LA RIVOLTA DI ABELE (su “Solo Dio perdona” di Refn)

A ritroso. Quasi dissacrando l’idea stessa di cinema. Ma almeno con molta poca ipocrisia conoscitiva. Perché è chiaro che in un’epoca di inflazione di offerta artistica, estetica, informativa, trovare qualcosa di reale valore è davvero arduo. Soprattutto per via dell’ammasso informe di monnezza che ci troviamo davanti. Ma a volte sembra ergersi, sul monte solitario chiamato “cinema d’autore”, qualche opera insolita per modalità propositiva, unica per realizzazione. E magari non si tratta che dell’ultima fatica di un regista di vero talento, da sviscerare, sventrare, prima di passare alle sue pellicole precedenti, ricostruendo un’intera poetica, persino a ritroso. Non lo si conosce di certo adesso, Refn, il regista di oggi. Che è riuscito a scuotere (se ancora ve ne fosse possibilità, in quest’epoca di surplus commerciale) chi non aspetta altro che essere scosso, stufo di assistere al Teatrino dei Pupi che il cinema è divenuto. Ma il suo film precedente, Drive, aveva lasciato l’amaro in bocca. Forse perché sconosciuto prima di allora (almeno a noi), il povero Refn. Invece Solo Dio perdona, la sua ultima pellicola, è riduttivo definirlo capolavoro. Lasciamo una volta per tutte queste accademiche categorie della critica minimalista a chi non abbia parole da spendere. Perché questo film ne merita, parecchie.

Trama: Bangkok; un giustiziere della notte, ex poliziotto, fa uccidere uno spacciatore Americano che aveva scannato una prostituta. La madre e il fratello dell’Americano provano a vendicarne l’esecuzione, ma non faranno che alimentare un vortice infinito di violenza. Solo Dio perdona è un film di certo crudo. Non tanto per le comunque reiterate sequenze sanguinarie, al limite del realismo scenico. Quanto più per la capacità di condurci alle visioni ematiche orripilanti provocando lo spettatore già da prima. Snervandolo sino all’insofferente esasperazione per poi accontentarlo visivamente con ciò che si ostina a ritenere bruto, eccessivo, violento. Film insomma provocatorio e nel contempo lassista, irritante ma infine oftalmicamente tonificante. Ecco che allora a piani sequenza rallentati ed apparentemente troppo prolissi fanno da contraltare stupefacenti (almeno nella realizzazione e nei trucchi e negli espedienti cinematografici) immagini di carni, ossa, orbite cavate, bruciature. Lo spettatore è prima seviziato e poi lasciato libero, proprio sul filo di un rasoio. Ed è disarmante come la tortura visiva non corrisponda a quella narrativa, anzi. Lo spettatore è sollevato dinnanzi al sangue, quasi come fosse abituale oggetto di fruizione; indispettito di fronte ad ogni altra inquadratura. È la testimonianza di un paradosso estetico, di un naif che diviene inevitabilmente di buon gusto. Perché girato bene, per carità. Ma non solo per questo. Il dialogismo è pressoché assente, ma sono i visi a parlare. In ottemperanza ad una messa in scena che ha molto di leoniano (come anche il titolo del film lo è, diretto, senza fronzoli o intellettualismi vari), Refn riesce a far conversare semplici sguardi, combattere tra loro ghigni e musi lunghi. È la sceneggiatura dell’estetica, nella sua forma probabilmente più alta, tra carrelli ostentati sempre più (sulle facce solo in apparenza smorte) e primi piani agghiaccianti. Un’estetica, inoltre, immersa totalmente nel genere. E che genere! Ed è questo, difatti, lo scarto con l’ultimo Sorrentino, per esempio. Impegnato, quest’ultimo, a immolare la totale fase estetica del suo cinema agli altari di un’autorialità che sa molto di pedanteria, futile decoro intellettuale. Refn strumentalizza invece la sua abilissima camera per un secondo fine: mostrare il marcio di tutto l’animo umano e le conseguenze dello stesso. Con uno stile ora noir, ora orrorifico. Per intenderci: il cinema di Refn, ma in particolare Solo Dio perdona, è plasmato sull’ultimo Cronenberg (cosiddetto “noir”) ma con una regia più “pop” (alla Coen, con un pronunciato, come detto, uso del carrello e del rallenty) e una componente onirico-straniante che guarda a Lynch come modello. Certo, abbiamo nominato il non plus ultra, ma non è una semplice smania filologica, quanto più un’inevitabile ed evidente nota di comparazione. La messa in scena è molto accattivante, lontana anni luce dalle inquadrature volutamente glaciali e poco coinvolgenti e commerciali del maestro Cronenberg, ma alcuni espedienti visivi non possono che rimandare a lui. O almeno al Cronenberg ultimo, quello degli inserti macabri mantenuti nel più totale noir e di una fotografia plastica, quasi tirata a lucido (alla Suschitzky insomma, storico collaboratore del maestro canadese), che si serve di primi piani grandangolari per disorientare l’occhio dello spettatore. Combinare insomma tre ingredienti (i maggiori registi viventi, probabilmente) che apparentemente potrebbero apparire indigesti non è cosa da poco. Refn ci ha provato e, a nostro avviso, c’è riuscito. Realizzando un film massimalista, magniloquente, nonostante si parli una volta ogni venti minuti. Una coscienza del mezzo cinematografico che potremmo definire artigianale. Che fa del regista un mestierante a tutti gli effetti, perché capace di catturare e ubriacare, all’occorrenza, con ciò che più sa fare bene: filmare. Il tutto orchestrato da una colonna sonora ora quasi tribale, ora elettronica (che rappresenta lo stridore di differenti culture che entrano in rotta di collisione). Sia chiaro: chi si aspetta gratuiti “mezzogiorni di fuoco”, può pure evitare di vederlo. Perché il film non è per niente vicino all’ultimo Tarantino, per esempio, che con Django sembra aver accelerato così tanto da andare vistosamente fuori giri. Niente fumettistiche e cartonate sparatorie al limite della repellenza, niente irrisorie fontane di sangue. Refn sembra piuttosto prenderlo sul serio, il sangue. Perché trattato con intensa drammaticità. Perché mostrato sino alla fine.

Funzionalità! Questa è la parola d’ordine, nel cinema. Funzionale deve essere la visione di un film. La saletta dove si fruisce. Il genere adoperato. Ma a cosa? Funzionale innanzi tutto ad un impegno, che sia culturale, intellettuale, sociale, anche solo antropologico. E il fallimento del Parnassianesimo, corrente poetica ottocentesca propugnatrice della mancanza di utilità nell’arte, risiede proprio in questo ambito. L’arte deve essere atta ad una visione della società da veicolare. Anche pure ideologica, da confutare o approvare. Ma un film deve sempre prendere una netta posizione, consegnando più domande che risposte, magari. Ma mai rimanendo nel salvifico ma aberrante involucro dell’ignavia. E questo film di personalità ne ha da vendere. Il messaggio consegnato allo spettatore, nel finale, è quanto più di straziante ma attuale vi possa essere: giù le mani dalle terre altrui! Con ciò stiamo ad indicare ogni forma di colonialismo, sia esso modaiolo, culturale, propriamente territoriale. E Refn ci sussurra questo imperativo approfittando della terribile e spietata figura del protagonista assoluto del film, che risulta essere, diversamente da quanto si possa pensare a primo acchito, proprio l’”angelo della vendetta”, l’ex poliziotto, Chang. Lo si sente parlare poco, quasi mai, ma agire tanto, anche troppo per un debole di cuore. Sotto la grandezza di una fissità espressiva senza precedenti nella storia del cinema, si cela una pluralità di espressioni etiche. Sotto la crudeltà (o sarebbe meglio definirla crudezza) si cela il calcolo razionale, il genio, “limpido, cristallino, puro”, direbbe il colonnello Kurtz di Apocalypse now. Ed è lampante il parallelismo con quest’ultimo capolavoro di Coppola, perché se lì era il popolo vietnamita a rappresentare una sistematica ed organizzata (al limite del possibile!) resistenza all’esercito straniero, in Solo Dio perdona non si parla di guerre, di embarghi o di qualunque altra infamia americana in tema di politica estera. Si parla solamente di preventivo e giustamente pregiudiziale ostruzionismo nei confronti di culture, consuetudini e indebite ingerenze che tentano di corrompere l’ordine costituito. E il film risulta essere una reazione alla politica americana da sempre anche solo economicamente e diplomaticamente interventista in Thailandia (seppur sia stata storicamente pacifica). E a compromettere l’equilibrio sociale, a determinare il kaos, è proprio uno straniero, ingordo di sesso e denaro, stupratore e spacciatore. Lì scatta la vendetta-giustizia (binomio solo apparentemente ossimorico, vista le labilità del confine tra i due termini in un paese in cui vige ancora la pena di morte). E scatta con una dedizione, una lucida freddezza e un’apparente mancanza di coinvolgimento emotivo tali da raggiungere l’obiettivo tanto agognato: ristabilire il kosmos, l’ordine. Ed è la stessa storia a legittimare sempre più l’inviolabilità del Sud-Est asiatico (e dell’Oriente tutto) a fronte di un modello di vita non omologato alle tendenze globalizzate, appiattite, occidentali, troppo occidentali. Un film seducente, mistico, mai cromaticamente variegato se non nel buio più totale. Un film rituale, in cui rituali sono gli omicidi di Chang, corroborati da gestualità e mimiche teatrali, solenni. E proprio come il maestro Cronenberg ne La promessa dell’assassino, il delitto efferato pertiene ad una legislazione altra, che un comune mortale non può comprendere, giudicare, biasimare. Perché motivato, questa volta. Perché quasi giustificato.

