patria permette di spolparsi pure gli ossicini dei poveri risparmiatori e interviene solamente con accuse molto pretestuose di frode fiscale quando si toccano gli intoccabili. E se ne Il capitale umano Gifuni investiva sul tracollo delle azioni, il ruolo dei protagonisti di questo film è venderle. Vendere monnezza insomma. Azioni cioè talmente al ribasso da meritare una dote oratoria degna del miglior logografo dell’antica Grecia al fine di far credere agli investitori che siano invece foriere di proficui guadagni. Ricordate Wanna Marchi, la tizia che raggirava quei poveri disgraziati in tv facendo loro credere di essere marziani sulla Terra? Bene, tutti i brokers del film sono delle Wanna Marchi, delle defecazioni incondizionate, che molto “sofisticamente”, per così dire, convincono povere vittime a fare ciò che non dovrebbero logicamente fare. Persino Di Caprio, dunque, in quest’ottica, merita la dannazione eterna perché consigliere fraudolento e traditore del prossimo, fine dei giochi. Ricco o povero che sia, senza alcuno scrupolo di coscienza. Ecco l’America! “This is the way”, sembra cantare il protagonista del film. “The american way”, diremmo noi. Tutto il resto è solo contorno di radicchio. Dal popper alla mescalina, dalle anfetamine a farmaci psicotropi e paralisiferi, dalla cocaina al “wild sex” (fino ad approdare al “wild sex” con annessa cocaina, che è il massimo!). Tutto atto ad offuscare la madre di tutti i problemi: quella nebulosa che si chiama stato. E nel film l’unica presenza politico-statale è quella fumettistica e caricaturale bandiera a stelle e strisce che il buon Martin è solito ostentare in ogni suo film in funzione naturalmente antifrastica (da quella dell’atavica e già sanguinaria America di Gangs of New York a quella delle metropoli solitarie e schizoidi di Taxi driver). E anche in questo film i personaggi agiscono, si arricchiscono, si strafanno, si tradiscono reciprocamente “in the name of the USA”.

In quest’ottica, dunque, fatta di pugnalate alle spalle e miserrimi sciacallaggi, di spregiudicata lotta per la sopraffazione (enonomica e non solo) e continue competizioni al fine di appurare chi ce l’abbia più lungo, Di Caprio sembra quasi giustificato nell’impiegare parte del suo prezioso tempo in puerili e folli scorribande. Semplicemente si gode come può il denaro che ha strappato di tasca a qualche modesto risparmiatore (secondo legge) o a qualche titano (a questo punto in modo fraudolento). Non fa altro che infliggere all’America continui colpi che questo stato merita e che la sua economia nazionale consente di fare, fine della storia. Ed è giustificato proprio dall’immane quantità di denaro che lo circonda. Perché una volta che lo si ha, sembra volerci dire Scorsese, questa è l’unica opzione che si prende in considerazione: spararseli come fossero birra fresca d’estate. Converrebbe non averli? Sicuramente non averne troppi, se sempre si riuscisse a non divenire schiavi delle lusinghiere sirene dell’universo pecuniario (basterebbe per prima cosa riattaccare il telefono quando un broker qualunque dovesse tentare di propinarci questa o quell’altra azione). Perché il denaro è un treno da prendere in corsa, solo andata. Destinazione buco nero.

Gabriele Santoro

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BORN IN THE U.S.A. (su “300″ di Snyder)

