VIVO MA VEGETO… (su “Mad Max – Fury Road” di George Miller)

Alla voce fantascienza, il nostro personalissimo e aggiornato dizionario del cinema recita: <<genere oramai in disuso, se non impiegato al fine di veicolare messaggi pericolosamente e coattivamente imposti>>. Si dà il caso, tuttavia, che il film di cui parleremo oggi, che è innanzi tutto, per l’appunto, un film di fantascienza, post-apocalittico e distopico prima ancora che un action, rappresenti l’eccezione che conferma la regola. Nella appiattita e appiattente cinematografia fantascientifica odierna, rispondente ad un programma di riassestamento ideologico filotecnologico (e pensare che la fantascienza nasce per scongiurare il tanto agognato mondo della tecnologia! – mostrandone e svelandone le estreme e annichilenti conseguenze), Mad Max – Fury Road è un’inversione di tendenza nel genere che conosciamo. A primo acchito apparentemente maldestra. Ma, completandone la visione, il regista, vale a dire il maestro George Miller, rivela un gusto eccelso nelle scelte ora registiche, ora scritturali. I fasti nefasti di un’infinita rincorsa all’uomo, gli eccessivi orpelli di un’estetica asianeggiante ed estremamente impattante ostentata nella furia di un continuo inseguimento, col tempo lasciano il posto all’essenziale. Il film nel finale si libera di tutta la sua patinata confettura per restituirci solo ciò che più merita di essere impresso nella nostra memoria, cioè il messaggio finale. Tutt’altro che nefasto, questa volta. Tutt’altro che pazzo.

Trama: Max, un ex poliziotto ossessionato dai fantasmi dei familiari che non è riuscito a salvare durante il disastro nucleare, si ritrova quasi involontariamente ad aiutare la disertrice imperatrice Furiosa a mettere in salvo le uniche donne fertili dalla smania procreatrice del capo della Cittadella, Immortan Joe. Fury Road non è un remake, né un sequel dei film della vecchia saga. È piuttosto un rifacimento, una rivisitazione in chiave contemporanea e soprattutto postmoderna. Chiunque abbia visto già solo una sequenza della vecchia saga, coglierebbe al volo l’“accelerazione” stilistica, attoriale e di montaggio che quest’ultimo film propone. Un film che parte a tremila giri, pronto a dover cambiare marcia da un momento all’altro, ma che rimane, sospeso, perennemente sull’orlo del baratro, senza mai precipitare o sottostare al volere dello spettatore e concedergli ciò che desidera. Scalando di marcia anzi, anche se dopo macrosequenze d’azione ininterrotte. Un film che, diversamente dalle prerogative, risulta salvificamente impopolare. In quanto “osceno” sotto certi aspetti (nel senso beniano del temine), stirato ai limiti della sopportazione scenica ed (est)etica. Ed è proprio questa ricalcata e reiterata esasperazione filmica che conferisce alla pellicola la possibilità di divenire altro da sé. Abbiamo qualche tempo fa potuto appurare come l’ultima fatica di Martin Scorsese, vale a dire The wolf of Wall Street, fosse riuscita, proprio attraverso una durata eccessiva e sequenze tacciate di prolissità, a provocare sdegno nello spettatore nei confronti di quel mondo così variopinto ma deleterio e materialista che altrimenti sarebbe risultato ammiccante. E allo stesso modo, Fury Road risulta alla lunga tutt’altro che un film di scorribande automobilistiche. Delocalizzando infatti il focus della narrazione e ponendolo su un’impalcatura action, il grande Miller riesce Ad interloquire ancora meglio con lo spettatore (<<Se nel cinema vuoi dire qualcosa di forte, dilla attraverso il genere!>>, direbbe qualcuno). E la messinscena è perfetta. Il regista dà una lezione di cinema a tutti i registucoli di patetici blockbusters (comunemente definiti “americanate”), da Snyder a Nolan, passando per Bay. Lo stile è volutamente nevrastenico, così come il montaggio, ma nonostante ciò non provoca vertigini o convulsioni, riuscendo piuttosto a definire ogni minimo fotogramma. Assente quasi totalmente il tanto repellente rallenty (eccetto che nella scena della morte di Nux, il che conferisce al personaggio maggiore spessore e levatura), troviamo invece parecchie velocizzazioni, che richiamano il vecchio cinema rocambolesco e funambolico in bianco e nero (primo tra tutti Buster Keaton). Marchiabile come antineorealista, il cinema di Miller è tanto straniante da allontanare, quasi come in un sogno freudianamente esplicato, il tema centrale (che diventa contenuto latente), sovrastrutturandolo con elementi apparentemente secondari (contenuto manifesto) che il genere propone. Un cinema dunque più complesso, che tuttavia mette in risalto le problematiche affrontate più di quanto non riesca a fare un cinema più intuitivo, chiaro, lineare ma per questo banalizzato (la verità è perennemente sotto i nostri occhi, ma coperta da scene barocche che tuttavia non nauseano mai). La struttura del film, dunque, risulta altalenante. In maniera alternata impressionano nel prologo e nell’epilogo i temi trattati, mentre nella parte centrale del film vi è una ricchissima galleria di personaggi, peripezie, mezzi di trasporto e situazioni che possiamo definire, a pieno diritto, visionari. Tali, infatti, sono le auto, “disegnate” genialmente, proponendo autocisterne da duemila cavalli, vetture sportive su cingolato, altre arrangiate a mo’ di porcospini e altre ancora recanti lunghissime aste per l’“abbordaggio” da parte dei Koala. Per poi passare ai fotogrammi che rimarranno impressi nell’immaginario cinematografico collettivo: Max incatenato alla parte anteriore della vettura guidata dal figlio di guerra Nux, quasi a simboleggiare quelle caratteristiche prue delle Navi Dragone vichinghe recanti mostruose rappresentazioni apotropaiche; lo stesso Max, nella stessa circostanza, a fungere da “sacca di sangue” per un convalescente Nux; la mastodontica Doof Wagon, armata di altoparlanti, grancasse e diretta da un allucinante musicista mascherato che non possiede altro verbo che il suono distorto della sua chitarra – lanciafiamme (come se la musica eavy metal fosse parte integrante e indispensabile per le operazioni di guerra); la memorabile sequenza dello sfruttamento fisico inferto alle madri che mettono il loro latte a disposizione di Immortan Joe; lo stesso signore della guerra che, monopolizzando e privatizzando l’acqua, la raziona come fosse una pericolosa e assuefacente droga che provoca dipendenza; e poi la banda dei Koala, sfrenati assalitori dei veicoli altrui, e quella degli assatanati Porcospini; per arrivare alle commoventi sequenze della strenua protezione della borsa contenente i semi biologici da parte dell’anziana signora e del sacrificio (degno di essere chiamato tale, questa volta) di Nux per amore di una ragazza. Proviamo a dedurre adesso, da queste scene cult, un indirizzo di pensiero che Miller, quasi convulsamente e pazzamente, vuole proporre.chitarra