Capitolo a parte merita il personaggio interpretato da Ryan Gosling, che veste i panni del fratello dell’Americano morto. Premesso che Gosling è uno dei pochi eredi di quella classe di attori hollywoodiani che, come si suol dire, hanno un viso che sfonda lo schermo, la sua faccia non può che stare dove sta in questo film. Drammaticamente vuoto, quasi sempre. Provato e tragicamente espressivo, all’occorrenza. Un ruolo segnato dall’azione, ancor più di quello di Chang. Perché essa smentisce e dissacra la sua aria da duro e tenebroso. Perché essa non riesce a travalicare le continue ingiurie della madre. Un personaggio, quello di Gosling, continuamente stretto nella morsa dell’inerzia, dell’accidia. O della violenza gratuita, nella scena per esempio in cui due Thailandesi importunano appena la sua donna. Gelosia morbosa, repressa, la sua. Ma sarà l’unico ad accorgersi sin dall’inizio del pericolo corso mettendosi contro tutta Bangkok. E sarà l’unico, paradossalmente, a sacrificarsi per ripristinare le gerarchie. Un eroe intellettuale, in un mondo manesco e di ben altro metro di valutazione. Cui cerca comunque di adeguarsi, per complesso di inferiorità nei confronti del fratello morto e per profondo amore passionale nei confronti della madre. E quest’ultimo risulta essere un personaggio gretto, agli antipodi rispetto all’ideale di genitrice perfetta, portavoce di un assetto familiare ormai alla deriva, sin troppo progressista e matriarcale. Che non ama a dovere il secondogenito perché meno sessualmente dotato del primo, perché meno sessualmente virile. Secondogenito di cui sfrutta, tuttavia, l’iniziale mancanza di personalità, conducendolo ad uccidere il marito. E la maturità di Refn risiede proprio nell’aver proposto il complesso edipico in maniera completamente diversa e insolita. Infatti in questo film esso non si serve di un modesto erotismo per venir fuori, ma di una vera e propria mai celata ed estrema tensione sessuale tra madre e figli. Ma quando la madre (interpretata da una superba Scott Thomas) morirà per mano di Chang, il figlio dovrà rendere conto ad una divinità superiore e accantonare l’idea (già in lui fragile) di vendicare, a sua volta, la vendetta. Ed ecco allora la scena più potente e struggente del film, la quale, se esistesse un cinema un tantino più meritocratico, diventerebbe cult: Julian, il personaggio interpretato da Gosling, porge le sue mani perché Chang ne faccia ciò che vuole, affinché gli vengano mozzate. La violenza catartica è il prezzo per la libertà. Perché capace di proliferare omogeneamente la giustizia. E a farne le spese sono una parte del corpo emblema della nostra presunta libertà di agire, dimenarci, lottare. Per intenderci: quelle mani gli servivano ben poco, perché impossibilitate, già dal principio del film, a far godere l’uomo, mortificate nella loro essenza. Da annali, a riguardo, la scena in cui la giovane Thailandese si masturba davanti agli occhi di Gosling senza che questo possa reagire con altrettanta foga sessuale, perché con le mani legate alla sedia. Le mani dunque. Perennemente da Refn inquadrate, che divengono strumento dell’ira abortita ed implosa; simbolo di peccato, illusione e conseguente disillusione, inerzia, fallacia, impotenza, frustrazione, perdizione.

Giù queste mani da Caino, verrebbe da dire allora. Ma Caino è chi crede di poter applicare un certo stile di vita presso un altro popolo, non considerando le conseguenze che questo strafottente meccanismo ha in serbo. Anche nefaste, apparentemente disumane, ma necessarie, affinché il corpo estraneo venga estromesso da un organismo ad esso allergico. E l’Oriente risulta essere profondamente intollerante a noi Occidentali. Facciamocene una ragione! Anche e soprattutto ora, periodo in cui è in corso l’ennesimo intervento dei macellai statunitensi in Medioriente (che assume sempre più le fattezze di Chang). E tra un delirio di onnipotenza e la somministrazione quotidiana per endovena di una certa dose di esterofobia (solamente verso tizi con barba pronunciata, sottotitolati, molto sommariamente, Isis), chiediamoci pure il perché di questo rigetto. Altrimenti l’America e l’Occidente tutto rischiano di collassare vestendo i panni degli eroi indiscussi. Sarebbe ingiusto, immeritato.

Gabriele Santoro

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IL RISVEGLIO DEI DANNATI (su “La ballata dell’amore e dell’odio” di De La Iglesia)

Can che abbaia non morde, è vero. Ma mai svegliare il can che dorme, e questo è ancor più sacrosanto. No, state sereni, non è la solita pubblicità progresso che punta sulla sensibilizzazione cinofila. È solo… una metafora. E persino il cinema ci ha mostrato, per via dei suoi precedenti tematici e narrativi, che è da incoscienti scherzare col fuoco apparentemente spento con atteggiamento oltranzista. Abusare dell’apparente predisposizione di un individuo al patimento è quanto mai pericoloso insomma. Niente di nuovo sotto il sole, per carità. Ma è drammaticamente e sconvolgentemente nuova la modalità in cui ce lo mostra un film spagnolo del 2010, sconosciuto ai più, vincitore del Leone d’argento a Venezia (molto più affidabile di Los Angeles), ossia Balada triste de trompeta (La ballata dell’amore e dell’odio). Facendo tuttavia astrazione da premi più o meno arbitrari e da limitativi atteggiamenti più o meno pregiudiziali dovuti alla nazionalità del film, bisogna ammettere che, probabilmente, è uno dei migliori prodotti degli ultimi anni. Premettendo che è un film non facilmente metabolizzabile e che appare a primo acchito eccessivamente tronfio, scenograficamente parlando, e pompato all’esasperazione a livello di sceneggiatura, man mano che lo si assimila si smussa in tutte le sue spigolature. Il film narra le vicende di Javier, pagliaccio triste di una compagnia circense, il quale eredita la passione per il circo dal padre. Quest’ultimo era stato a sua volta un pagliaccio allegro e aveva combattuto al fianco del fronte antinazionalista e antifranchista ai tempi della guerra civile per poi essere condannato ai lavori forzati sotto il regime di Franco. Javier è innamorato della donna del pagliaccio allegro, uomo gretto e violento, e la sua opposizione al rapporto tra i due provoca un’escalation di violenza che culminerà con la morte della donna e l’arresto dei due. Al di là della trama, apparentemente banale e melodrammatica, è un film che sedimenta, alla stregua di Cronenberg, ma che, diversamente dai film di quest’ultimo, presenta un’ingorda fame scenica con un’acme finale, in occasione dello scontro frontale tra i due, trionfalmente e baroccamente esibito che nel regista canadese, per esempio (e per ovvie ragioni), non troviamo. Già, ragguagliamo il sommo regista all’autore di questo film, Alex de la Iglesia, non per manie di blasfemia, ma a buon diritto, dato che, in un certo qual modo, anche oggi parleremo di mutazione. Tema più spartanamente trattato, non inerente al piano fisiognomico, tanto caro al primo Cronenberg, ma a quello caratteriale, psicologico, mentale. Umano insomma, immerso totalmente in un mare di azioni, situazioni, sconvolgimenti e cause da cui prende avvio. E, paradossalmente, continuando su questo versante, de la Iglesia sembra mischiare coscientemente le carte, rendendo tra loro vicendevolmente implicativi livello genetico e livello psicologico dei personaggi, del loro dramma. Ma vediamo perché.