Eccessivo relativismo etico-morale. Lassismo bello e buono. Gratuita indulgenza. Ecco il trittico della rovina del mondo della critica cinematografica. Certo, è pur sempre vero che ci sono livelli e livelli di critica. Ma molto spesso si sottovalutano situazioni che andrebbero maggiormente e più criticamente studiate. Sospendiamone il giudizio perlomeno. Perché film che sembrano non essere minimamente “impegnati” non vengono sufficientemente sezionati e analizzati, così da permettere addirittura che serpeggino all’interno di quella giungla che si chiama cultismo. E cult, ahimè, è divenuta pure la defecazione hollywoodiana del secolo, la più “danzante e galleggiante merda” che la cinematografia statunitense abbia prodotto negli ultimi anni, l’apoteosi dell’inimmaginabile vuotezza che il cinema può spesso raggiungere: 300. Saltate pure dalla sedia! Perché questo film è davvero entrato nell’immaginario cinematografico dell’ultima generazione. Inamovibile e gagliardo, sta lì, mai criticabile e forte di un cospicuo successo al botteghino. Allora perché inveirvi contro? Perché dobbiamo cestinare per un attimo ogni forma di relativismo e tornare a definire male ciò che è male e bene ciò che è bene. Almeno cinematograficamente parlando. E cestiniamo pure ogni forma di moralismo, affinché ciascuno possa comunque esser libero di seguire il male, a riguardo. Ma, ripeto, consapevolmente! Essendo preventivamente consci, cioè, che ciò cui assistiamo non è cinema, ma spettacolo circense. Perchè sottovalutare qualcosa di mediocre, in epoca post-moderna, significa elevarla a rango di elegante intrattenimento e nobile disimpegno. Si diffidi dunque da chiunque proponga questo (come molti altri) film come un piacevole action-movie. Il che dovrebbe già far dubitare della sua valenza, essendo esso un film di “guerra”. È vero, è tratto da un fumetto, ma di un episodio bellico pur sempre si tratta e la guerra nel cinema (e non solo) non dovrebbe intrattenere. E tale genere ha un’atavica condanna (o più un rischio) che lo rende difficile da avvicinare: la componente retorica. Ad essa è infatti molto incline aprioristicamente ogni film di marchio statunitense che tratti di guerra. Perché ne è un po’ il distintivo nazionale, il naturale scenario d’azione. Ma da sempre alcuni cauti registi (da Kubrick a Scorsese, da Cimino a Coppola) hanno saputo, seppur Americani (senza offesa!), a consegnare al mondo i più grandi capolavori di tale genere. Perché i panni sporchi si lavano in casa, si sa. E solo chi vi abita ne conosce le magagne. Non è un caso, dunque, che i più grandi autori abbiano parlato d’America da Americani e in stile americanissimo (chi più chi meno), ma in funzione antiamericana. “Sì ma andiamoci piano, sono piani diversi, qui non si vuole paragonare 300 a grandi capolavori”, qualcuno potrebbe ribattere. “Lassismo bello e buono e gratuita indulgenza”, ripetiamo ancora una volta noi. Perché non chiamiamo in causa solo le scelte stilistiche di Zach Snyder, il regista di questo polpettone, ma l’impostazione di fondo del film, prima di tutto. È difatti un film non tanto “americano” quanto fastidiosamente “americanista”. Ma che c’azzecca l’episodio delle Termopili del 480 a.C. con le vicende contemporanee degli Stati Uniti? Naturalmente nulla, se non indirettamente. E come si è più volte sbraitato in questa sede, la propaganda si serve del cancro democratico-mediatico per penetrare indisturbata anche nelle sale cinematografiche. Ma i tempi son cambiati. E risulta essere una propaganda blanda, fuori luogo e anacronistica, seppur presente. Dunque ancor di più oggetto di critiche incondizionate. Ma vediamo perché.