Cauto socialismo. O mancino conservatorismo. Sembrano retorici ossimori, ma celano un imperativo categorico in Fury Road: qualunque sia la forma di governo da cui è retta una comunità, l’unica arma che il popolo detiene è, paradossalmente, il potere istituzionale. Vale a dire che il popolo, dipinto in questo film come una massa informe priva di ogni capacità decisionale (ma per lo meno spudoratamente, dal momento che oggigiorno non ci sentiamo così inermi solo perché crediamo che un post su un social network significhi contare qualcosa in questo mondo), può solo augurarsi che sia un componente del sistema politico ad inaugurare un cambiamento sociale. Da qui ne deriva una critica ad ogni forma di incondizionata democrazia, data l’assenza di organizzazione e addirittura di capacità intellettiva della plebaglia nei momenti di acuta difficoltà. Dunque è il potere stesso, o comunque una sua parte moderata, non dispotica e afflitta da quella tutt’altro che virale malattia chiamata onestà etico-morale, a divenire inaspettatamente lo strumento del sovvertimento statale. Nel film, infatti, la ribellione parte dalla decisione di Furiosa di tradire Immortan Joe e non di certo dall’ultimo componente dell’ultimo gradino della scala sociale. Da qui una miriade di ipotesi interpretative. Miller vuole forse dirci che noi popolo non abbiamo alcuna speranza di destabilizzare l’ordine costituito e che anzi siamo condannati alla passività sociale? O forse vuole indicarci la strada per il rinnovamento, consigliandoci di sfruttare le nostre capacità per entrare nelle trame del potere ma senza rimanerne schiavi, e anzi sovvertendo, una volta dentro, un intero sistema, facendolo collassare dall’interno? A nostro avviso, Miller ha risentito parecchio della sua non acerba età, e ha “semplicemente” voluto ribadire quale sia la più sacra delle nostre potenziali risorse, vale a dire la libertà. Ricordate Monicelli? Ha per tutta la vita sbraitato ai quattro venti quanto fosse deleteria per i giovani la parola speranza. La sua morte, tuttavia, riformula un tantino la sua concezione della vita. Gettandosi dalla finestra dell’ospedale dopo che gli era stato diagnosticato un male incurabile in età ormai avanzatissima, ha mostrato alle nuove generazioni il senso delle sue precedenti parole. La speranza è nociva perché passiva, solo in potenza, preventiva insomma. La sua diatesi attiva corrisponde all’azione naturalmente, finalizzata esclusivamente al mantenimento della libertà, senza alcun compromesso. E allo stesso modo Miller ha parlato di speranza nel film, tacciandola di incompiutezza se non accompagnata dall’assunzione di forti responsabilità. Ma anche in questo caso l’agire secondo libertà è la chiave di lettura finale. Libertà non comunemente intesa, ma libertà morale. Nux, per esempio, è quasi condannato sin dall’inizio, da una sorta di forza provvidenziale, a morire per qualcuno. Non può scegliere tra il farlo e il non farlo, ma può deliberare per chi morire. E lo stesso vale per tutti gli altri personaggi, di cui prevediamo la fine già dall’inizio del film. Rispondiamo insomma ad una legislazione necessaria, ma all’interno di essa possiamo “liberamente” scegliere come adempiere al nostro “obbligato” destino. Dialettica dei contrari, apparentemente. Responsabilità morale, potremmo rinominarla.

Per un attimo torniamo al personaggio di Nux. La struttura a matrioska del film consente l’intersecarsi di migliaia di storie e caratteri. E tra tutti i componenti di questo dipinto munchiano che è Fury Road, spicca quello di questo giovane, incompreso e abbandonato. In primis: sembra l’unico figlio di guerra ad avere una coscienza, mentre gli altri agiscono per puro istinto (non di sopravvivenza, ma di morte). Ma è una sorta di coscienza plasmatasi in itinere, una volta affrancatosi dalle pretenziose aspettative di Immortan Joe. Il percorso di Nux è dunque paragonabile a quello dei protagonisti dei romanzi di formazione, nella quale un novello ‘Ntoni verghiano incappa nei furori giovanili e vi si dimena cercando un indirizzo alla propria esistenza. E ciò non può prescindere dalla ribellione nei confronti di un padre dispotico, depositario delle forze del figlio che ad esso è vincolato. Nux recide dunque il cordone che lo lega a Immortan Joe (le madri non esistono se non come macchine procreatrici), rivoltando il proprio complesso di inferiorità contro il padre. Che comprende di non aver mai amato, ma piuttosto venerato, cercando di non deluderlo mai e di ricevere da lui consensi. E intuisce soprattutto che se si deve morire per qualcosa, vale la pena di farlo per la propria amata. Al diavolo l’approvazione paterna e le promesse di vita eterna! La redenzione definitiva di Nux passa per l’immanente forza del sacrificio amoroso.

E dalla storia dei figli di guerra come Nux si può dedurre qualcosa di estremamente attuale. Miller, tra le righe, vuole mostrarci le trame di potere che si celano sotto ogni forma di atto terroristico che i media riconducono al fenomeno del fanatismo religioso. I kamikaze (chiamati nel film con un termine simile) non sarebbero altro che un esercito di inebetiti (per somministrazione di chissà quale sostanza) di cui l’Occidente si serve per sconvolgere le comunità. Difatti, così come nel mondo reale, anche in Fury Road la stessa figura che arma i figli di guerra, cioè Immortan Joe, detiene ogni forma di risorsa, tra cui l’acqua. Esercizio di finissima onestà intellettuale, da parte di Miller.immortan

E questo film sembra propinarci altre tre certezze. La prima riguarda il dibattito sulla privatizzazione dei beni primari: nel periodo di maggiore destatalizzazione che il mondo abbia mai conosciuto, questo film ci mostra che dobbiamo diffidare di qualunque uomo politico proponga come punto cardine del proprio programma la privatizzazione di un servizio col pretesto di una migliore gestibilità dello stesso. Le risorse che realmente servono all’uomo non si esauriscono mai, sembra tuonare il film. Lampante in tal senso la sequenza in cui si scopre che Immortan Joe ha a disposizione infinite quantità di acqua ricavate dal centro della terra (anche se il discorso iniziale del signore della guerra lascia presagire che realmente l’uomo è capace di farsi schiavizzare da qualunque cosa creda di dominare, persino dall’acqua). La seconda certezza riguarda il binomio ribellione/rivoluzione: quella intrapresa da Furiosa è, inizialmente, solo una reazione femminista e giustiziera al padre, al fine di mettere in salvo le fertili donne. Ma una volta raggiunto il Giardino Verde e accortasi con rammarico che tutto si è ormai inaridito, decide, su consiglio di Max, di tornare indietro, alla Cittadella, e trasformare proprio quel luogo di sottomissione e inferno in un’oasi di pace che avrebbe voluto trovare nella terra natia. Il paradiso non è il Valhalla, né il tanto agognato luogo dei ricordi d’infanzia ormai andato in frantumi, ma ciò che è immediatamente sotto il nostro naso. Un film così apparentemente furioso e nevrotico si rivela di un ottimismo spiazzante e naturalissimo, mostrandoci che la via per la felicità collettiva passa per il rinsavimento della propria terra, e non di certo per una codarda fuga verso fantastici Eden, tali solo perché lontani e sconosciuti. La terza certezza è quella che più ci sta a cuore, viste le nostre ultime recensioni: il film condanna senza alcuna remissione la manipolazione del corpo umano, sia essa meccanica, genetica o tecnologica. Estreme conseguenze macchiettistiche, allucinate ma geniali sono i personaggi di Rictus e Corpus (autocitazione milleriana del personaggio di Master-Blaster di Mad Max – Oltre la sfera del tuono), due figli di guerra che, quasi connessi consanguineamente, rappresentano la mente e il braccio di un essere imbattibile. Una parte è fisicamente menomata ma intelligentissima, l’altra intellettivamente inefficiente ma erculea. Il progresso e la conseguente apocalisse hanno intaccato geneticamente il genere umano, manomettendone le proprietà e obbligandolo alla fusione meccanica e funzionale tra gli organismi. Altro personaggio emblematico è Furiosa, dotata di un braccio artificiale, che tuttavia, nel suo momento di massima debolezza e in preda alle lacrime, rimuove quasi a rappresentare una nudità integrale mascherata fino a quel momento da tenacia e falsa durezza. Per non parlare del corpo ormai totalmente mascherato di Immortan Joe, tra corpetti riproducenti fittiziamente una prestanza fisica ormai perduta nel tempo (critica alla smania autoerotica della cura del corpo?) e accessori che allunghino strenuamente l’esistenza. La vita invece, quella spontaneamente sorta e non oggetto di interferenze, viene spudoratamente e dolorosamente derisa e profanata. Davvero intollerabile la sequenza in cui il dottore informa con noncuranza e leggerezza verbale che sia la donna che il bambino nel suo grembo sono deceduti. Come se si fosse trattato di futili chiacchiere. Fury Road parla dunque della vita calpestata e del trionfo della macchina. Eretta, quest’ultima, a vitello d’oro.

