L’OSCENO 2.0 (La nostra invettiva nei confronti della serialità audiovisiva)

Sapevate che i fotogrammi relativi alle scene d’azione del film L’ultimo combattimento di Chen sono stati volutamente rallentati al fine di godere delle meravigliose “coreografie marziali” del vecchio Bruce Lee che altrimenti l’occhio umano non avrebbe potuto cogliere appieno, in tutta la loro magnificenza? Storia d’altri tempi, cinema d’altri tempi. In cui un film sul grande schermo assumeva sempre, seppur sussunto sotto generi e categorie non proprio autoriali, uno statuto quasi ieratico.

Oggi parleremo, dopo un lungo e voluto silenzio a riguardo, di serialità audiovisiva. Vi chiederete cosa abbia da spartire tale argomento con la premessa fatta su Bruce Lee: assolutamente nulla! Ci andava semplicemente di raccontarla (si ringrazia a tal proposito il nostro personalissimo almanacco del cinema, l’amico Salvo). Approfondiremo, per quanto concerne il tema del giorno, due distinti ambiti di indagine: uno meramente estetico-filmico, l’altro invece socio-politico (ebbene sì, tutto è politica!).

trono di spade(viso medio di un personaggio medio di una media serie televisiva che si rispetti)

Partiamo subito col dire che la serialità è un’istanza audiovisiva per nulla sovversiva e rivoluzionaria, come erroneamente si crede, ma estremamente becera e datata. Non vi è nulla di più mortificante, per l’arte in genere, di ciò che è protratto all’inverosimile, di ciò che è stirato come fosse panno da riciclare e riciclare ancora, di ciò che è terribilmente inflazionato, insomma. Nel cinema, come nell’economia, qualunque prodotto si svaluta in modo direttamente proporzionale alla sua reiterata presenza sul mercato. E se in ambito strettamente economico l’inflazione rappresenta a volte, o così vogliono far crederci, l’igiene del mercato stesso o comunque un processo quasi fisiologico, in campo artistico non si può affermare altrettanto. Arte è infatti tutto quanto risponda, innanzitutto, all’universale e aprioristica (Kant lo definirebbe “trascendentale”) grammatica che un determinato settore ha sviluppato e sancito nel corso dei secoli. Inoltre ci si riferisce sempre alla fase esecutiva (performativa) e alle impressioni che dall’istante fruitivo scaturiscono. Il cinema come lo abbiamo conosciuto è già un formato artistico fuori dagli schemi, in quanto strumento d’espressione martoriato, scisso per antonomasia e continuamente stuprato nelle sue infinitesimali fasi di realizzazione (realizzare un film prevede una miriade di situazioni artisticamente stranianti e alienanti, dalla preproduzione ad un’ardua realizzazione fino ad una logorante fase di postproduzione). Il tortuosissimo percorso è poi reso mortificante dalla differita della trasmissione (ciò che lo differenzia dal sano teatro). Ma allora cosa fa del cinema un’arte?

Proviamo a rispondere con una geniale considerazione di Tarkovskij (mica Nolan!). Parafrasando un passo del suo La forma dell’anima, il regista russo teorizza una visione del cinema illuminante, in quanto esso viene raffrontato all’arte scultorea. Come quest’ultima, il cinema non è altro che una rielaborazione della materia: lo scultore modella la sua opera sottraendo materiale da un unico e compatto corpo; il regista, in modo analogo, modella il suo film scalfendo l’eccedenza temporale, tutto quanto rappresenti un superfluo surplus narrativo che renderebbe il prodotto audiovisivo eccessivamente prolisso o tediante. L’infinito cinematografico, l’imperituro e più grande pregio della cosiddetta settima arte, è proprio la finitezza estetico-narrativa. E l’abilità artistica di un regista risiede proprio in questo, nello scolpire il tempo adeguatamente, nel creare un giusto equilibrio tra tempo della storia e tempo del racconto (come succede in letteratura). Niente di nuovo sotto il sole, sia chiaro. Ma proprio tale semplicità concettuale sembra essere oggetto di negligenza artistico-autoriale. Oggigiorno infatti nessuno sembra essere disposto a valutare positivamente un film, anzi, nessuno più li fruisce. Tutto a favore di quanto vi sia di più sgrammaticato, scazonte, geneticamente fallace: la serie televisiva. Essa mortifica il cinema in quanto tale, il cinema in quanto arte, proprio per la suddetta motivazione. Cullandosi sugli allori di una più comoda e senz’altro endemicamente lassista scelta estetica, il regista seriale non studia le fasi del montaggio alla maniera cinematografica e non si prodiga a fare ciò cui Tarkovskij inneggia, rivendicando una certa paternità artistica del cinema di ogni tempo. Semplicemente perché non gli è richiesto nulla fuorché uno sfrenato e miserrimo compiacimento della massa informe e livellata verso una monolitica dimensione intellettuale. Allo stesso tempo, questa disabilità (o, per meglio dire, totale ignoranza) registica nel gestire i tempi della narrazione gli si ritorce contro. Perché ogni puntata di ogni dannata serie televisiva deve stupire, sconvolgere e attrarre fatalmente ogni sfrenato e febbricitante spettatore in preda ad una crisi di onanismo fruitivo (come se la serialità fungesse da strumento pornografico per il nostro già delicatissimo cervello). Che senso ha pretendere più del consentito da ogni episodio, come se fosse, ciascuno, un film a sé? E che senso ha per un regista gettarsi autolesionisticamente tra le assatanate grinfie di centinaia di migliaia di invasati? È questo il terribile paradosso, l’aporetico circolo, viziosissimo, in cui cadono inesorabilmente tutti. E i registi ottengono il massimo risultato con uno sforzo poco più che esiguo, spalmando una trametta da una sessantina di minuti in addirittura una decina di stagioni (si chiamano così?). A tal proposito ci rivolgiamo a quanti sbraitano, tronfi quasi come se le puntate di una data serie le avessero scritte loro, che gli sceneggiatori seriali sono più capaci di quelli impegnati nel cinema: una buona sceneggiatura non è quella caratterizzata da fulminanti battute o sentenze epifonematiche dispensate qua e là e oggetto di possibile emulazione. Un ottimo sceneggiatore sa quando far parlare i personaggi e quando zittirli; conosce i tempi del silenzio, dell’urlo, del pianto. Una buona sceneggiatura, insomma, è paradossalmente facile da dimenticare, perché sobria, credibilissima o sopra le righe solo quando necessario (a meno che non si tratti di Tarantino o Leone).