300 soffre di una sindrome a stelle e strisce che potremmo definire del “war-revenge-movie”. Per intenderci: tutto quanto possa rappresentare filmicamente una rivalsa bellica post-Vietnam fa brodo nel calderone chiamato Hollywood. Il tutto rinnovato da una dimensione post-11 settembre. E qual è il miglior modo per inneggiare nazionalsocialisticamente o anche solo patriotticamente ad una certa (vana)gloria statale se non rappresentando un mondo addirittura a.C., antesignano in tutto e per tutto dei valori militari americani e delle millenarie lotte contro l’Oriente? Cercare nel più remoto passato un’autolegittimazione è però un percorso tanto furbastro quanto balordo. “Ma cosa importa”, direbbe qualcuno. E allora ecco servito il mezzo polpettone, apprezzato in tutto il mondo, Italia compresa, Sicilia compresa, Agira compresa. Chi non ricorda la foga di noi ragazzi appena usciti dal cinema, galvanizzati fino all’esasperazione o persino commossi alla sola idea che un’esigua falange potesse frenare l’avanzata di un esercito potenzialmente infinito qual era quello persiano, che da loro sia dipeso il primo tentativo di difesa dell’autonomia proto europea, ecc ecc ecc. Balle! Potremmo replicare. Volendo fare, comunque a buon diritto, i puritani, diremmo che “in guerra non ci sono buono o cattivo, tanto meno vincitori o vinti, ma solo fratelli che si scannano”. Ma più semplicemente diciamo, come ormai è chiaro, che quella battaglia ha rappresentato i prodromi della Guerra del Peloponneso scoppiata cinquant’anni dopo. La si può leggere, infatti, come un episodio di contrasti egemoniali tra Atene e Sparta, di lotte intestine e sgarbi reciproci (alle Termopili difatti non c’erano gli Ateniesi, per “obblighi” religiosi, come a Maratona dieci anni prima non c’erano stati gli Spartani per le stesse ragioni; ripicca?). Da questo punto di vista l’episodio si può piuttosto interpretare come uno dei primi esempi di acuta scissione e rottura tra potenze europee e di come sia pressoché impossibile creare una lega interstatale se non subordinando una di esse a qualche altra. Di come sia impossibile (e ingiusto?), potremmo aggiungere in ultima istanza, creare un’unione interstatale, e basta. E, con un po’ di onestà, non sarebbe male ammettere che, storicamente, i comunque esigui fallimenti dell’esercito spartano erano dettati dal deficit numerico che lo caratterizzava (peggio per loro, quasi quasi!), dal momento che erano ammessi nell’esercito i soli Spartiati. E mettiamo pure che fosse un sacrificio, quello spartano alle Termopili, degno di gloria. Sicuramente, tuttavia, non sarebbe una vittoria di tutto l’Occidente sul barbaro Oriente. Men che meno una vittoria americana, è chiaro! Ma sembra esserlo allorquando ci addentriamo nell’ambito delle esilaranti scelte stilistiche fatte dal regista. Roba da accapponare la pelle.

Premettendo che non credo fosse necessaria una parodia come Treciento per riderci un po’ su ma che 300 è già la riuscitissima parodia di sé stesso, la ridicolizzazione del cinema inteso come medium raggiunge esiti inaspettati. La sublimazione del carnascialesco che si prende tuttavia sul serio (ed è questo il terribile ed inquietante problema), con quei costumi da martedì grasso con annesse tute color pelle che riproducono un fisico aitante e scolpito, non restituisce nulla di fumettistico, ma molto… simpsoniano. Uno spettatore insomma un tantino più “retrò” (o semplicemente non così tanto impantanato in questo nauseabondo cinema esclusivamente computerizzato), alla visione di questo lungometraggio, non saprebbe se ridere o chiamare il caro Snyderone per dargli un consiglio su come trascorrere le giornate qualora scegliesse preventivamente di abbandonare il mondo del cinema. E motivi per ridere ne troviamo a bizzeffe. Partiamo dagli espedienti meramente tecnici. Tra questi ve ne è uno che, non so a voi, creerebbe acute repellenza e insofferenza anche ad un bradipo: il rallenty. Cala il sipario. Ebbene sì, perché si può considerare la più retorica tra le tecniche cinematografiche e usarlo significa rischiare, sempre, di cadere nel pacchiano (il primissimo Sorrentino, per intenderci, lo usava poco o niente). Se ti chiami Anderson, naturalmente, cali deliziosamente l’asso del rallenty in Magnolia, nel fantastico piano sequenza del bar. Ma ti chiami Snyder e lo usi persino quando gli Spartani smussano gli scudi trafitti da frecce, quando infliggono colpi partiti (il colmo!) a velocità naturale, quando subiscono il primo impatto con l’esercito si Serse, quando trascinano epopeicamente un semplice piede nella polvere sottostante o quando un soldato trafigge da lontano un rinoceronte attendendo impassibile che la bestia cada a terra. Ma esperimento che tutti dovremmo fare prima di esalare l’ultimo respiro è tentare di riprodurre 300 interamente a velocità naturale. Il risultato? Un cortometraggio forse. O comunque la sua durata sarebbe di gran lunga ridotta. La morte insomma della componente narrativa di un film. Una mega masturbazione, fatta pure male. Il rallenty, in 300 come in altri film, è un po’ come Montolivo nel Milan, tanta tecnica (solo apparente) ma nessuna efficacia. Ma il paradosso prende forma, tuttavia, solo quando a siffatte scelte si accosta una sceneggiatura che rivela falle imbarazzanti proprio perché in essa si abiura ogni componente retorica che a quanto pare non può essere presente nell’austero mondo Spartiata: “Non c’è spazio per la tenerezza a Sparta”, sentenzia la più stucchevole e quanto mai patetica voce narrante della storia del cinema mondiale. Sì certo, come no, ce ne eravamo accorti. E ci siamo pure accorti, come detto, di quanto la figura dello spartano modello sia plasmata a immagine e somiglianza di quella dell’americano doc. Di quanto il più rappresentativo condottiero nonché re, l’odioso (almeno nel film) Leonida, sia perfettamente assimilabile a qualunque presidente americano dedito alla guerra, democratico o repubblicano. L’autoerotica frase “Solo le donne spartane partoriscono veri uomini” sembra sottendere la possibilità di sostituire la quarta parola con “americane”. E l’orrore prende vita allorquando, vedendo il film in lingua originale, gli Spartani parlano magicamente americano. Snyder e tutti gli sceneggiatori avranno naturalmente pensato (ci mancherebbe!) di non tediare troppo i destinatari del film e spendere tutti i denari e il tempo a disposizione in effetti speciali e computer-grafica, anziché magari spremere un po’ più le meningi e far parlare i protagonisti del film in greco antico (Clint Eastwood docet in Flags of our fathers e Lettere da Iwo Jima con la lingua giapponese), operazione eventualmente apprezzabile. Macché, quell’americanazzo di Leonida sta ritto e tronfio nel cuore della notte, tutto ignudo come un bronzone di Riace, a contare le stelle. Che scena atrocemente straziante! E pateticamente tronfio risulta anche essere il tifo da stadio su note rockeggianti in occasione del naufragio iniziale delle navi nemiche. Fascistite acuta. E lo spettatore non può non parteggiare per tale stile di vita sin dall’inizio. Da quando si illustra la misantropa pratica dell’agoghè (il duro addestramento dall’età di otto anni) a quando gli ambasciatori di Serse si imbattono per la prima (e ultima) volta in Leonida mentre quest’ultimo è intento, guarda caso, a impartire un’inopportuna lezione di sano combattimento al figlio. E il nemico dei Greci diventa nostro nemico. Il nemico degli Americani diventa nostro nemico. Guarda un po’… proveniente dall’Oriente. Vietnam e soprattutto Medioriente (per ovvia ambientazione) sono dunque più che semplici fantasmi.