In ultima analisi, diciamo che chiunque, in questo film, vive di ideali. Immortan Joe, il personaggio forse più intimamente combattuto, dedica la sua tribolata esistenza da dio minore alla generazione di una nuova e sana stirpe. Furiosa vuole tornare nella terra che le ha dato i natali. Nux cerca un valido motivo per morire. La povera vecchietta vuole far risorgere la natura, devastata dall’incoscienza umana. Mentre Max, avendo perso qualunque cosa per cui combattere, aiuta il resto dei personaggi a raggiungere i loro nobilissimi obiettivi, senza fermarsi mai, senza più pensare al passato. Ciascuno combatte per la propria causa, senza nette distinzioni tra personaggi positivi e non. Chiamateli dunque idealisti, chiamateli sognatori. Ma non chiamateli pazzi! Rappresentano l’uomo del XXI secolo, il quale, pur vegetando, stentatamente sbraita al mondo intero di essere ancora in pista. Vaneggiando e delirando, apparentemente posseduto da onnipotenza ma aggrappandosi ad ogni attimo in più di vita che riesce ad elemosinare da Dio. Sono semplicemente vivi. E il mondo appartiene a loro.

Gabriele Santoro

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RITENTA, SARAI PIU’ FORTUNATO! (su “Inside out” di Pete Docter)

Ipse dixit: <<Non credo stiano elevando il genere ad una forma d’arte. Penso che Batman resti un tizio che corre in giro con uno stupido mantello>>. Per quanto ci si possa sforzare, per quanto si possano avere i migliori propositi realizzativi, un buon regista deve pur sempre fare i conti con dei sanissimi e salvifici stereotipi cinematografici. E se ad illuminarci a riguardo è il miglior regista vivente, ossia David Cronenberg, l’opinione trova un precedente illustre. Il maestro canadese parlava in quella famosa intervista dei cosiddetti cinecomics, vale a dire film tratti da fumetti, smontando nel caso specifico ogni tesi che inneggi ai Batman di Nolan come fossero dei capolavori indiscussi, impregnati di una (solo presunta) nuova forma di autorialità. <<Son sempre fumetti!>>, chioserebbe dunque il dissacrante David.

E approfittiamo della disputa innescata da questa nobile considerazione per parlare oggi di una “pellicola” che tutto il mondo ha osannato, vale a dire Inside out. Piaciuto ai bambini perché disegnato e fotografato brillantemente, ai grandi perché molto più profondo di quegli odiosissimi e diseducativi pupazzi gialli che hanno invaso il mondo. Piaciuto, aggiungiamo noi, perché semplicemente originale. In un’epoca infatti di miserrimo e mediocre appiattimento monodimensionale in ogni ambito artistico, basta un’idea inusuale per stupire, indipendentemente da come essa venga poi strutturata e realizzata. E le aspettative su questo film d’animazione erano delle migliori: un film che indaghi la mente di una ragazzina in un’età delicata come quella prepuberale non è di certo robetta da poco! Ma come spesso accade, le grandi produzioni si cullano sugli allori di un soggetto da urlo per accontentarsi poi di sceneggiature aporetiche. Ed è il caso proprio di questo film, il quale, se dal canto suo propone un’elevazione a statuto analitico e psicologico della classica animazione, frana in delle voragini che inevitabilmente le alte pretese apportano. E se lo si considera come un’elevazione del genere (come si pretendeva che fossero i Batman di Nolan), allora rispetteremo questa etichetta e applicheremo un’analisi metodologica, strutturale e persino filosofica al film.

In primis. Ciò che più fa raggelare durante la visione anche solo superficiale di tale film è la scioltezza apparentemente disincantata nel presentare le varie funzioni cerebrali e le emozioni base come se fosse una descrizione sacrosanta. È come se il film insomma poggiasse sul trono dell’indiscussa verità suprema, solo perché ricco di riferimenti dedotti dalla scienza ufficiale. Inside out appare come una sorta di documentario scientifico romanzato e cartonato, per questo apprezzabile e intrattenente. Ogni sequenza, seppur stilizzata e limata per apparire gradevole o sorprendente, risulta essere una sorta di indottrinamento accademico e didascalico. Ricordate quella collana di videocassette che più di un decennio fa usciva periodicamente in edicola finalizzata ad illustrare come funzionasse il nostro corpo? Bene, Inside out sembra un’appendice di questa collezione, il cui scopo principale è celato sotto le mentite spoglie della formazione di una bambina che non è più tanto bambina. Il tutto imbellettato da una confettura dolcissima e patinata al punto giusto che solo la Pixar sa garantire.

Ma l’intento didascalico non avrebbe nulla di riprovevole dalla sua, se non la sua componente esclusivamente scientifica. O, potremmo aggiungere, positivistica! Perché le dinamiche interne alla mente della povera ragazzina sembrano non lasciare nulla al caso. Movimenti, azioni, parole e reazioni sono il frutto di combinazioni meramente algoritmiche (peraltro quasi mai chiarissime), come fossimo computer, macchine. Già, i rapporti meccanici sono i prediletti per regolare la combinazione di varie dinamiche organiche e le varie relazioni funzionali. Ciò che Cartesio, secoli fa, è riuscito (ahinoi!) ad inculcare nella già lacera cultura occidentale, è oggetto di (ri)valutazione da parte degli Studios americani. Ciò che si critica del film in questa sede non è dunque solamente la trama in sé o la sovrastruttura dettata dalla sceneggiatura, ma le fondamenta culturali, le impostazioni di base, l’orientamento deontologico del regista. In altre parole, come il filosofo francese nel XVII secolo guardava al corpo umano come ad una poco nobile accozzaglia di componenti tra loro strettamente connesse e regolate da rapporti di causa ed effetto, allo stesso modo Pete Docter esclude ogni possibilità di connessione teleologica (orientata cioè da e ai fini umani, in questo caso intellettivi) tra le parti, le emozioni. Ma una tale radicale presa di posizione è mitigata dalla fattura estetica delle emozioni base: esse difatti sono animate e hanno una coscienza, ma non perché si voglia dare un aspetto più intimo e meno dogmatico al film, quanto più perché è un film d’animazione, e i protagonisti devono necessariamente avere una forma, un nome, un verbo; devono essere personificati. Qualcuno obietterà alle nostre posizioni ribattendo che, in alcune sequenze, la ragazzina si emancipa da quell’involucro robotico di latta che sembra ingabbiarla per tutto il film. Ci riferiamo alle scene in cui Allegra e Tristezza vengono catapultate nella labirintica memoria a lungo termine e lì si perdono. Ma analizzando a fondo, anche in quei casi l’”androide” Riley non fa altro che attivarsi o disattivarsi ai comandi delle restanti emozioni base o proseguire nei suoi piani esclusivamente per inerzia, seguendo le istruzioni precedentemente datele.