Già, abbiamo parlato di dramma. Con cognizione di causa. Non nell’accezione claudicante e fallace del “gergo” (perché di questo si tratta!) giornalistico, il quale lo identifica col termine “tragedia”, ma in un’accezione… etimologica. Perché questo film ha un non so che di teatrale. Drammatico, per l’appunto, prima ancora che tragico. E questa componente risalta agli occhi allorquando il film si apre come una voragine (nell’ultima mezzora per intenderci) e sembra fagocitare tutti i personaggi, spedendoli in una dimensione altra, quasi caricaturale, fumettistica, senza dubbio scenica. Le vicissitudini dei personaggi piombano in un immaginario teatro e lì sembrano risolversi acremente. Dal basso della nostra umile posizione di spettatori, sembriamo assistere ad una storia convulsa, confusa, accelerata vertiginosamente nel finale. Ma proprio il cambio di scenografia e ambientazione, divenuto proprio nel finale volutamente monumentale ed esagerato, rende paradossalmente credibile l’epilogo. Tutto viene elevato sopra le righe e sembra assistere al finale di una tragedia (questa volta sì) greca. Ma diversamente da quest’ultimo termine di paragone, non vi è alcun messo che ci racconti cosa sia successo fuori dalla scena. Il tutto è ripreso, o, per rimanere in tema, portato in scena. E ha anche una spiegazione l’ambientazione dell’ultima sequenza, vale a dire l’apice della croce che si erge sulla monumentale Valle dei Caduti. Lì infatti ebbero inizio per Javier tutte le tribolazioni familiari, col padre costretto da Franco a lavorare alla costruzione dell’opera. Lì deve verosimilmente finire tutto. O ricominciare forse, nella più desolante amarezza e tristezza. Senza una donna, senza la donna. Tremendamente misogino, a tratti, il film. Di una misoginia istintiva e non ideologica, naturale e innata, verrebbe da dire. Logica, insomma. Perché come una sorta di novella Elena, la protagonista del film, donna avvenente, spontanea e prorompente, rappresenta un cliché del genere femminile. Quello della belloccia media e fondamentalmente ingenuotta, che, pur nella totale (forse) buona fede, provoca la più inimmaginabile baraonda sentimentale, civile, umana. Ne rimane compromessa questa volta non una città di mitologico retaggio ma l’animo dei due protagonisti. Scissi sino all’esasperazione da una binomica visione della faccenda, ora tentativo di far valere il vero amore per una donna, ora pretesto per scatenare semplicemente una rabbia repressa secolarmente. Ed è questo il fulcro del film. Chi dei due amava realmente la ragazza? Di sicuro non il pagliaccio felice, verrebbe da dire. Ma non siamo neppure tanto certi che la risposta giusta sia l’opposta. Ebbene sì, la maschilistoide sentenza che andrebbe tirata fuori da questo calderone è che sicuramente la contesa tra maschi alfa concerne più il campo dell’odio che quello dell’amore o addirittura dell’onore. Come ha osservato Andrea Rapisarda, “questa commistione di violenza della guerra e violenza dell’amore che Javier è costretto a subire lo plasma in un stile caricaturale molto alla Taxi Driver”. Niente di più vero. Javier non è semplicemente un pazzo schizoide ridotto allo stato semibrado, ma neppure un eroe (si badi bene), come non lo era Travis nel film di Scorsese. Entrambi semplici vasi traboccati per via di un’insofferente esasperazione. Apparentemente risorti dalle loro macerie di inamovibilità sociale, ma in realtà ancora più sconfitti di prima. E il titolo italiano del film sembra calzare perfettamente. In questa ballata triste cui il film allude anche (ma non solo) metaforicamente, rinveniamo una variopinta sfilata di personaggi al limite del verosimile. Carnefici, vittime, o soprattutto entrambi contemporaneamente. Ma tutti pagliacci. Tutti concorrenti di uno spettacolo circense (che sa molto di farsa assurda) chiamata vita sociale. E in questa visione che solo eufemisticamente definiremmo hobbesiana, violenze e continue usurpazioni sembrano minacciare chiunque, dal poveraccio come Javier al potente per antonomasia (Francisco Franco). L’”homo homini lupus” di plautiana memoria diviene “homo homini hyaena”. E come tale al delirio umano segue il ghigno beffardo e atroce, sanguinario e iracondo, come nel caso dell’agghiacciante scena finale, che vede i due protagonisti rispettivamente ridere amaramente e piangere dopo il loro ultimo scontro. E il finale che potrebbe apparire alla Michael Bay o James Cameroon, diviene paradossalmente l’unico da poter presentare. Lo scontro sulla croce della Valle dei Caduti rappresenta niente meno che la detronizzazione della storia, dei suoi miti di sempre. Una rivalutazione antiaccademica che sa molto di rivalsa dell’uomo inteso come singolo, prescindente da tutto l’apparato storico che i libri di scuola, su un versante o un altro, ci hanno sempre propinato. Le botte tra miserrimi e minuti pagliacci (neppure uomini) divengono uno scontro tra titani, epico, degno di un novero tra gli annali. Un simbolo degli ipocriti, blasfemi, populisti e roboanti fasti della dittatura franchista (o della dittatura in senso lato) usato beffardamente come semplice teatro di contesa personale, personalissima.

Lo storico Polibio rimproverava a Teopompo di aver incentrato le sue Filippiche eminentemente sulla figura di Filippo il Macedone e aver fatto della storia di tutto un popolo una misera cornice per le imprese del suo eroe. Ma non sempre piantare le vicende di un individuo in una storia già conosciuta appare di cattivo gusto. Perché, prima di tutto, in questo caso non si narra di un eroe, ma di vicende (almeno inizialmente) profondamente intime. È vero, film come Forrest Gump hanno fatto di questa impostazione narrativa un superfluo trastullo di sceneggiatura. De la Iglesia invece sceglie di parlare di un individuo che con la storia c’azzecca poco o niente, ma che la storia, quella dei padroni che la scrivono, la subisce o tenta di schivarla. Per inseguire ciò che realmente conta per lui, per imporre titanicamente la sua di storia, la sua di guerra. Per una donna forse. O semplicemente per una rivalsa personale, per far riaffiorare un’ira senza precedenti, che rischierebbe, altrimenti, di implodere. A proposito di guerra. Il tema è trattato con una maturità eccezionale. Mai di parte (il che non significa politicamente corretto), perché il regista sembra volerci dire che non esiste una resistenza pacifica, senza (gratuiti) spargimenti di sangue. In una storia scritta abbastanza manicheisticamente, ogni opposizione al potere è sempre vista benevolmente, anche qualora il prezzo della libertà sia un’efferatezza disumana. Ma il film va oltre. Ed è il caso delle sequenze iniziali del film. Il padre di Javier, pagliaccio allegro, sembra combattere da esperto mercenario, con una brutalità che sa più di repressa tendenza omicida innata che di patriottico livore libertario. Tutti coloro che impugnano un coltello, nazionalisti o meno, franchisti o meno, sembrano essere dei pagliacci, non solo chi vi è travestito. “Quando hai una pistola in mano, qual è la differenza?”, chiedeva Jack Nicholson in The Departed. Ed è proprio questo il punto. Non c’è un bene o un male, nemmeno se al cospetto di una resistenza socio-politica ad una dittatura come quella di Franco. Il film esprime il vero volto della violenza, nuda e cruda. Allo stato grezzo, non lavorato. Che non conosce bandiere, emblemi ideologici, politici, nazionalità o stato sociale. L’ira è una tendenza naturale, un’inclinazione universale e tutti, ma proprio tutti sono capaci di calare l’asso della violenza furibonda. Un monito dunque per i padroni, che da gente come Javier, vilipeso e reietto, un vero poveraccio, non si aspetterebbe mai una simile reazione alla vita. E la verità sembra detenerla un unico personaggio nel film. Si tratta del primo pagliaccio triste, spalla del padre di Javier. Nell’episodio in questione, alla insistente e reazionaria recluta del fronte antifranchista, impegnato nella resistenza, il pagliaccio, “dall’alto della sua umiltà”, rivendica la sua volontà e il suo bisogno di continuare a lavorare anziché combattere. Naturalmente verrà abbattuto come un cavallo malato e non si vedrà più. È come se il miglior personaggio non abbia possibilità di vita in quella Spagna adesso troppo presa da ostilità che sanno più di scontri tra quartieri allo sbaraglio. E allora, al fine di sopravvivere, il padre di Javier diviene all’occorrenza un criminale. Come farà, anni più tardi, il povero figliolo.

Non c’è alcun dubbio sul fatto che de la Iglesia conosca benissimo il cinema europeo. Il suo risulta essere un film innovativo nella messa in scena, ma che affonda le sue radici in un cinema classico, mai di cattivo gusto. Pur corroborando l’estetica del film con trovate considerabili eccessive, pur realizzando un film a volte sopra le righe, tutto rientra negli argini e non risulta essere indigesto. L’influenza di Fellini è evidente, soprattutto per l’ambientazione circense (che fa pensare immediatamente a ) e per le conseguenti pretenziosità e magniloquenza delle riprese. Ma i movimenti di camera non sono quelli nauseabondi dell’ultimo Sorrentino (o dello stesso Fellini), ma trovano nell’equilibrio il loro punto di forza. E nemmeno nel miglior Fellini potremmo trovare un’immagine così esteticamente impattante, destinata a divenire cult, come quella della grottesca e atrocemente satirica donna pagliaccio (da cui è travestito il padre di Javier durante gli scontri) che uccide a colpi di machete e versa sangue a bizzeffe, prendendoci gusto. Per non parlare della fotografia, nitidamente chiaroscurale, contrastata ma al punto giusto, affidata a Kiko de la Rica, che sembra ricordare Tom Stern, lo storico direttore della fotografia nei film di Eastwood. E come già annunciato nell’incipit, de la Iglesia sembra essersi spolpato tutto Cronenberg. O almeno la sua seconda fase, quello di A history of violence. Non a caso citiamo proprio questo film del maestro canadese perché, per certi versi, sembra collimare, tematicamente parlando, con La ballata dell’amore e dell’odio. In entrambi i film assistiamo al risveglio di una coscienza non politica, non di classe, ma antropologica, sociale. E se nel film di Cronenberg Viggo Mortensen era già stato un omicida (come, per intenderci, Clint Eastwood nel suo capolavoro Gli Spietati), Javier scopre di esserlo progressivamente, insieme allo spettatore, che si sconvolge, al cospetto di cotanta logica sanguinaria, inaspettata, ma nello stesso tempo prevedibile. Qui dunque si parla di una mutazione propriamente detta, poiché l’involuzione (o evoluzione, dipende dai punti di vista) viene narrata in tempo reale e lo spettatore vi assiste autopticamente. Le turbe psichiche degenerano ogni istante di più fino a raggiungere l’apice; credibile, perché frutto di una quasi estatica scalata graduale verso la pura follia. Ma il terribile messaggio veicolato dal regista sembra riguardare la natura genetica dell’ira. Proprio come un tumore, questo sentimento può anche covare per anni e anni, ma, se si è ad esso programmati e predisposti, non si attende altro che una scintilla che faccia scoppiare questa polveriera. Cosicché non ci si possa stupire se persino un individuo apparentemente fesso e indefesso esplode irrimediabilmente. E un plauso va, naturalmente, ad un attore straordinario che interpreta Javier, vale a dire Carlos Areces. Sconosciuto ai più (noi compresi), che dà una lezione di recitazione al mondo intero riuscendo a trasformarsi, trasfigurarsi ed effettivamente raggiungere l’estremo delirio con una strepitosa mimica facciale.