E nei giorni dell’uscita del sequel-midquel che narra della battaglia di Capo Artemisio, anch’essa del 480, due potrebbero essere gli antidoti all’effetto collaterale: o lo si fruisce con la totale consapevolezza (ma profonda questa volta!) che si tratta di anticinema o non lo si guarda affatto. Premettendo che per ben comprendere come si faccia cinema va sempre vista anche la monnezza, così da rendersi conto, parallelamente, di come il cinema non lo si debba fare, annulliamo subito la seconda alternativa. Ma non restiamo imbrigliati nella morsa della tarantola americana, perché è chiaro il messaggio: l’America avrebbe colto il meglio da ciascuna delle antiche civiltà greche. La sintesi insomma, tra un film e l’altro, del valore delle armi spartano, che si innalza solo per una giusta e onorevole causa contro ogni forma barbara di (in)civiltà, e dei valori social-democratici di Atene e del suo impero (se di tali valori si può sempre parlare, in quanto solo luoghi comuni). E come Reagan qualche decennio fa fraintese (volontariamente?) il messaggio di una nota canzone di Bruce Spriengsteen strumentalizzandola e usandola per la sua campagna elettorale, allo stesso modo noi guardiamo 300 come un film adrenalinico, sul sacrificio umano o sulla forza di volontà che trascende le possibilità umane e bla bla bla. Non è nient’altro che un film stupidamente reazionario, che ci propone falsi miti o idoli storici. Basta dunque col cinema apologetico! O almeno non così sfacciatamente tale.