In seconda battuta, proseguendo sulla falsa riga di quanto dedotto dalla prima analisi, passiamo ad una critica più strettamente extracinematografica. Senza assumere una visione dietrologica e complottistica, diciamo subito che è in corso una campagna mondiale di condizionamento ideologico che passa per il maggior medium di massa, nonché il più pericoloso, cioè Hollywood. Esso prevede di inculcare, sotto le mentite spoglie di generi apparentemente innocui (come i film d’animazione) o di generi nobilissimi (come la fantascienza), una avanguardistica, progressista ma essenzialmente fascista visione dell’uomo. Essa prescinde da ogni forma di provvidenzialismo fideistico, da ogni approccio religioso per approdare ad una (solo presunta) matura condizione superomistica. E il biglietto da visita per raggiungerla è di certo una sconfinata fiducia nella scienza che tutto vede e tutto può. Ciò insomma che per secoli ha rappresentato di volta in volta un infuocante pretesto per confutare ogni tesi di matrice religiosa, diviene oggi la quintessenza del bigottismo scientista, della ben più cieca presunzione dogmatica odierna. Non ci rendiamo conto insomma di parlare come computer programmati, convinti di possedere la verità tra le mani, ma in realtà influenzati e terribilmente condizionati dall’effusione di uno spirito tutt’altro che santo, mediaticamente indotto. L’anticonformismo razionalista diviene all’improvviso semplice divulgazione di massa, appiattito e uniforme. Merito di film apparentemente ininfluenti a livello ideologico, ma invece subdolamente attivissimi. E quale sarebbe il fine di film come questi? Dirigere le masse verso una concezione del corpo automatica, quasi tecnologizzata. Si inizia con l’influenzare tutti sul piano bioetico: se il corpo appare come una macchina, allora si può rimettere a nuovo e riparare come una macchina, sostituendo semplicemente un pezzo con un altro (sia essa chirurgia organica, sia essa chirurgia plastica), dimenticando che una delle proprietà primarie del nostro organismo è quella della relazione finale tra le parti; per arrivare poi alla considerazione finale, nociva: se il corpo funziona e si ripara come una macchina, allora può essere assimilato ad una macchina. Da qui uno spietato proselitismo a favore dell’intelligenza artificiale e della tecnologia in generale, che ne rappresenta l’anima. Immediatamente e quasi inconsciamente, tutto il mondo assume un punto di vista traviato, concependo questa congruenza tra mondo meccanico e mondo organico come un’inevitabile evoluzione dettata dai tempi. E riaffiora alla mente l’immagine del corrotto e manipolato corpo dei protagonisti di Crash, del già citato Cronenberg. E non rappresenta mica uno spocchioso delirio intellettualistico la nostra citazione! Perché film come Inside out, alla lunga, sono funzionali ad abbassare notevolmente la soglia dello stupore nel mondo di oggi. Così che nemmeno i protagonisti di quell’estremo e meraviglioso film del buon David possano più impressionarci o provocarci disgusto, dato l’ingresso a pieno titolo di quei “caratteri” nella cronaca di ogni giorno e nell’immaginario etico collettivo. Corpi perforati, meccanicizzati, lubrificati come giunture di un motore o rattoppati approssimativamente non destano più sconcerto oggigiorno. Perché, anziché essere scongiurato, tutto ciò è paradossalmente divenuto la nuova frontiera dell’esistenza. Tirata per lunghe, eccessivamente. Stirata oscenamente e spremuta come un limone. In quel mortifero connubio tra tecnologia protetica, fascinazione erotica meccanica e… decesso.

L’unica cosa che ci auspichiamo succeda è che nel sequel si parli un tantino di più della povera bambina, anziché delle sue ignobili e “impersonali” funzioni. Si spera dunque che le delicatissime trame della fase puberale cui Riley è approdata siano trattate più umanamente, senza franarci sopra con onnisciente smania dogmatica, e che lo sviluppo delle vicende non sia affidato solamente a comandi incontrovertibili ma anche a dinamiche non rispondenti a logiche stringenti e non così facilmente delucidabili. Si riparta, per realizzare un buon sequel, dall’unica vera nota positiva del film, vale a dire il personaggio di Tristezza, intesa come l’unica reale fonte di ispirazione, di rilancio, di reazione alla balorda vita. Da essa scaturisce il dolore che ci permette, ancor più dell’incondizionata e per questo odiosissima e intollerabile Gioia, di affrontare con determinazione le difficoltà. Da essa scaturiscono persino cultura, acuta intelligenza, dominio di sé e la migliore delle qualità, l’umiltà. Si riparta persino da Rabbia, identificata saggiamente come un surrogato trasfigurato dell’orgoglio. Si riveda, invece, l’emozione base della Paura, troppo approssimativamente ritratta (che rimanda più all’immagine della Codardia).  Sospendiamo dunque, per il momento, il giudizio sul film e il regista, attendendo notizie sulla seconda parte e augurandoci che, ritentando, Pete Docter possa essere più fortunato. Altrimenti ci arrabbiamo!

Detto ciò, voi direte: <<Ma perché accanirsi così tanto e così pedantemente su questo film? È pur sempre un cartone!>>. Esatto, è qui che vi volevo: son sempre cartoni! Ma solo dal punto di vista strettamente artistico. Perché celano in verità (e più di quanto diano a vedere) messaggi massimalisti. Che nemmeno il buon Cronenberg, questa volta, dovrebbe sottovalutare.

Gabriele Santoro

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CARATTERISTI ANONIMI (omaggio a Philip Seymour Hoffman)

Storie dentro altre storie. Storie dietro altre storie. E questo sembra fare il cinema. Raccontare qualcosa e adombrare realtà altre e stranianti, a volte inaspettate. Scatole cinesi insomma, scrutabili fino ad un certo punto e tanto atroci e sconcertanti da non poter essere sfiorate per paura che qualcosa sia svelato sotto il segno dello scalpore. È il tormento del cinema. Ma ne è pure l’estasi, perché sottacere certi aspetti della vita privata di un attore è l’unico modo per credere realmente che quegli individui che interpretano personaggi vari siano solo sagome sfocate e senza personalità alcuna, che si attivano e animano solo dopo un ciak. E noi ci crediamo, crediamo a questa sindrome “bartoniana” alla Bruce Wayne che affligge uomini comuni tanto esanimi e insignificanti da divenire fenomeni da baraccone solo dopo aver indossato una maschera. Ci crediamo, ma fino a prova contraria. Quando la sacrilega cronaca nera, più o meno menzognera, perfora il tessuto artificioso del mondo altrettanto fallace del cinema e si mostra nuda a noi, qualcosa si rompe. Il cortocircuito determinato dai due livelli, fittizio (narrativo e cinematografico) e reale (di vita vissuta), che si sovrappongono più o meno congruentemente, creano un disorientamento di fondo. E chi, sentendo della morte per overdose di Philip Saymour Hoffman, non ha subito pensato al protagonista di quel bel film di Sidney Lumet, Onora il padre e la madre, e a quello di Truman Capote di Bennett Miller, da lui stesso magistralmente interpretati? Realtà e rappresentazione invadono pericolosamente i reciproci domini. “Oltre il giardino” sembra esserci ancora mondo insomma e oltre il cinema Hoffman sembrava avere un’esistenza sorprendentemente troppo simile a quelle di alcune sue indimenticabili interpretazioni. E adesso che siamo entrati ignobilmente nel suo privato, alcuni suoi film si sostituiscono alla realtà per potercene mostrare una che prima non avremmo mai (o quasi) pensato di accostare alla sua persona, così apparentemente esente da vizi più o meno criticabili. L’eroina e l’alcool nella vita di ogni giorno ma anche in quella professionale, in quei film sopra citati. Un metodo Stanislavskij, potremmo azzardarci a dire, a tal punto profondamente e beffardamente applicato. Ma l’informazione non può denigrare l’operato artistico (perché di questo si tratta) del più grande caratterista del mondo. Sottoscriviamo quanto detto. Perché lo era davvero! C’è chi riscopre il buon Lucio Dalla solo dopo la sua dipartita (la nostra generazione per esempio, ma <<meglio tardi che mai!>>, verrebbe da dire) e chi lo ha sempre amato. E Hoffman lo abbiamo sempre amato! Nato, cresciuto e sepolto dal cinema, come i grandi della storia (da Rino Gaetano nella musica al fenomeno Ronaldo nel calcio) ha abbandonato presto la sua “professione”, già  tuttavia foriera di un’eredità sorprendentemente corposa. Da Scent of a woman, per niente offuscato, seppur ancora acerbo, dal veterano Pacino, al ruolo del segretario servile nella commedia che ha spaccato il secolo, Il grande Lebowski, ai tre film capolavoro firmati Anderson, vale a dire Boogie nights, Magnolia e The Master (tanto negligentemente vituperati dalla critica), alla performance nostalgica de La 25esima ora fino a quelle da protagonista nei sopracitati Onora il padre e la madre e Truman Capote. Tutte interpretazioni da canonizzazione. Altro che banalissimo Oscar…! Immagino l’uomo Hoffman, combattuto e afflitto, fare della statuetta, qualora avesse deciso di portarsene una fino a casa, un appendi – cappello. Spesso si crede erroneamente che sia la fama a corrompere gli animi. Magari è invece questione di abissi esistenziali che nemmeno la fama (questo sì) riesce a colmare. Non si tratta di un’apologia del vizio, ma di ammettere che a volte ci sono dinamiche nel mondo dello star-system (o in generale della cronaca nera, seppur privata, comunque pubblicizzata) che non riusciamo a comprendere e che, soprattutto, non abbiamo il diritto di giudicare. <<È il voler giudicare che ci sconfigge>>, diceva Kurtz in Apocalypse Now, in ogni senso. E se da una parte un regista temerario come Cronenberg porta sulla scena cinematografica le latrine hollywoodiane occultate da fasti barocchi, c’è chi invece di questo mondo posticcio da facciata color panna rimane pubblicamente e realmente vittima. Perché magari ingenuamente o sadomasochisticamente in balia di manie autodistruttive chiamate droga o quant’altro. A tal proposito, dunque, vadano rimosse e catapultate in un sacro oblio le interpretazioni sopra citate così pericolosamente attinenti alla sua vita quotidiana e alla cronaca che lo ha definitivamente relegato all’altro mondo. Altrimenti il giochino rischia di interrompersi e il cinema passerebbe da “fabbrica dei sogni” a “latrina degli incubi”. Si ricordi dunque quella sorta di sciamano metropolitano interpretato in The Master. Rimanga impressa quella magnifica sequenza della costrizione nei confronti di un altrettanto strepitoso Joaquin Phoenix di tenere gli occhi aperti fino alla lacrimazione. Ma si dimentichino Truman Capote e Onora il padre e la madre. Piuttosto, riaffiori alla nostra memoria persino la sua leggera ma divertente interpretazione in Alla fine arriva Polly, nei panni di un attore ormai da tutti dimenticato, aggrappato alle glorie del passato, spaccone ma inconcludente. L’unica certezza che abbiamo è che Hoffman, invece, non verrà mai dimenticato come attore. Si renda omaggio dunque ad un professionista che già tanto aveva dato al cinema. Eterno secondo forse e quasi mai protagonista, ma va bene così. Perché nelle poche interpretazioni come attore principale sembrava annichilire titanicamente l’operato di chiunque gli stesse attorno sul set. Un J. Phoenix, un W. H. Macy, un M. Walberg, un C. Cooper, un J. Bridges gli tenevano testa con fatica, sul filo di un rasoio. È stato tutto ed il contrario di tutto nella sua carriera. Si pensa sia quello del cattivo e spietato il ruolo che rende di più per un buon attore. Ma la grandezza di Hoffman risiedeva nell’aver consegnato ad altre tipologie di personaggi uno statuto cinematografico inaspettato, così da ergere un timido e reietto, un filosofo e master postmoderno, uno scrittore autolesionista, un segretario a parassita a titani più di quanto non sia riuscito a fare con il terribile antagonista in Mission Impossible III. È stato un attore ingombrante, vero, talentuoso, istrionico e giustamente spregiudicato. Un attore mai in sordina. Ogni sua battuta era un tuono, anche se a volte marcata, in Italia, dal troppo schiacciante doppiaggio di Pannofino. Bastava la sua mimica facciale per convincere. Come in Magnolia, con un’espressione da ebete stordito cui vengono concesse rivelazioni mistiche, mentre cerca di rintracciare Tom Cruise al telefono. Espressione non da tutti. Espressione che va immortalata con un primo piano fisso (un plauso al regista!).