Un film essenzialmente socialista. Che esplica una rivoluzione degli ultimi che non attendono il Regno dei Cieli; dei reietti. Tali perché goffi, antiestetici, poco accattivanti o poco violenti. Che si riscoprono tuttavia capaci di diventarlo e surclassare tutto e tutti. Per ottenere nulla tuttavia (e qui risiede la sconfitta definitiva dell’uomo). Un film impossibile, per certi versi, da decifrare. Ora noir, ora commedia amara, ora horror, ora gautieriano (la trama del film, eccetto il finale, è molto simile a quella del romanzo Capitan Fracassa di Gautier), ora action, ora tragedia. Con quel finale estremamente gotico, che suggella la fine di una donna presentataci come un angelo caduto dal cielo e morta, invece, da demone seminatore di discordia cacciato via dall’aldilà. Incapace di provare vero amore; che pagherà caro, con la propria vita. Ennesimo film pseudo-apocalittico, per certi versi, che recensiamo. Perché, in fondo, solo non dispensando gratuite speranze, in finali lieti, il cinema può davvero consegnarne alcune.

Gabriele Santoro

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LA DIMORA DEL GENERE

Si dia al cinema quel che è del cinema. Senza fronzoli o sperequazioni varie. Perché, tacciata com’è di essere la forma di arte più infima che ci sia (e ammesso che sia arte, onestamente), per lo meno le si consegni ciò che più rientra nel suo diretto dominio. Migliaia di volte sentiamo dire (e non si necessita di attestati di un qualche centro sperimentale di cinematografia per capirlo) che certi film vanno visti al cinema, solo lì, per apprezzarne la totale integrità formale. Niente di più vero. Poi c’è altro, c’è del cinema che, dall’alto della sua potenza contenutistica ma anche estetica, riesce ad impressionare anche su un 12 pollici. Ma questa è un’altra storia. La nostra disquisizione di oggi verte su quel calderone che approssimativamente ma coerentemente coi contenuti chiamiamo spesso “cinema di genere”. È chiaro dunque che più che in ogni altro caso proprio il genere risulta congruente con il ragionamento sopra esposto. E se vi sono registi che partendo dal genere se ne discostano sempre più rendendolo funzionale ad una suprema autorialità (Cronenberg, Carpenter, Scorsese), esistono pure addetti ai lavori che un certo leitmotiv della propria cinematografia lo mantengono sempre all’interno del genere stesso di appartenenza. Sperimentando sfumature diverse magari, ma senza mai davvero sconfinare in campi altri. È il caso del regista del giorno, punta di diamante del cinema di genere italiano nel mondo. Riconoscente verso i mostri sacri del cinema passato e per questo a sua volta riconosciuto come mostro sacro dai posteri. Stiamo parlando di Sergio Leone. Di lui si è detto tanto, troppo forse. Proviamo a dire qualcosa, senza troppe pretese, pure noi.

Ogni generazione di cinefili ha la sua condanna, una pena da scontare. Che sia quella di vivere nell’epoca delle “americanate” più americane del solito, pregne di colori sgargianti e sovraesposti ed effetti speciali zoticoni o che sia quello di non aver potuto vedere al cinema i film di genere del passato, spolpati e rispolpati tuttavia in videocassetta. Ma, per chi non se ne fosse accorto, viviamo nell’epoca della semplificazione estrema, dell’annichilimento dei vincoli (necessari!) temporali e del rilancio di qualche moda vintage che sa più di accattivante e ruffiano servilismo nei confronti delle masse che di spontaneo ritorno ad un passato genuino. Allora ecco che il supporto digitale si erge incautamente a garante dei desideri della nostra generazione, catapultandoci in una dimensione passata e forse già scaduta, che sarebbe piuttosto opportuno lasciare riposare in pace al fine di non dissacrarla. Detto questo, però, alla notizia che vi fosse nuovamente al cinema un cult come Per qualche dollaro in più non ho saputo resistere e sono corso a vederlo. Se non fosse stato riproposto, sia chiaro, avrei continuato a mangiare serenamente pane e cipolla come sempre e c’avrei dormito su lo stesso, magari invidiando mio padre che lo aveva visto al cinema, ma nulla di più. Ma il cinema è cinema! E sentire quella colonna sonora fischiettata, arguta, rockeggiante e beffarda in una sala cinematografica ha tutto un altro gusto. Tutto sembra molto più coinvolgente, avvolgente, persino credibile. Il cinema assume insomma dei tratti onirici, nel senso che al suo interno decade ogni logica precostituita e sembrano vigere regole altrimenti aliene. In questo contesto si inserisce naturalmente la Trilogia del Dollaro. Costituita da film innovativi nello stile, nella messinscena, nel racconto. E naturalmente nell’impostazione di base dello stesso genere di appartenenza, il Western. Ma film pure, per certi versi, assurdi, terribilmente sopra le righe se non addirittura grotteschi. Film che forse peserebbero ad un amante del realismo spietato nel cinema, perché spesso caricati, prolissi sino all’esasperazione, inverosimili. È vero, gli abiti, il trucco, la scenografia e le stesse inquadrature rimandano ad un realismo estetico opportunamente esibito, che attenua le apparenti spigolature della sceneggiatura. Ma viene comunque difficile credere che vi siano persone al mondo, soprattutto nel “lontano” West, che per spappolarsi le budella aspettino la fine della musica di un orologio da taschino. Che spendano la maggior parte delle giornate a dimostrare quanto bene sappiano sparare puntando i cappelli altrui. Che indispettiscano un fuorilegge accendendo sulla sua gobba un fiammifero. Che abbiano sempre, ma proprio sempre pronta una battuta perfettamente incastrata a mo’ di sentenza biblica. È chiaro che il genere non possa prescindere dalla visione sorda, “buia”, insudiciata ma discreta in una sala cinematografica. Visione altrimenti imbarazzante, persino superflua. Ma questo vale per il genere in senso stretto, naturalmente. Quando esso infatti sconfina, come anticipato, in campi limitrofi e si sublima al fine di veicolare un messaggio diverso, magari socialmente impegnato, il cinema tende a perdere la sua portata estetica ed estetizzante e diviene semplice ma nobilissimo medium. Ma vi è un film di Leone che riesce a conciliare entrambe le concezioni di cinema. Doppio indizio: si parla di un treno da costruire e c’è una proverbialmente perfetta Claudia Cardinale. Perché C’era una volta il West è il capolavoro assoluto di Leone, stando al criterio sopra esposto. Estetica ed etica, per così dire, perfettamente miscelati a creare un ritratto commovente, dunque sublime (non solo bello!) di un Occidente proiettato al progresso ma dimentico di un passato occulto e occultato, di sangue, infamia e oppressioni. Anche qui la sala cinematografica riesce a consegnarci un film che la tv di casa renderebbe forse sottotono ai più, ma nello stesso tempo Leone si serve di una messinscena perfetta e “di genere” per realizzare questa volta il film forse più politico (insieme a Giù la testa), per certi versi agli antipodi rispetto alla Trilogia precedente. Infatti, nonostante lo stile, i movimenti di camera e gli espedienti narrativi siano simili a quelli dei film con Eastwood (dai voluti cali di tono per poi improvvisamente far schizzare il film ai frequenti flashback dei protagonisti che svelano il loro misterioso passato), le musiche, le atmosfere e i personaggi sono molto più spossati, sgonfi, meno posticci, sofferenti e malinconici quanto mai. Il genere western comincia ufficialmente ad acquisire un senso. Solamente adesso.