Gabriele Santoro

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LA “FRESCHEZZA” DI NARCISO (sul cinema di Sorrentino)

uomo in più“Quant’ so’ brav’, quant’ so’ bel’”, sembra voler sbraitare sul red carpet dei Golden Globes ai quattro venti, da buon napoletano mattacchione qual è. E il suo imperturbabile aspetto, nonostante sembri che abbia raggiunto la totale atarassia, cela difatti la sua consapevolezza di essere (stato, aggiungiamo) il miglior regista al mondo. O almeno il più virtuoso della camera da presa. Avete presente quei falconieri che, unici al mondo, maneggiano rapaci come fossero peluche? O quelle ostetriche che osserviamo con invidia mentre si destreggiano brillantemente con un neonato tra le braccia? Bene, Paolone Sorrentino è chiaramente un tipo che smanetta la camera come un giocattolino, con i calli del mestiere, conducendo la sua professione, col tempo, diversamente da quanto si possa pensare a primo acchito, più verso una dimensione tecnica e artigianale che artistica (che non sempre coincidono). Ma andiamo con ordine. Non parleremo oggi in modo specifico dell’ultima sua fatica, La Grande Bellezza, bensì del suo cinema in toto, della sua “poetica”, segnata da una netta linea di demarcazione che la suddivide in due fasi ben distinte: una che oserei definire contenutistico – antropologica, un’altra invece prettamente estetico – masturbatoria. Detta così sembra essere stata una scelta selettiva ad aver regolato la nostra categorizzazione dei suoi film. Se non fosse che della prima fase appartiene la sola opera prima, L’uomo in più. Per intenderci, la biografia di Paolo Sorrentino potrebbe pure fermarsi lì. Inizio della carriera artistica e nello stesso tempo suo totale appagamento: 2001. E la sua odissea non è in nessuna orbita spaziale, come l’anno suggerisce, ma in una profonda e, soprattutto, umile indagine sulla coscienza dei protagonisti. Già, coscienza e umiltà sono le mots-clés di questa opera. Coscienza e non psiche. Perché questo Sorrentino ha la capacità di essere riflessivo e problematico all’ennesima potenza, senza avere alcuna pretesa però di incapsulare i personaggi in una fissità precostituita e pregiudiziale (molto più romanzesca che cinematografica, come si nota dalla sua ultima difettata opera, con un’insopportabile voce fuori campo di un paranoico Servillo). Paolone comprende in questa prima fase come il cinema, etimologicamente parlando, sia moto, azione e come gli attori altro non siano che “agenti assoluti”, in quanto sciolti da ogni soffocante vincolo imposto dall’alto dal “narratore”. L’uomo in più dà la parola a tutti noi. E sotto l’etichetta del “soddisfatti o rimborsati” ci permette di vedere nei personaggi ciò che vogliamo liberamente vedere senza alcuna ingerenza. La loro azione, diretta e non mediata, restituisce dunque una loro coscienza etica (comportamentale) più di quanto non lo riesca a fare l’indagine psicologica di una voice-off atta a imboccare emozioni allo spettatore, al fine che non fraintenda nulla (ed ecco la componente umiltà). È la scena a dover parlare, nient’altro. Nessun totalitarismo intellettivo. Evviva il fraintendimento insomma. E Sorrentino sembra aver capito dalla sua opera prima che il cinema, il suo cinema, poteva e doveva essere una macchia di Rorschach. Un’aura surreale e surrealista (alla Bañuel, ravvisabile nei sogni del protagonista, la cui esplicazione è lasciata in sospeso) che non entra affatto in rotta di collisione con una narrazione, come detto, lasciata libera alla sola azione. “Il realismo non esiste”, diceva un vecchio professore. Nel senso che non esiste puro e che non può prescindere da implicazioni altre. E L’uomo in più è il film più umano e, in questo senso, lasciatemelo dire, realista che la cinematografia post-moderna italiana (se non addirittura moderna, azzardando confronti col solo e sommo Monicelli) abbia partorito. Ed è profondamente realista anche e soprattutto perché, al di là della (e armoniosamente in opposizione alla) forma, è un perfetto “ciclo dei vinti” dei nostri giorni, narrando tutte le sfaccettature della sconfitta umana. Un realismo moderno, contornato da una regia che è di un’eleganza eiaculatoria e che non scade mai nello stucchevole né nel pacchiano (si ricordi a proposito il piano sequenza in discoteca, da annali del cinema). Sorrentino non fa avvertire o pesere la presenza del mezzo cinematografico, pur con virtuosismi di alto livello, comprendendo quale sia la discriminante che renderebbe il suo film barocco. Si mantiene paradossalmente più equilibrato di quanto si pensi, anche grazie ad una sceneggiatura sobria, a tratti volutamente sporca, idiomatica, timida e sentenziale, che rispecchia benissimo una realtà provincialotta, arrivista e angusta che opprime i due Pisapia. Ma è anche un film didascalico. Vedendolo si comprende cioè qual è il modello perfetto di cinema in termini di capacità di veicolare messaggi. Nel senso che un buon film come questo lascia l’amaro in bocca. E per meglio metabolizzarlo va rivisto. E rivisto. E così via, senza mai del tutto saziare la nostra esigenza di chissà quale natura. Un cinema insomma attanagliante, alla maniera, per certi versi, cronenberghiana. Tutto qui.