C’è poi un secondo livello su cui analizzare le carriere degli attori: le loro collaborazioni. E Hoffman ha creato, tra gli altri, un sodalizio con il regista forse più controcorrente della nuova generazione, vale a dire Paul Thomas Anderson. E l’anticonformismo scenico di quest’ultimo, che scruta i personaggi sino all’esasperazione visiva e all’astenuanza riflessiva, sceglie Hoffman come marchio di fabbrica. O forse è stato lui ad aver scelto Anderson. Perché l’immagine dell’attore inteso come figura media, intellettualmente parlando, inerte e inetta, prima donna e puttana facilmente gestibile dal lenone chiamato regista, è solo una vecchia e anacronistica leggenda, o per lo meno non sempre è veritiera. Perché uno come Hoffman sembra aver dimostrato, nella sua breve, travagliata ma brillante carriera, tanta onesta intellettuale e tanta maturità professionale, quasi mai prostituite all’interesse economico che il mercato cinematografico nove volte su dieci propugna. E Anderson aveva di certo scritturato altri personaggi per lui; da destinare, ahinoi, a terzi. Nella speranza che nasca una nuova generazione di attori che, come lui, decideranno di porre il loro talento a servizio della causa. Senza narcisisticamente prevalere, in ogni film, sugli altri interpreti. Perché si può essere protagonisti comunque. E Hoffman lo era, anche con un cameo di dieci minuti.

 Gabriele Santoro

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LA FUGA DI ULISSE (su “Suburra” di Stefano Sollima)

“Roma non fu fatta di certo in un solo giorno”. Ma ciò che questo film lascia intendere è che basti un solo giorno, anzi una sola lugubre notte, per farla crollare in un informe cumulo di macerie. Si badi bene: Suburra, il film di cui stiamo parlando oggi, non può e non deve essere un argomento in più che possa corroborare le già fragili e demagogiche tesi di qualche partituccio nordista che inveisce quotidianamente contro Roma ladrona. Perché è un film che narra del tragico e indecoroso tonfo non tanto di Roma o dell’Italia tutta, ma dell’intero Occidente. Chiunque si voglia chiamare fuori dal turbinio di sensazioni, casuali coinvolgimenti, disonesti sgambetti, furie omicide e represse pulsioni animalesche di cui il film è pregno, lo faccia pure. Ma si ricordi che non ci si può chiamare fuori dalla squallida involuzione della società (in)civile, cui tutti apparteniamo, che questo film ci sbatte in faccia. Tonfo, fragoroso, si diceva. Che tuttavia non provoca, in chi vi assiste, biasimi di alcun genere. Ma tanta, troppa compassione.

Trama: una notte di novembre, una settimana circa prima delle dimissioni di papa Benedetto XVI e di Silvio Berlusconi, un politico corrotto si intrattiene con due escort, consumando una notte di sesso e droghe. Ma la morte di una delle due e il conseguente tentativo di celare l’accaduto da parte del politico, provocherà una spirale di violenza che coinvolgerà tutta la malavita romana e i suoi interessi. Suburra è un film spudoratamente storico, rivestito da quella salvifica membrana protettiva e permissiva che si chiama cinema di genere. Difatti, diversamente da quanto faccia un pur magnifico film come lo spagnolo La ballata dell’amore e dell’odio, in cui in simile fattura eventi realmente accaduti e storie romanzate risultano solute, qui il regista Stefano Sollima elabora un processo inverso: protagonista assoluta, a nostro avviso, è la storia ufficiale, quella italiana del novembre del 2011. Essa, che sembra fare da semplice cornice sussumente, in realtà condiziona incontrovertibilmente la sorte di tutti i protagonisti che un minimo ne sono all’interno. Non è un caso, infatti, che i più disgraziati e dannati del film, Viola “la tossica” e Sebastiano “il pr”, siano gli unici a farla franca, perché personaggi astorici, perché altrimenti facilmente dimenticabili (in questo ci troviamo invece sulla stessa scia de La ballata dell’amore e dell’odio, assistendo anche qui ad una furente ma ingloriosa rivalsa degli ultimi della classe). La storia ingabbia, assoggetta, devia il naturale corso degli eventi dei protagonisti, influenzandone gli esiti inevitabilmente apocalittici: il papa rinuncia al soglio pontificio e per tale motivo un cardinale è impossibilitato ad imbastire una trattativa con il “Samurai” che sembrava in dirittura d’arrivo; il governo Berlusconi frana e l’onorevole Malgradi vedrà sfumare il progetto che avrebbe cambiato il volto di Ostia, di tutta Roma e le sorti della sua opulenta fondazione. Ma Viola e Sebastiano non fanno parte di alcuna dinamica storica. Le loro personalità, dedotte dalla voce “anonimato”, evidenziano un cortocircuito narrativo che fa ergere i due personaggi a entità post-apocalittiche che non solo non fanno storia, ma la annichiliscono attraverso la cronaca nera. Come detto, tuttavia, la loro rappresenta una rivalsa ingloriosa (e non di certo manichea) che soddisfa semplicemente il fisiologico bisogno di capovolgere una comunque soterica dialettica schiavo-padrone, un’assodata gerarchia. Dopo… si prospetta il nulla!

papa

Ma Suburra non si ferma qui. Se sotto certi aspetti, appena esaminati, risulta un film titanico nell’approccio alla realtà che racconta, rivela altresì una natura intima nel delineare i tratti dei protagonisti. Tutti meritevoli di lode i personaggi scritturati, tutti caratterizzati da un impedente e rallentante complesso di inferiorità nei confronti dei predecessori o dei padri: come afferma Paola Casella (MyMovies) Suburra racconta <<le avventure di un gruppo di uomini cui viene continuamente ripetuto di non essere all’altezza del proprio genitore>>. La stessa scrittrice, tuttavia, taccerà questo film di incompiutezza. Noi azzarderemo invece un parallelismo con un’indagine filosofica sull’Occidente elaborata da un pensatore contemporaneo italiano, vale a dire Massimo Recalcati, per dimostrare come Suburra sia molto più di quanto dia a vedere la sua trama apparentemente trita e ritrita.