Sospensione del giudizio. Epochè, la chiamavano i Greci. Sottoporre a rianalisi critica i grandi classici o in generale il sapere già acquisito e apparentemente inamovibile ed eventualmente rivalutarlo è dovere intellettuale di tutti. Il rischio per chi non lo fa è quello di assimilare passivamente ma inconsapevolmente un tipo di cultura. In campo cinematografico ciò è quanto mai vero. Perché se Leone è un genio, un talento indiscusso, bisogna almeno sapere perché lo sia, ammesso che lo sia. Lo è, senza dubbio. Ma, come detto, il vero Leone, libero da vincoli di mercato e botteghino, libero dalla schiavitù del compiacimento delle masse e dalle prerogative insuperabili che il genere a volte impone, è quello post – Trilogia. Un mio amico, alla notizia del restauro digitale dei tre film, saggiamente mi disse su questi ultimi: “Niente di più americano”. Già, perché, a parte qualche personaggio (Tuco o il terribile Indio), vi sono poche impronte, per così dire, “progressiste” in questi film. Anzi, come qualsiasi altro discreto western, almeno relativamente al soggetto, notiamo carenza di contenuti. Viene senza dubbio rappresentato un mondo di violenza e compiacenza della stessa, che comprende che per raggirare l’ipocrisia deve per lo meno fare di necessità virtù e rendersi avvezzi al sangue anche per lavoro, attraverso i cacciatori di taglie (l’America fondata sugli stermini operati dai cosiddetti pionieri ha portato già a termine il suo mandato e c’ha pure preso gusto). Ma niente di più. A livello contenutistico questa già di per sé sfumata critica ad una neonata nazione diviene ancora più labile allorquando entra in gioco una straniante e ambigua ironia tra le gesta di Eastwood, Volonté, Wallac, Van Cleef, Rabal e compagni. Straniante perché rende quasi legittimi i “mezzogiorni di fuoco”, tutti i superflui spari e le stragi di uomini fatti fuori come fossero noccioline, creando una sorta di disorientante ammiccamento nei confronti del pubblico verso tutto quel sangue sparso gratuitamente. Il tutto portando un’ironia di fondo facilmente fraintendibile e una musica non di certo struggente proprio dalla parte di pistoleri da strapazzo. Potremmo azzardarci a dire insomma che Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto e il cattivo (anche se in minor parte) sono quasi interamente “puro genere”, con una netta tendenza a mostrare disumanità tra i protagonisti, dipingendoli ciononostante in modo positivo. Ma allora questa trilogia non serve a nulla? Assolutamente no, altrimenti non si sarebbe definita, sin dall’inizio, cult. La sua è una schiacciante portata estetica. La valenza cinematografica di questi tre western sta infatti nella totale rivoluzione tecnica e stilistica del genere. Ai vecchi visi, imbellettati, puliti, sempre tirati a lucido e poco spontanei di reazionari alla John Wayne fanno da contraltari quelli naif, malconci, sudaticci, luridi e orripilanti della nuova generazione western (è un po’ lo stesso lavoro intrapreso da Pasolini quando realizzò Il vangelo secondo Matteo, stando giustamente ai canoni di bellezza di duemila anni fa). Se la sceneggiatura sembra apparentemente, come detto, un po’ troppo su di giri, la regia è quanto meno perfetta. Senza minimamente strafare, Leone sfoggia virtuosismi di camera e chicche di montaggio che elevano il genere a mestiere da vero e talentuoso artigiano (e artista) del cinema. A doverosi momenti di stallo fanno da contraltare sequenze di bellezza registica mai barocca che rasenta il delirio estatico (tra tutte quella del duello finale tra Volonté e Van Cleef in Per qualche dollaro in più, con un montaggio frenetico e riprese di dettagli al fulmicotone, presenti anche nel triello finale de Il buono, il brutto e il cattivo). L’immenso genio di Leone si erge anche quando, in fin dei conti, inserisce episodi e situazioni all’interno della sceneggiatura che non rendano affatto sgradevole la pellicola, di per sé già pericolante in potenza. Un esempio tra tanti quello della foga che Van Cleef mostra nel voler uccidere a tutti i costi Volonté, reo quest’ultimo di aver ucciso sua sorella anni prima. La vendetta diventa l’unico e, paradossalmente, indiscusso movente dell’uccisione dell’Indio, personaggio sì sgradevole, ma combattuto e scisso, che non merita, al di là del delitto di cui si era macchiato, trattamenti peggiori rispetto agli altri personaggi del film, tra cui lo stesso Eastwood, il più ingordo di denaro. Il West e l’America tutta della trilogia (come il West per antonomasia in realtà) è un eterno “luogo del delitto”, in cui il Male diabolicamente inteso perpetra la sua immagine dalle origini sino ai nostri giorni, i giorni di un’ennesima e quanto mai tragica e stucchevole guerra dichiarata all’Iraq. E tra le righe Leone sembra voler far intendere come l’Eastwood di Per qualche dollaro in più sia il prototipo dell’Americano medio che sarà, pronto a elargire generosamente proiettili per appena trenta denari. Odioso e presuntuoso quanto mai, se si assiste alle sue vicissitudini da un televisore di casa, senza poter apprezzare in toto il piano tecnico del film, si rischia di farsi piacere la sua etica comportamentale, ridendo magari ad una sua battuta. C’è un Leone dunque critico e solenne (C’era una volta il West) e uno critico ma immerso nel genere e in una compiacente ironia.

E naturalmente questi due versanti hanno costituito nel tempo due filoni completamente diversi del genere. L’Eastwood regista, per esempio, ha optato da sempre per un western molto più autoriale e discreto, mai sopra le righe, introspettivo e realista. Da Il cavaliere pallido fino a Gli spietati ha sempre messo in scena personaggi combattuti e intrisi di una certa po-etica, non di certo epici e magniloquenti come il capolavoro di Leone, ma non per questo ad esso inferiori. Proprio Gli spietati rappresenta, probabilmente, il più struggente e poetico western della storia, ed è un peccato che la nostra generazione non lo conosca e abbia invece apprezzato Django di Tarantino. A proposito, quest’ultimo rappresenta invece la “caricatura pop” (dalla potenza visiva indiscutibile ma un tantino troppo barocca) del filone leoniano immerso totalmente nel genere. Non è un caso che abbondino citazioni stilistiche, di sceneggiatura e sonore, ma risulta essere un western che sconfina pericolosamente nel post-post-moderno (sia chiaro, post-moderni erano, in fin dei conti, già i western leoniani), con musiche a volte improponibili e anacronistiche. Ad un finale pirotecnico che sembra promuovere Django a unico eroe del film (anziché relegarlo, insieme al resto dei personaggi, ad una massa uniforme di antieroi, assassini e fuorilegge) si oppone un finale ne Gli spietati in cui la vendetta sembra condannare il protagonista alla vita, nuovamente monotona, in un’ancora più spiazzante solitudine. E lo scatto che distingue un western piacevole come quello di Tarantino dal capolavoro di Eastwood è proprio la totale assenza della componente grottesca del secondo rispetto al primo. L’ironia ne Gli spietati (come del resto in C’era una volta il West) è solo interna ai personaggi, qualora la si trovi, non è scritturata o sceneggiata, non è espressa dai toni colloquiali e non pesa affatto. L’ironia in Django (come del resto quella di Per qualche dollaro in più, per esempio) appartiene invece al genere e rende tutta la pellicola molto grottesca e fumettistica (il sangue “pulp” e sovraesposto e i voli esorbitanti dei personaggi bersagliati da Django ne sono una conferma). Puro genere in Tarantino e omaggio ad esso contro autorialità nel genere in Eastwood. Stesso padre, Leone. Figli diversi.

Ciò che si consiglia in questa sede è di vedere tutti i film di genere (ma proprio tutti, da Tarantino a quella latrina di Bay) in una sala cinematografica, il suo habitat naturale insomma. Perché snobbare il cinema inteso come luogo deputato alla visione significa mandare al diavolo la tradizione prediletta dai nostri padri, e dai nostri nonni prima di loro. E significa, soprattutto, vanificare ogni tentativo di legittimazione artistica del cinema messo in atto da maestri come Sergio Leone. E Agira ha ancora una saletta. Notizia non così scontata, vista la chiusura di migliaia di cinema negli ultimi anni. Ce l’ha, in pieno centro storico. Così, giusto per ricordarlo.

Gabriele Santoro

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NON DI SOLO CALCIO…!

Trampolino. Da cui rimbalzare per piombare altrove. Passando da un argomento all’altro come fossero noccioline. Ma con molta cautela, naturalmente! Cinema, in fin dei conti e pragmaticamente, vuol dire anche questo. Creare precedenti tematici da sciorinare e tirar fuori quando serve, se serve. Per parlare d’altro, non necessariamente di cinema stesso. Di religione, perché no. Di politica, sempre. Di etica, magari. Di morale, delicatamente. Di calcio, sicuro!