La ricetta perfetta insomma nelle mani di un arguto Sorrentino. Se non fosse che comincia a manifestare, con i successivi film, una verve diversa che risente di una memoria a molto breve termine. Allora Paolone, film dopo film, rincara sempre più la dose e, come uno schizzoide bambino di cinque anni con una pompa in mano e un palloncino da gonfiare, preme sempre più il pistone fino a rischiare lo scoppio e…via con dolly vertiginosi, estenuanti carrellate e panoramiche da capogiro. Tutto un po’ sopra le righe e frenetico, mostrando continui lapsi dovuti al peso eccessivo ed evidentissimo che la camera acquisisce. L’involuzione è però stata graduale. Si è passati dalla regia ancora a tratti bilanciata di un grottesco e comunque gradevole (e apparentemente sottotono) L’amico di famiglia a un Le conseguenze dell’amore (quello sì) sottotono e non apprezzabile se non con un rincaro sostanziale di movimenti di macchina, virtuosi al limite del possibile (creando però una collisione stridente tra sceneggiatura con pretese eccessive, abbastanza limata e forse affettata, e regia altrettanto eccessiva). Poi abbiamo una tregua. E Il divo lo è perché il protagonista risulta essere sopra le righe tanto quanto lo è la messa in scena e, anche se si ha sempre l’impressione di navigare a vista e rimanere perennemente sospesi durante la visione, il film non si prende mai comunque realmente sul serio, almeno ad una lettura primaria. E poi? Poi l’oblio. Premesso che non si possono pretendere da Eracle tredici fatiche, dico pure che undici e mezzo Sorrentino le aveva già portate a temine con solo L’uomo in più. Allora la caduta (che comunque coincide perfettamente col maggior tasso di popolarità raggiunto) è ammorbidita dalla doverosa riconoscenza artistico-culturale che la sua prima fase merita e di cui la troppo verace critica non deve essere dimentica. Ma non si può non ammettere quanto il dolly si sia fatto carne negli ultimi due film. Quanto Paolone si sia autoeroticamente trastullato tra tutte le miriadi di opzioni che quel giocattolino che teneva tra le mani gli offriva. Una spregiudicata sublimazione della tecnica cinematografica che non è ahimè sublimazione artistica. Il deragliamento del mezzo cinematografico verso la sola catarsi estetica; l’unica possibile, per la potenza eccessiva del suo impatto. Allora ecco il tentativo di rendere la sceneggiatura funzionale alla messa in scena (la cosa forse più deleteria) e non invece viceversa. Ecco il tentativo incauto di incastrare a dovere il tema(-prezzemolo) dell’olocausto in This must be the place o di porre troppa carne al fuoco, che brucia già a fine primo tempo (prima che entri in scena insomma il “personaggio chiave di volta”, la Santa), ne La grande bellezza. Con ciò non si intende denigrare questi ultimi due film incondizionatamente, ma in relazione ad uno standard artistico di levatura altissima cui il regista ci ha abituato nella prima fase e con i film che ancora ne risentivano. Il problema sta dunque nell’idea stessa di cinema, diventato da estetizzante ad anestetizzante, da visivamente ricco a tronfio. La superbia precede la caduta, è vero. Ma il buon Paolo non è superbo. Ha semplicemente cominciato, magari narcisisticamente, a percorrere la lunga e comunque meritata discesa dopo aver scalato l’Everest e, di conseguenza, a raccogliere quanto seminato proprio ora che è in atto il deterioramento del suo cinema. Quella frase di cui sopra, sul red carpet, l’avrà pure pensata. E che la pensi anche a Los Angeles, durante quella pantomima che la cerimonia per la consegna degli Oscar rappresenta! Vale per quella volta nel 2001 in cui meritava di pronunciarla ma non poteva perché assente. La dica pure! La sua parte nel cinema, tanto, l’ha già fatta.

Gabriele Santoro

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