In uno dei suoi maggiori saggi, Cosa resta del padre?, lo psicoanalista Recalcati abbozza una prima teorizzazione del cosiddetto “complesso di Telemaco”. A suo avviso, all’approccio al padre da sempre sbraitato dagli altari dell’ignominioso Occidente, vale a dire quello dettato dal conflitto edipico, va affiancata una seconda tipologia di complesso, sempre di matrice classica. Essa fa riferimento, per l’appunto, al povero figlio di Ulisse, che aspetta per troppo tempo che una nave venga dal mare e gli riporti il padre che non ha mai conosciuto. Tutti, in quest’epoca di “evaporazione del padre” (come la definì Lacan), siamo un po’ come Telemaco: aspettiamo un segno da un orizzonte troppo lontano e muto; aspettiamo un cenno dal padre, sia esso biologico, sia esso civile o spirituale (l’immagine emblematica, a tal riguardo, è quella del frame della nostra copertina, in cui uno spaesato Elio Germano ricerca il padre tra le acque del Tevere). Dunque l’Occidente non guarda al padre solamente come ad un ostacolo al piacere incestuoso (Edipo) o all’autoaffermazione da incallito maschio alfa (di cui parla Freud in Totem e tabù), ma anche come ad un appiglio da ricercare, anche se invano, e a cui tendere. E il film mostra inquietanti esempi di tal genere. Se da una parte Sebastiano ha un rapporto nauseabondo col povero padre (troppo umile per entrare a far parte della sua viscida vita da comprimario sanguisuga della mondanità e che si toglierà la vita per i troppi debiti) e se “numero 8” sbrocca come un cavallo imbizzarrito ogni qual volta gli si nomini il padre (a detta di tutti, molto più competente e posato rispetto a lui), l’intera civiltà, dall’altra, assiste inerte all’imbiasimabile abiura dei nostri padri universali, rimpiangendoli. Di coloro insomma che, seppur nella più totale baraonda e con le dovute differenze, hanno per parecchio tempo saputo tenere a freno le derive apocalittiche. Nel film, queste figure paterne sono rappresentate dal “Samurai” in ambito malavitoso, dal papa in campo spirituale e da Berlusconi in quello civile. Esse scompaiono nella pioggia di un diluvio universale in cui Dio, questa volta, sembra non aver incaricato nessuno di preservare la specie (anche in questo caso, il padre non risponde). Suburra dunque non è un classico film di mafia. Protagonisti non sono il semplice sicario, il terribile killer, questa o quella vittima, ma protagonista è chi non si vede. Il papa e Berlusconi su tutti, i quali dettano i vettori per indirizzare un’intera civiltà, smorta e avvilita per la loro rinuncia. Ciò che a loro sopravvivrà, non importa. Non ci importa di papi che svenderanno in seguito la spiritualità a 50 centesimi, sulle figurine, in edicola e la concedono gratuitamente sui social networks; e non ci importa nemmeno del processo di privatizzazione dei servizi primari sbandierato da un premier che di sinistra ha solo il braccio sinistro. Non ci importa perché siamo già nell’apocalisse da un paio di anni. Tutto ci scorre addosso, come la pioggia incessante di Suburra.

C’è poi un piano politico cui rimanda il film. Alla luce di quanto detto sul “complesso di Telemaco”, lo stesso Recalcati, già parecchi anni fa, rimproverava tra le righe Berlusconi, indicandolo come il maggiore responsabile e fautore di un nuovo indirizzo esistenziale che tenga conto dell’assenza della figura paterna e pratichi una scissione tra libertà morale e responsabilità. Facendosi carico, egli stesso, di assurgere a figura paterna sostitutiva. E di questa scissione parla naturalmente il film, nella figura del parlamentare, ora discreto ed equilibrato, tra i banchi del Parlamento, ora erculeo e onnipotente, in preda a estasi orgiastiche, durante la notte. Un personaggio che ricorda il protagonista di American Psyco. Ma se in quel caso gli efferati omicidi erano dettati da una certosina e razionale elaborazione, anche senza assunzione di droghe, qui il peccato è indirizzato dalla condotta mondana, rivelandoci un personaggio in realtà debolissimo che si pavoneggia tra i fasti della politica ufficiale ma costretto a fare continuamente i conti con imprevisti contingenti. Il denominatore comune tra i due film è comunque la necessità di dover assecondare selvaggi istinti che il colletto bianco, di giorno, deve necessariamente sovrastrutturare. Il che fa dell’illuso onorevole il personaggio più disgraziato. Anche lui all’inseguimento di un padre (questa volta di partito) che, con una bellissima auto blu, nel concitato finale del film, sembra fuggire a gambe levate senza tuttavia designare un vero erede. Se 1894 anni prima, il più grande imperatore della storia dell’umanità, Traiano, designava un degno, anche se più moderato, continuatore della sua politica, vale a dire Adriano, la Roma caput mundi di adesso crolla perché senza alcun caput. Il vuoto!

Ma se sofisticamente dovessimo trovare dei difettucci in questo film, parleremmo senz’altro della prova non entusiasmante di Amendola, il quale, se non avesse proferito parola, avrebbe pure potuto ricevere un Oscar. Avremmo infatti preferito, al suo posto, un Fassari, comunque presente nel film, o un Zingaretti, volendo fantasticare (come ha ipotizzato l’esperto di noir Cortelletti). A livello stilistico, non ci sono falle evidenti. Il film ha un ottimo ritmo, un buon montaggio, cala di tono a dovere e si innalza quando è necessario (la scena dell’inseguimento all’interno del centro commerciale farebbe pensare infatti ad un involuzione della seconda parte del film verso l’americanata pura, ma da subito il film torna ad essere, cinematograficamente parlando, italiota).È forse, in certi frangenti, troppo a lungo sospeso, magniloquente e musicato,ma la colonna sonora, con la punta di diamante ravvisabile nel brano Outro, è davvero potente e gradevole. Unica recriminazione andrebbe fatta relativamente alla conduzione della camera da presa, troppo spesso a spalla, che sa molto di serie tv (ma perdoniamo Sollima, dal momento che la sua è una fallace deformazione professionale). Un plauso va invece al grande Favino, il quale sembra cambiare timbro vocale in ogni film (in questo caso citofonata ma calibratissima), dimostrando una sublime arte attoriale, e al giovane Borghi (che avevamo già conosciuto nell’intimo, toccante e spietato Non essere cattivo del grande Caligari), l’interprete del “numero 8”, ancora acerbo nella dizione ma supremo nel ruolo dello spietato e neonato boss.