Avevo due desideri fino a poco tempo fa. Uno era quello di vedere un film diretto da Cronenberg, con Julianne Moore e Philip Saymour Hoffman. Parzialmente realizzatosi, ma non del tutto, per ovvie ragioni di cronaca che ha coinvolto Hoffman (pace all’anima sua!). L’altro era quello di vedere realizzato un film sul più forte giocatore della storia del calcio, affidando però la sceneggiatura a Martin Scorsese. Ci saranno sicuramente migliori registi, si penserà. Non c’è dubbio, ma Scorsese sa fare qualcosa che nessun altro regista sa fare: riuscire a rendere ammiccanti personaggi altrimenti odiosi e repellenti. Motivando, umanamente, ogni loro impulso, facendone dominio comune. Personaggi come il pugile La Motta e Jordan Belfort, tanto per citare due esempi solo cronologicamente lontani tra loro, rendono manifesta l’impossibilità, da parte nostra, di approdare ad un giudizio morale univoco sulle loro gesta. Perché sono uomini e da tali agiscono, seppur in maniera inconsueta. Nessuno come lui, insomma, è capace di renderci solidali anche verso tendenze comportamentali apparentemente lontane da noi. E chi merita più degli altri, tra tutti gli uomini di sport che hanno condotto un’esistenza così dissipata e “scorsesiana”, che gli si dedichi un film biografico? Naturalmente chi è stato il migliore. Se poi si vuol parlare di aria a bagnomaria e negare che Diego Armando Maradona sia stato il non plus ultra, il primus inter pares, allora si vuol fare un buco nell’acqua. Saltando a piè pari ogni azzardato ed improponibile confronto con atleti del presente (solo questo sono diventati i calciatori oggi), bisogna accostarsi un po’ più alla storia propriamente detta per comprendere chi fosse realmente Maradona. Tornare insomma indietro nel tempo, a quando il calcio si chiamava più frugalmente ma opportunamente pallone. A quando saper giocare a pallone non era il corrispettivo dell’odierno “saper giocare a calcio”, rifuggendo ogni barocchismo tecnico, estetico – olistico, pubblicitario. Niente “cricchie” da Gallo Cedrone, I-Phones placcati in oro, Maserati maculate (come se non bastassero già sobrie per attirare l’attenzione), cadute simulate da sbronza di libera uscita un sabato di carnevale, atterramenti coreografici a tempo che neppure Roberto Bolle. Maradona insomma giocava a pallone in un ambiente estraneo (ancora per poco) a beceri orientamenti che potremmo definire… “Cool and the sGang”. Ebbene sì, perché solo strafacendosi di qualche droga un normotipo sarebbe disposto a presentarsi conciato così in campo senza temere reazioni da parte di pubblico e tifosi. E se Dieghito fu un tipo che negli anni Ottanta, comunque, faceva tendenza, questa è un’altra storia. Perché indirizzava mode potendoselo permettere, senza alcun timore reverenziale verso nessuno. Era un uomo di copertina anche lui, è vero, ma non perché protagonista della cronaca rosa, ma di quella, se non nera, comunque grigiastra. Immerso in un altro modo di intendere calcio, insomma, si diceva. Quello dell’atletismo del cuore, delle storie romantiche, delle rivalse sociali, delle vendette politiche.

Ma andiamo con ordine. Ciò che oggi ci dà lo spunto per parlare di calcio (anzi, “del” calcio!), il nostro trampolino in questione insomma, è un film del 2007, di Marco Risi, Maradona, la mano de Dios. Film fatto coi piedi, si specifichi subito (da qui il desiderio sfrenato che a dirigere un film sul dio del calcio sia, come sopra agognato, un tipo che ci sa fare come Scorsese). Ma in questo film emerge qualcosa di unico, che forse neppure lo stesso Martin probabilmente sarebbe riuscito a far ergere, gargantuesco nella sua eterna solitudine: il mito di Maradona. Vi è una scena difatti nella quale l’ormai ex giocatore del Napoli, a seguito di un malore per overdose e presso una clinica psichiatrica, condivide il suo delirio per la permanenza in quell’orribile posto con la moglie, confidandogli però con un sorriso di soddisfazione: “Qui c’è chi si crede Napoleone e tutti gli altri ci credono. Chi si crede il Papa e tutti ci credono. Io ho detto di essere Maradona, ma nessuno vuole credermi.” Bang! Questo breve dialogo è come una fucilata. Perché chi ha conosciuto Maradona, da tifoso del Napoli o magari da semplice amante del pallone, sa che può benissimo essere accostato ad una qualche immagine deificata o divina. Senza alcuna blasfemia, si badi bene. Perché con lui tutto è concesso. Allora mai come adesso è opportuno credere alla Parabola dei Talenti, a lui tanto aderente, per predestinazione, per vissuto, per storia. Non si ricorda cristiano alcuno che, dichiarando ingenuamente ed in sordina i suoi due sogni ad un giornalista all’età di nove anni, cioè quelli di giocare un mondiale con l’Argentina e di vincerlo, li abbia visti poi realizzatisi nemmeno vent’anni dopo. Se fosse un film lo si etichetterebbe come una solita storiella da strapazzo tra il melenso e il melò. Ma è cronaca! Ecco perché quella sequenza del film sopra citata sembra molto più che verosimile. E poco importa se quelle frasi Maradona le abbia davvero pronunciate. Perché riconsegnano la perfetta icona di un mito e l’essenza di tale identificazione. Perché sembrano descrivere l’uomo e il calciatore più di quanto quel noiosissimo film non riesca a fare per tutta la restante parte. L’essenza del mito, si diceva. Trasmutata e trasvalutata rispetto alla concezione usuale. Dire “Mito” e dire “Maradona” assumono sfumature differenti. La seconda parola ha difatti trasceso la categoria stessa della prima. Il tutto proprio perché fino a Maradona nessuno avrebbe mai potuto immaginare che il verbo del talento allo stato ideale e puramente concettuale potesse farsi carne in un solo individuo. Tutto uomo, peraltro. Nessuna incarnazione divina (da qui una sorta di necessità di deificazione). L’uomo travalica se stesso. E comincia ad averne paura, perché molto anticonvenzionalmente umano. E tale forma particolare di “volontà di potenza” si autodefinisce in ciò che c’è di più immanente al mondo, il pallone. Niente di teorico o trascendente. Solo umano pallone. Ma sono solo parole al vento queste. Per ben comprendere come le frasi di quella scena siano anzi riduttive della grandezza di Maradona, è necessario accostare le parole ai fatti. E che fatti! Elevare “l’umano pallone” ad entità sovraordinata è compito non facile. Soprattutto se provieni da una casa popolare di Villa Fiorito e se durante l’infanzia hai giocato con un pallone di lana. Magari riesci ad emergere, ma, per dimostrare di valere più degli altri, devi essere in grado di sfidare tutto e tutti ed uscirne vincitore. Oltre la mediocrità, oltre l’improbabilità. Oltre la fisica, soprattutto. E’ il 3 novembre 1985. Il Napoli ospita la Juventus del Trap, imbattuta per le prime otto giornate. A guastare la festa, come è prevedibile che sia, è proprio Maradona. E’ il secondo tempo quando l’arbitro fischia un calcio di punizione indiretto, dentro l’aria. Impossibile da battere direttamente in porta (se non puntando sul secondo palo, di potenza) per via dell’eccessiva vicinanza della barriera. Bastian contrario! “Come non det…”, sembra esclamare il San Paolo, prima di spalancare, stordito e collassato, la bocca per lo stupore. Il resto è storia, naturalmente. Girata e rigirata, ma che non fa mai male ricordare. Il calabrone spicca il volo come fosse colibrì, ignorando le leggi della natura che altrimenti lo vincolerebbero al suolo, se solo ne fosse al corrente. E Maradona fa finta di non esserne al corrente. Calcia ugualmente con quel (solo) suo interno sinistro, segnando una traiettoria improbabile (non impossibile, a questo punto!), scavalcando la barriera con quel pallone ben più “maneggevole” di quelli poco pratici di lana. Villa Fiorito è lontana ormai e con un pallone vero è un gioco da ragazzi fare ciò che riusciva a fare con ogni altro tipo di oggetto. Ecco allora perché Maradona riuscì ad arrivare persino dove non sono arrivati i professori universitari, scervellatisi e spremutisi le meningi, questi ultimi, per anni al fine di sgamare il trucco. Proprio come Jackman in The prestige di Nolan. Ma non c’è trucco, non c’è inganno. Pura magia, arte suprema, chiamatela come vi pare. Di sicuro è genio. “Puro, limpido, crestallino”, direbbe il colonnello Kurtz. Tutto questo giorno 3 novembre. Tra le commemorazioni dei defunti e dei caduti in guerra, quello dello scivolone della Vecchia ed imbattuta Signora. Solo frutto del caso?

E’ chiaro, alla luce di quanto detto, che “l’umano pallone” assume connotati di portata non di certo ordinaria. Ma la sublimazione passa per il campo, non è importata da fuori. Ecco perché il personaggio Maradona, scapestrato (ma non come si narra) e dissipato, rimarrà confinato al di fuori del campo di calcio. Ecco perché non si può identificare costui come l’iniziatore di un certo approccio al calcio, “fashionizzato”, posticcio, rifatto dei giorni nostri. La legittimazione “artistica” o quanto meno tecnica del pallone prescinde da una qualche patologia di “mondanità dandy” che un buon calciatore può comunque avere (affari di casa sua!). All’immagine dell’uomo, insomma, si accosta il mito sul campo, quello che si sovraordina, stando alla scena del film, a entità di ben altra caratura ieratica, solo perché, a buon diritto, più alla nostra portata, immanente, umano, recente, nato povero, popolare e populista, soprattutto.

Già, populista. Nel senso più genuino del termine. Impegnato politicamente in una rivalsa sociale, che parte da Villa Fiorito, per raggiungere il tetto del mondo. Con al seguito tutti coloro che come lui credevano che persino col pallone, l’unico strumento di cui ci si poteva servire, si potesse approdare ad una qualche rivalsa nei confronti di oppressori coloniali secolari. Ed è come se la storia avesse concesso a Diego Armando Maradona, durante i mondiali del 1986, di potersi vendicare sullo spietato colonialismo inglese, responsabile dell’episodio della guerra per le Malvinas, oppressore nei confronti di una fin troppo vilipesa Argentina. Ma proprio la sua partita più eclatante, “la partita del secolo”, come è stata chiamata, quella contro l’Inghilterra (in cui metterà alla berlina tutto un sistema culturale occidentale, prima con un gol disonestissimo ma quanto mai opportuno, di mano, e poi con quella suprema rete dopo aver scartato tutti, che è, se non la più bella, probabilmente la più vitalistica e roboante della storia), cela il segreto della scalata verso l’Olimpo del calcio. Maradona ha dimostrato in quell’occasione come per essere il migliore si debba trascendere l’etimologia stessa della parola calcio. Il gioco di squadra più famoso al mondo diventa gioco terribilmente individualista (e necessariamente direi!). Palla a Maradona e altri dieci giocatori concentratissimi ma poco più che mediocri a pendere dal suo sinistro. Nessuno si sognerebbe di inserire Maradona nella propria squadra dei sogni, perché al di fuori di ogni logica, al di fuori del tempo, al di fuori del calcio. “Metacalcio” dunque, non classificabile, raffrontabile o inseribile in studi di dati calcistici. “Maradona te lo manda Dio, tu devi solo stare attento”, disse Francisco Cornejo, primo allenatore del giocatore, non rivendicando alcun merito per averlo scoperto. E un dono di Dio non può mica essere statistica!