In questa recensione abbiamo scomodato un po’ tutto e tutti, perché le pretese stesse del film erano alte. Ciò che tuttavia rimane indiscutibile è il senso di smarrimento che il finale incute. Chi lo ha definito un film troppo tetro, ha di certo colto il meglio. Perché, come è stato spesso ribadito in questa sede, solo realizzando un film privo di barlumi di luce e di ogni senso morale un regista concede la possibilità, allo spettatore, di redimersi. Di riplasmare il film, di renderlo altro da sé. E se le conclusioni tratte da Sollima non apportano alcuna speranza per le nuove generazioni, su cui il film sembra calcare pesantemente la mano, proprio noi giovani dobbiamo prefiggerci di tornare ai nostri padri e far capire loro che non tutto è perduto, affinché riprendano a guidarci. Per dimostrare a tutti che non siamo figli bastardi di un dio minore peraltro dimenticatosi di noi. Per risorgere dall’oblio storico e generazionale cui Viola e Sebastiano, giovani come noi, sembrano essere caduti, tentando invano e violentemente di ergersi contro i titani di sempre. Per tornare a Dio, ancor più che alla politica, restaurando il vecchio indirizzo morale. E se Ulisse non torna, be’… almeno ci abbiamo provato.

Gabriele Santoro

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RISCHIO RETROCESSIONE (su “Youth” di Paolo Sorrentino)

Youth. <<E ‘sti cazzi!>>, verrebbe da sbraitare. Perché seguendo una nota e mordace lezione di Enzo Castellari (autore di film cult poliziotteschi e western anni ’70 e ’80), il successo di un film parte già dalla reazione del pubblico al titolo. Se quest’ultimo viene accolto con un roboante <<Me’ coglioni!>>, allora vorrà dire che sarà gradito tanto da consentire una vasta fruizione del film. In caso contrario, be’… si vada alla reazione di cui sopra. E questa dialettica e romanesca corrispondenza verbale di un più o meno acuto gusto nella scelta del titolo sono lo specchio, alle volte, di un più o meno acuto gusto registico o addirittura filmico. Il buono, il brutto e il cattivo, per esempio, ha di certo un titolo impattante, maschio, ed è anche e sicuramente un capolavoro assoluto. Ma, oggigiorno, questa genuina tendenza al buon cinema italiano di genere, che vede nella scelta del titolo l’apogeo di una tanto conclamata (all’epoca) e salvifica artigianalità del mestierante chiamato regista, si è dissolta nel nome del cinema di serie A (o presunto tale), delle pretese massimaliste (sia registiche che di scrittura), dell’autorialità limata sino all’inverosimiglianza, affettata come un prosciutto crudo. Con cui imbottire smargiasse carriere da Oscar, per lo più. E tornando al film del giorno, vale a dire La giovinezza (così preferiamo chiamarlo, in quanto italofoni), il sintagma <<’Sti cazzi>> rivela una sconfessione totale dei casti dettami del cinema italiano di genere di quegli anni da parte degli autori contemporanei e ne rappresenta, in un certo qual senso, anche la morte.

Fatta questa premessa dai toni nostalgici, tra un giudizio estremo e l’altro (cioè tra il polpettone grossolanamente farcito e il diamante di preziosa fattura, tra <<’Sti cazzi>> e <<Me’ coglioni>> per intenderci), è opportuno per una volta elencare aspetti ora positivi ora negativi del nuovo film di Paolone Sorrentino. E non di certo per atteggiamento ignavo ci porremo in mezzo alla terribile contesa tra incondizionati detrattori e strenui difensori del regista napoletano, ma perché, avendo visto, rivisto, spolpato e rispolpato La giovinezza, vi abbiamo riscontrato sia chicche che rovinose cadute di stile. Partiamo dalla trama.

Due amici ormai anziani sono in vacanza in un centro delle Alpi. Uno è un ex compositore a cui degli emissari della regina Elisabetta chiedono invano di dirigere un concerto in onore del principe Filippo, l’altro è un regista ancora in attività alle prese con il finale della sua ultima fatica. Entrambi e in modo differente, dopo aver fatto conoscenza di decine di particolari personaggi, si rendono conto di quanto siano inadeguati alla società in cui sono costretti ormai a vivere. La giovinezza è il rifacimento più europeizzante, nonostante gli attori siano delle stelle di Hollywood, del patinatissimo La grande bellezza, non tanto per la presenza di una messa in scena più sobria (rimane, difatti, anche qui compiaciutamente magniloquente) ma per la presenza di riferimenti e piccoli particolari che rimandano di certo ad una cultura elevata e non massificata: dalla grande tradizione della musica classica ormai dimenticata e contaminata dalla musica pop di bassa lega al cinema impegnato, passando per lo sport sublimato come arte. Cifre stilistiche di un’Europa che fu, non ancora surrogato di tendenze oltre oceano, ma eccezionale unicum culturale. E Sorrentino tenta nel film di ricreare tale atmosfera rarefatta, di una cultura incontaminata perché segnata dall’età dei due artisti. I quali sembrano tuttavia non aver perso il talento di una vita. Ed è quest’ultimo il cardine di tutta la narrazione. Perché ostinatamente presentato come un dono divino da cui è impossibile discostarsi, di cui è impossibile disfarsi. Ma il conflitto vero e proprio dei due protagonisti emerge allorquando al proprio talento si abbina fatalmente l’impossibilità di adattarlo al presente. I due sono infatti uomini d’altri tempi, autori veri e artisti indiscussi, ma hanno subìto una sorta di atroce condanna da parte del tempo, loro tiranno, vale a dire la progressiva perdita della memoria a lungo termine, una sorta di alzheimer all’inverso (inusuale come trattazione della fase senile in ambito cinematografico) che non permette loro di ricordare il volto dei genitori. Un singolare morbo affligge dunque i nostri protagonisti: non ricordano più la fisionomia di chi li ha messi al mondo, ma ricordano rispettivamente tutte le arie composte, tutti i concerti diretti, tutti i film realizzati e il volto di tutte le muse in essi presenti. Il talento appartiene dunque ad una memoria a sé, fuori dalle logiche comuni, fuori dal tempo, mentre l’esistenza dei due appare molto lunga, anche per mezzo delle scelte registiche volutamente prolisse. <<Dicono che la vita sia breve, ma la vita è troppo lunga!>>, diceva Jimmy Gator in Magnolia. Ed è quello che sembrano pensare ogni attimo anche i due anziani amici in questo film. Quasi a lasciare intendere che ad una certa età sarebbe preferibile perdere completamente il senno o l’esistenza stessa piuttosto che stare ad osservare il mondo che rotola inesorabilmente sempre più verso il baratro e non poter far nulla. Non perché ormai privi di talento (come detto, il talento è la colonna portante di tutto il film, a qualunque fascia d’età si faccia riferimento), ma perché ormai spossati, disillusi, demotivati. Perché vecchi, insomma. Sta qui la drammaticità del film (non si parla infatti di tragicità vera e propria), nella consapevolezza cioè che il mantenimento di un talento puro anche in tarda età crea un’inadeguatezza di fondo alla società in cui si vive, che si vorrebbe invano ancora far esplodere come nei bei tempi ormai andati. Per questo rimane un film sulla giovinezza e non sulla vecchiaia, perché tratta del conflitto quasi irrisolvibile tra giovinezza d’animo, rappresentata dal talento appunto, incorruttibile e sempre presente, e il suo involucro materiale, sottoposto invece, forse salvificamente o forse a mo’ di condanna, alle corruttele del divenire. E non ci inganni il finale: La giovinezza è un film non propriamente ed esclusivamente positivo e speranzoso, ma un film narrante illusioni, disillusioni, vittorie e sconfitte. È ora una preghiera al buon Dio di poter risorgere dalle proprie ceneri, ora un’invettiva allo Stesso, reo di condannare ogni uomo all’appassimento. La giovinezza è tutto e il contrario di tutto, insomma.