Potremmo citare almeno un’altra decina di casi di assoluta prodigiosità calcistica di Maradona, dal gol in torsione dalla trequarti contro il Verona (roba da Igor Cassina in forma olimpionica) al gol di testa dai trenta metri contro in Milan, di controbalzo, con gittata simile ad una potente pompa idraulica. Passando per il gol direttamente da calcio d’angolo o da centrocampo, e per i quattro gol promessi sentenziosamente e realizzati ad un incredulo portiere, Gatti, quando il fenomeno militava ancora nell’Argentinos Junior. E parafrasando il monologo iniziale di un capolavoro di Anderson, Magnolia, “è un caso” che ad un uomo riescano numeri del genere, affidati sì ad un istinto innato e talentuoso ma premeditati e consapevolmente esibiti? “E’ un caso” che a conquistare in meno di un decennio l’universo calcistico sia un poveretto e disgraziato, nato dalle miserie di Villa Fiorito? E ancora. “E’ un caso” che tutto ciò sia avvenuto ogni qual volta lo volesse? Volontà di potenza! Troppo umana, per essere vera.

Quando la nostra generazione dovrà raccontare storielle ai figli prima che si addormentino, narrerà di un uomo, presuntuoso, insolente, strafottente, arguto, tarchiatello, vizioso sì ma soprattutto virtuoso. Di qualunque cosa fosse sferica e palleggiabile. Narrerà di un ometto venuto al mondo con quella famosa e vaticinante intervista a nove anni e morto nel bel mezzo del mondiale di USA 94 (mentre eravamo appena nati). Il suo mito dura meno di quanto sembri e meriti. Come è giusto che sia, naturalmente, affinché sia tale. Narreremo di un uomo magari (si spera!) ancora in vita, ma come fosse dipartito. Perché qui sta la differenza con i “divi” del presente: il suo mito si arresta sul campo, ma non in partite solamente ufficiali, chiudendo la propria carriera in squadre arabe, australiane o canadesi di millesima categoria, ma in quelle che contano, in quei suoi naturali campi di battaglia che si chiamano Coppe del Mondo (anche se continuò ancora a giocare dopo il mondiale negli Stati Uniti). Maradona è un personaggio scomodo e coraggioso, caustico e provocatore, inviso ai più ma allo stesso tempo terribilmente “pop”. Non semplice dialettica del genio e sregolatezza, ma dell’eroe di epoca post-moderna, leader nel bene e nel male, compiacente di portarsi sulle spalle una croce con delizia in potenza, il suo amato numero 10. A quest’ultimo dedichiamo questo testo, unico ricordo beato di un uomo bistrattato e fin troppo condannato, oggigiorno sottovalutato e accantonato dalla critica calcistica e non, dal giornalismo di bassa lega e dagli stessi amanti del gioco del pallone. Personaggio infinito o quanto meno indefinito. Che sentiamo parlar male dell’America, esponenziale, goffa ma realissima caricatura politico-culturale di quell’Inghilterra da lui già troppo odiata e beffata nel mondiale che vinse, stravinse, da solo. Che sentiamo sbraitare contro caporaloni da strapazzo che primeggiano come fossero puritani Fürer dagli alti ranghi di quell’ingordo Reich che la FIFA rappresenta. Che incarna lo spirito romantico ormai decaduto, pronto a insudiciarsi i calzoncini per la propria gente. Così lontano dal pallone moderno. La realtà, la storia dunque sembrano impressionare più di un film, più di quell’apparentemente surreale confessione di Maradona alla fidanzata nella scena del film preso in analisi. Icona di un popolo più di chiunque altro. Per questo mito. Chapeau!

Ps: Liquidiamo immediatamente chiunque tocchi il tasto dolente dell’abuso di droga fuori dal campo: “Del resto tutti hanno tirato in questi anni di merda, chi è che non l’ha fatto?” (Cit. Tony Pisapia, L’uomo in più)

Gabriele Santoro

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LA VERITA’ TI FA MALE! (su “Maps to the stars” di Cronenberg)

Agghiacciante. Credo che l’aggettivo che più a questo film si addice sia proprio questo. Raggelante in un finale che sembra principio di nulla, apocalisse di tutto. Niente spazio per misericordiosi giudizi divini ed eventualità di approdi in regni lontani e salvifici. Dio, stando alle suggestioni finali del film, sembra aver invertito la rotta, aggiustando e revisionando coscienziosamente i suoi piani. L’uomo ha perso la sua bussola, sembra navigare a vista alle volte di un illusorio ed effimero successo professionale. Dunque punibile; come non crede più di essere, per intenderci, dai tempi dell’Antico Testamento. Perché Maps to the stars di David Cronenberg, il film di cui stiamo parlando, rimanda sicuramente ad una visione dei rapporti umani, seppur atroce, comunque provvidenziale. Tutto sembra quadrare, nulla è lasciato al caso e ogni cosa va come è normale, viste le premesse, che vada: alla deriva. Tutto “scientificamente” spiegato, ma inspiegabilmente ancora più ambiguo. Perché stupisce il modo in cui i protagonisti approdano alla disfatta esistenziale. Tutti a prostituirsi non più alla ricompensa economica dei trenta denari ma al mero compiacimento per ogni forma di tradimento messa in atto. Sadici, i protagonisti del film. Di un sadismo (torniamo all’aggettivo iniziale) agghiacciante.

Maps to the stars è il capolavoro assoluto di Cronenberg. È la summa stilistica, artistica e contenutistica del suo cinema. Nulla di nuovo nel soggetto, sia chiaro. È la banale storia di sei personaggi che si destreggiano tra i meandri di una Hollywood ostentatrice, materialista e ossessiva: un autista amorfo e arrivista; un’attrice fallita affetta da complesso di inferiorità nei confronti della madre defunta, grande attrice del passato; una famigliola composta da un padre fisioterapista, una moglie agente di spettacolo del figlioletto, a sua volta attore scapestrato e già tremendamente vissuto; infine una ragazza, appartenente anche lei alla suddetta famiglia, uscita da un ospedale psichiatrico dove era stata condotta da bambina dopo aver appiccato il fuoco in casa (per il quale evento rimase sfigurata). Il film sembra essere una trasposizione post-moderna di Inseparabili, altro meraviglioso e struggente film del regista canadese, con protagonista l’immenso Jeremy Irons. Le analogie sono molte: dal tema dei fratelli indissolubilmente legati da un destino comune, anche se apparentemente tanto lontano, alla presenza dell’elemento sessuale visto come ossessione da esorcizzare o assecondare (filo conduttore anche, e soprattutto, di un altro film di Cronenberg, Crash), fino al tema dell’estrema paura non tanto di invecchiare, quanto più di invecchiare con evidenti ma inevitabili segni dell’età (una sorta di morboso terrore della mutazione – tema sempre centrale in Cronenberg – , questa volta biologica). Ma se in Inseparabili il finale crea sconforto e, perché no, commozione, in Maps non c’è spazio per le lacrime. Fratello e sorella si accasciano senza simboleggiare La Pietà di Michelangelo, come avviene per i due gemelli interpretati da Irons. Filo conduttore provvidenziale, si diceva, ma questa volta Dio non si mostra. Non c’è affatto alcuna forma di compassione o pietà ostentate dal pur sempre ateo (?) Cronenberg. Si ripropone il tema dell’irrimediabilità del danno, frequente nel suo cinema, da Rabid a Pasto nudo, da Videodrome a A history of violence, da La promessa dell’assassino a Spider, fino a Cosmopolis. Come i protagonisti di tutti questi film anche ora vi è un peccato originale incontrovertibilmente traviante e irredimibile. E la suggestione principale è rappresentata dal fatto che questa colpa primordiale risale ai genitori dei due protagonisti, in realtà inconsapevoli, prima di sposarsi, di essere fratello e sorella. Si può dunque leggere un riferimento esplicito alle vicende di Edipo, macchiatosi di patricidio e incesto, le cui terribili colpe ricadono sui figli, impegnati a scannarsi vicendevolmente per tutta la vita (si tratta di Eteocle e Polinice, protagonisti della tragedia di Eschilo I sette contro Tebe). Ma i due figli protagonisti del film sommano ad una tendenza omicida innata (la sorella piromane aveva da piccola tentato di uccidere il fratellino e quest’ultimo, precoce star di Hollywood, manifesta di continuo una voglia repressa di uccidere) un amore incondizionato, quasi carnale, incestuoso per retaggio parentale. Ma ciò che più spiazza della trama del film è l’inspiegabile turba psichica della ragazza. Perché ella si giustifica per aver dato fuoco alla casa da bambina indicando la sua colpa come una giusta vendetta nei confronti dei genitori, rei di essere, come detto, fratelli di sangue. Da qui un atroce ritratto, realizzato da Cronenberg, della società contemporanea, vittima, inconsciamente, di vecchi ma ormai radicati retaggi “psicanalitici”, attribuendo colpe e delitti a individui in (più o meno) buona fede e dando necessariamente e freudianamente (ahi noi!) una motivazione logica a tutto ciò che appaia già un tantino umano. C’è poi chi potrebbe dare una lettura “deterministica” alle vicende narrate nel film, motivando cioè le azioni e le reazioni dei due giovani protagonisti con l’alto rischio genetico e biologico che l’accoppiamento tra due consanguinei può portare con sé. Ma questo aspetto pertiene più ad un’aderenza tematica al “solito” cinema del regista che ad un orientamento darwiniano di fondo. Ci riferiamo alle mutazioni, come detto, alle spiazzanti ed ossessive metamorfosi, alle anomalie, fisiologiche, genetiche, etiche. Ecco allora riproporsi il tanto discusso tema cronenberghiano del rapporto conflittuale tra scienza e uomo, tra medicina e uomo. Tra uomo e natura, in ultima istanza. Sì perché la consueta buona fede insita in ogni protagonista dei suoi film si schianta con la “coleridgiana” incapacità di travalicare i limiti che la Natura ci impone, di trascendere la condizione umana. In Rabid per esempio, il buono del film è il dottore, impegnato nel tentativo di migliorare la qualità della vita di persone sfigurate da incidenti, attraverso la chirurgia plastica. Il cattivo, ragionando in termini fumettistici, è, invece… sempre lui! Perché artefice, seppur involontariamente, di una violazione evidente del “codice naturale”, avendo creato un siero sì rigenerante ma accidentalmente capace di trasformare in mostri. In Maps to the stars si nota invece l’inclinazione ad un’anomalia etica, l’inusuale matrimonio cioè tra fratelli e il cortocircuito psichico che esso sembra provocare. Ma il denominatore comune è sempre quello: tutti, proprio tutti i protagonisti della filmografia di Cronenberg si riscoprono artefici e/o vittime di una controtendenza, di uno scardinamento sociale, di un cambiamento. E per questo, nonostante tutto, incorrono sempre in una morte più o meno purificatrice. Tuttavia l’elemento che fa da collante tra le varie vicende di questo film è il fuoco. Fuoco che brucia ma non rigenera o purifica affatto. Immagine che, secondo la tradizione biblica, si contrappone a quella dell’acqua, richiamo ad una rinascita catartica (i sogni di Noè nell’ultimo film di Aronofsky ne sono un esempio).

Dunque gli episodi di questo film vanno ben oltre la semplice espiazione attraverso la morte (eXistenZ o Cosmopolis) o, nei peggiori dei casi, attraverso l’apocalisse (Rabid sempre) o il terribile peso di restare in vita (A history of violence o Spider): qui si parla dell’uomo spogliato di ogni sovrastruttura che il cinema troppo buonista non ci presenta mai; si parla dell’umanità nuda, capace di liberare ogni sorta di immediato e selvaggio approccio alle relazioni umane; e non si parla solamente (si badi bene!) di istinti ferini, ma di disarmanti calcoli razionali; si parla di cattiveria allo stato non lavorato, grezza, ma comunque ragionata. A tal proposito la scena più emblematica è quella nella quale un’attrice fuori giri, arrivista, bugiarda e superba, interpretata da Julianne Moore (piccola annotazione: interpretazione da Regno dei Cieli!), si esibisce in un tifo da stadio dopo essere venuta a conoscenza che è entrata nel cast di un film dopo che la sua rivale professionale ha dovuto dare forfait a causa della morte del figlioletto. Chi non ha mai esultato per le sventure altrui, scagli la prima pietra! Imbarazzante insomma lo scarto tra un Cronenberg e un registucolo qualunque alla Robert Redford, il quale si accontenta dell’etichetta del “politicamente corretto”, dello scontato, dell’irreale al fine di non mostrare ciò che potrebbe risultare fastidioso, scandaloso, provocatorio, “troppo reale per essere vero”. E chi ha visto questa scena avrà almeno una volta indirizzato a se stesso la domanda “Sarò forse anch’io così?”, scongiurandone subito l’eventualità, gettando nell’oblio quella dannata e troppo martellante visione. Dimenticare tuttavia questa scena sarà difficile, perché Cronenberg utilizza tutto ciò che il suo mestiere gli concede al fine di renderla unica: tralasciando la messinscena (da sempre perfetta in Cronenberg e unica nel riuscito tentativo di bilanciare temi caldissimi ad una regia fredda e non troppo “americana”), è da brividi, tornando al tema del “glaciale”, la musica che fa da sottofondo alla scena. Premettendo che non si può negare una certa componente orrorifica in ogni film di Cronenberg, anche in quelli dichiaratamente noir (La promessa dell’assassino), qui questa tendenza è espressa (oltre che dalle continue visioni fantasmatiche e mortifere del ragazzino e del personaggio della Moore) da una base inquietante, tremendamente tuonante, che fa da magnifico e straniante contraltare al canto gioioso della donna. Due musiche polari e antitetiche insomma, quella diegetica e quella extradiegetica, che attivano un meccanismo nello spettatore di vergognoso spaesamento, che sa molto, come detto, di rispecchiamento comportamentale (seppur tacito), di una parte di personalità latente in ognuno di noi, da nascondere e mai ammettere di avere. E ancora. Cronenberg vuole farci sentire talmente tanto parte di quella “danzante e galleggiante merda del mondo” che ci offre un altro assist: chi non ha provato ribrezzo allorquando l’avvenente e aitante giovane autista, interpretato dall’inespressivo Pattinson, si approccia sessualmente con la ragazza sfigurata, anche se per secondi fini? O chi non ha goduto personalmente del rapporto sessuale dello stesso Pattinson con la sensuale Julianne Moore? Ma non c’è da allarmarsi troppo, perché nolente o volente l’uomo è questo, frutto di un inesauribile quanto palliativo tentativo di omettere certe tendenze sinistre in noi insite. Ma basta ammetterlo, onestà intellettuale! L’anima, la sua cura, l’inattendibilità della bellezza esteriore e la priorità della parola sul tutto il resto: balle! Retaggi solo retorici di un Occidente troppo Occidentale già da qualche secolo. Una critica al west sbraitata dal west per eccellenza, quello dell’America tronfia e piena di sé, dei “pionieri di Hollywood”, degli Oscar barattati in cambio di proseliti americanistoidi, della fame di fama. Quella dell’industria cinematografica che dietro apparenze solidali cela un mondo balordo e meschino, fatto di ghigni concorrenziali e sgambetti scorretti. Stando così le cose, sfuma ogni piacere nella visione di un film, perché, dopo Maps to the stars, sembrerebbe quasi che ogni produzione sia afflitta da sotterfugi e scalate di siffatto genere. Questo è il cinema, il vero cinema. Mai realmente arte, a livello realizzativo; ma soprattutto gioco di ombre, “dietro le quinte”.

A volte le parole sono vane per tipi come Cronenberg. Ma parlarne, soprattutto dal pulpito di un cinema di paese, fa sempre bene. Evidenziandone genio, valenza artistica, levatura culturale. Anche solo liquidando Maps to the stars come il film dell’anno. Perché lo è, persino a livello tecnico, con trovate congeniali alla causa: primi piani con grandangoli appositamente diffusi (presenti soprattutto nel suo cinema di inizio millennio – eXistenZ, Spider, Cosmopolis) ma non esasperati (alla Joel Schumacher per intenderci); fotografia “plastica”, lucida ma perfetta, molto simile al suo film precedente, che vede nel direttore Peter Suschitzky (ormai storico collaboratore di Cronenberg) uno degli artisti più eminenti nel campo, con la sua capacità di gestire, (r)innovare e rivoluzionare le luci come nessuno al mondo; infine la solita messinscena, quella che farebbe pensare al regista canadese già a due miglia di distanza (anche se sono presenti più carrellate e la regia risulta un tantino meno fredda del solito). Film viscerale, sviscerante, come tutti gli altri di questo genio assoluto, che, insieme a Linch, anche se in modo diverso, ci propone una forma di cinema che agisce sull’inconscio e lì sedimenta, giorno dopo giorno. Tragedia greca post-moderna, “film teatrale” dai toni apocalittici, ilarotragodìa un po’ noir, satira pungente. Tutto questo è Maps to the stars, che fa di David Cronenberg un kamikaze (più che un terrorista come Fulci) dei generi, miscelandoli e confondendoli; capace, buttandosi a capofitto, di scardinare la concezione di cinema dal suo interno, parlando di esso, destabilizzandolo, annichilendolo, decratandone solennemente, di fatto, la fine. Non più “metacinema”. Spazio all’“anticinema”!

Ps: ringrazio Salvo, il quale, con la sua instancabile (contro)informazione cinematografica tra le più giovani generazioni, ci ha fatto conoscere il più grande regista vivente. Con la speranza che, adesso che sappiamo chi sia, Cronenberg possa consegnarci ancora altri capolavori.

Gabriele Santoro

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