A proposito. Nessuna uomo poteva esprimere tale conflitto meglio del terzo protagonista del film, emblema vivente di un verbo divino fattosi carne sotto le mentite spoglie di una semplice dote naturale: Diego Armando Maradona. Il suo ingresso in scena è da annali del cinema, in quanto un piano sequenza lo segue fin sulla lettiga dopo che l’ormai appesantito e malato genio del pallone ha fatto un bagno in piscina. Meravigliosa, tra tutte, la scena in cui il giocatore più superomistico della storia palleggia con una pallina da tennis, d’esterno, sotto il sole e appesantito come una betoniera. Il suo talento non viene minimamente scalfito dalla spiazzante ingiustizia della natura, che la volontà umana, alla maniera di un novello Fitzcarraldo, sembra per un attimo surclassare e abbattere. La stessa volontà che fa pronunciare all’apparentemente finito Diego, ancora una volta e quasi profeticamente, la parola futuro. In nome di un avvenire insperato che, come ben sappiamo, egli tornò davvero ad avere nelle vesti di allenatore della sua Argentina dopo ben cinque ricoveri (per ipertensione cardiaca, per overdose, per epatite e infine per disfunzione renale). Riscontriamo dunque due diverse reazioni alla vita nel film: da una parte, la decisione del vecchio regista di gettarsi dal balcone dopo aver constatato quanto brutto sia diventato quel mondo che credeva di conoscere e saper raccontare bene (alla maniera del protagonista di Birdman, per certi versi); dall’altra la testimonianza, seppur romanzata ma comunque reale, di un semidio dalle sembianze esclusivamente umane e per questo parecchio sofferente, ma pronto a ricominciare strenuamente, tentando il volo un po’ come uno strafottente calabrone in apparenza impossibilitato a farlo. Un po’ come un semidio, di fatto morto, resuscitato, rimorto, e di nuovo resuscitato, e avanti così per almeno cinque o sei volte e con una disinvoltura unica. Ma Maradona è anche altro. Rappresenta una netta presa di posizione in ambito artistico e culturale, in quanto oggetto speciale di un culto che è forse divenuto tendenza, ma anche personaggio emblema di un’ostilità profonda verso ogni tipo di cultura massificata di matrice americanistoide (la presentazione di Maradona avviene di spalle, mostrando il faccione di Marx tatuato sulla schiena; motivo per cui non arriverà alcun Oscar per Sorrentino). Torniamo dunque al messaggio iniziale, secondo cui tutto ciò che è sana cultura elitaria (nell’accezione di aristocratica) non dovrebbe avere nulla a che spartire con il cattivissimo gusto trash (ancor più che pop) di orripilanti video sbandierati su emittenti musicali, di effetti speciali terribilmente sovraesposti, della imperante monnezza seriale della tv preferita al vero cinema d’autore o semplicemente al cinema. Il tutto a scongiurare un concetto di bellezza inteso esclusivamente come pomposa e pompata ricchezza visiva, proponendolo invece come completezza etico-estetica (ne è l’incarnazione Miss Universo, capace, viva Dio, anche di parlare).

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Ma allora cosa non funziona in una pellicola di cui, fino a questo momento, abbiamo tessuto esclusivamente lodi? La risposta è secca: la sceneggiatura! E se si acquisisse per un attimo il punto di vista di chi considera a buon diritto la sceneggiatura come il sinolo, come “il tutto filmico”, sia materia che forma estetica, allora questo film risulterebbe manchevole in toto. Se una messa in scena del genere fosse difatti corroborata da una sceneggiatura più pacata, più verosimile e senz’altro meno sentenziale, meno lavorata, in questo caso risulterebbe molto probabilmente un film delizioso, una vera opera d’arte. Ma se ai fasti di una pinacoteca trasposta su pellicola aggiungiamo dialoghi forzati ed epifonematici, la frittata sembra servita. E guardare La giovinezza è come assistere ad uno spettacolo circense nel quale ogni secondo esplosioni pirotecniche e salti mortali improponibili allietano (ma nello stesso tempo, alla lunga, affaticano) i nostri occhi. Il tutto appesantito da frasi che metteremmo benissimo in bocca a sciamani o santoni, quando, invece, sarebbe preferibile il silenzio (ed è lo stesso anziano regista interpretato da Keitel a trovare nel silenzio il giusto finale del suo film). E cerchiamo dunque di dare una nostra personale interpretazione di questa smania totalitaria che Paolone mette in mostra ogni qual volta impugni una camera da presa. Innanzi tutto soggetto e sceneggiatura degli ultimi due film sembrano entrambi tratti da 8½ di Fellini (ancor più che da La dolce vita). E i riferimenti sono parecchi: dagli artisti a cui manca l’ispirazione per ricominciare un percorso artistico agli ingressi in scena di personaggi bislacchi in pure stile carnescialesco e circense all’elemento onirico (presente in realtà, ma in maniera surrealistica e dunque enigmatica, già da L’uomo in più). Per non parlare poi dello stile registico manierato e manipolatissimo, in cui Sorrentino somiglia al più ebbro Scorsese: carrelli accelerati da parco avventure, dolly vertiginosi e a volte anche nauseabondi. Il tutto con un montaggio apparentemente originalissimo, in quanto tendente ad accavallare in modo alternato scene diverse prima che cambi definitivamente la sequenza, ma che in realtà richiama perfettamente lo stile di  Donn Cambern in Easy Rider. Davvero originale, invece, la scelte kubrickiane e visivamente provocatorie di girare le scene dialogiche, anziché con un usuale campo-controcampo, con deliziosi piani d’ascolto (il che rende questo film, sotto certi aspetti, impopolare) e di allungare spesso il campo di ripresa, facendo credere allo spettatore che la scena stia per cambiare, per poi ridurlo nuovamente con netti primi piani. Tanta comunque, ma proprio tanta erudizione cinematografica riscontriamo in quest’ultimissimo Sorrentino. Ma possiamo ancora chiamarlo Sorrentino? È ancora sé stesso o si compiace forse eccessivamente e senza riscontro cinematografico reale di compiere rifacimenti post-moderni di film ormai passati? Il cinema di oggi ha più bisogno di “pseudoremake” o di autori d’eccezione, che sappiano, pur ancorati nella tradizione del passato, dare un’impronta nuova alla nostra realtà culturale? Non più di cinefili e sfrenati omaggi al cinema ha bisogno la cultura occidentale, ma di chi annienti l’oggi senza nemmeno menzionare ciò che è stato ieri, bene o male che sia (l’emblema, a tal riguardo, è l’ultima pellicola di Cronenberg, di cui abbiamo già parlato in questa rubrica, vale a dire Maps to the stars). Certo, la critica allo star system è abbastanza verace anche ne La giovinezza, ed è forse anche la chiave di volta dell’intera narrazione, per via della decisione finale del vecchio regista in seguito al rifiuto della sua musa di girare con lui. Ma tutto rimane in un involucro ermetico e vincolante che si chiama “richiamo ai modelli”. È come se il cinema di Paolo Sorrentino, insomma, vivesse di eterne contraddizioni performative, e questa è la ragione per la quale il pubblico ostenta reazioni radicali e contrarie: <<o lo si ama o lo si odia>>, dice qualcuno. E se questa recensione può apparire macchiata di vaghezza di giudizio, è solo perché abbiamo cercato di essere obiettivi quanto mai nel prendere una posizione a riguardo. E il nucleo del nostro giudizio sul Paolone nazionale è questo: il suo cinema è (diventato?) una pericolosa combinazione di cinema d’eccezione e cinema falso-autoriale. Facendo riferimento all’ambito calcistico, tanto per rimanere in tema, il suo cinema considerato di serie A sembra franare e retrocedere molto spesso in serie cadette. Uno stile insomma campato in aria, apparentemente barcollante, vago.

Ma La giovinezza è portatrice sana di una speranza, e cioè che, vista la parziale evoluzione rispetto al precedente La grande bellezza, il cinema di Sorrentino possa tornare pian piano a vestire i panni degli esordi, quelli del capolavoro assoluto L’uomo in più, per intenderci, mirabile esempio di equilibrio tra regia e sceneggiatura al cui livello nessun altro regista è mai arrivato. Che possa dunque tornare, il buon Paolone, a guardare la realtà come i protagonisti del suo ultimo film, con quel cannocchiale girato (non in segno di vecchiaia, ma di umiltà di pretese) così da non permettergli di volgere lo sguardo altrove, troppo lontano. Che possa puntare sempre meno, con l’età che avanza, a Hollywood e possa tornare a raccontare l’Italia, la sua Napoli, il nostro dramma meridionale. Riducendo la portata magari, ma si tratterebbe di una sua, di una nostra portata. Per tornare a farci sbraitare, dalle nostre salette, l’unica cosa che vale la pena urlare: <<Me’ coglioni!>>. Titolo a parte, naturalmente.

Gabriele Santoro

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