Tutto quanto osceno, insomma, usando un termine caro al buon Carmelo Bene, nella sua personalissima accezione di “oltre la scena”. Ed è proprio questo atteggiamento oltranzistico che plasma un’oscenità del nuovo millennio, in cui ci si immola all’altare dell’assillante ripetitività, della convulsa propensione espressiva, spacciata come tale ma che risulta essere invece solo smania, quasi allucinatamente alterata, di accumulare ingordamente informazioni audiovisive del tutto pleonastiche (come se non bastasse già il mondo dei social a contribuire a tale bombardamento quotidiano). E lasciando spazio a questo modo di far cinema, non assisteremo più al variegato mondo delle scelte registiche che fino ad ora hanno reso il cinema un nobilissimo veicolo di indirizzi stilistici. Il rapporto tra regia e tempo del racconto di cui sopra ha indotto autori d’eccezione a stabilire, nel corso degli anni, quale tipologia di racconto adottare di volta in volta: da Tarantino e la sua poetica scelta di dar spazio al futile sceneggiaturale (sia dialogico che situazionale) per dare un’impronta allo stesso tempo iperrealistica e irrealmente caleidoscopica ai suoi film fino alle proverbiali sequenze silenti e macchiettistiche, quasi da novelli western, dei fratelli Coen (per fare solo due illustri esempi di postmoderno cinematografico). Il regista è sempre meno posto di fronte alla necessità di fare del buon cinema cercando un’onesta e, in questi termini, “artistica” originalità narrativa. Non conta più, per intenderci, come si racconta qualcosa né la portata sociale del tema affrontato, ma solo la precarietà (che deve essere sempre garantita) della narrazione al fine di confluire, tutti insieme appassionatamente, in un nuovo e avvincentissimo episodio. Una sorta di ricorsività platonica che tiene ogni spettatore o fan (che brutta parola!) in una sorta di stagnante condizione di ingolfamento, perché rinchiuso in un microcosmo claustrofobico.

Approfittiamo di quest’ultima considerazione per accennare al secondo ambito d’indagine, quello socio-politico. Partiamo con l’approfondire un ambito fragilissimo, già da noi citato relativamente alle sceneggiature seriali: l’emulazione. Ad inizio Novecento, teatro e letteratura d’avanguardia proponevano una nuova forma di arte che prevedesse un più o meno totale abbattimento della cosiddetta “quarta parete“, quell’ideale muro divisorio tra attanti e spettatori o tra narratore e lettore. Nessuno avrebbe mai creduto, all’epoca, che cento anni più tardi il cinema avrebbe fatto scempio e abuso di tale tecnica narrativa a tal punto che lo spettatore potesse pericolosamente ed indebitamente appropriarsi delle dinamiche del racconto e addirittura identificarsi con i personaggi. E ogni argomento atto a confutare la tesi di un’eccessivo coinvolgimento emulativo dello spettatore crolla allorquando ci rendiamo conto che non possa essere altrimenti per via della durata di una serie e della patetica austerità, eccessivamente romanzata, delle storie raccontate (tale accattivante criterio, avanguardistico per l’epoca, appare adesso anacronistico perché applicato ad un format che deve invece presentare, come prerogativa fondamentale, l’assoluto e salvifico distacco dalla macchina attoriale e dall’intreccio stesso).

Sotto un aspetto più strettamente politico, abbiamo un’altra considerazione da fare. Si ha ultimamente come l’impressione che il mondo sia più globalizzato del solito. Le raffazzonate politiche indipendentiste, il tanto osannato modello del referendum popolare antinazionale e le varie campagne di rivalutazione di realtà regionali ormai dimenticate non rappresentano altro, in verità, che palliativi per celare una mondializzazione culturale senza precedenti. E le miriadi di serie televisive, americane e non, vendute in tutto il mondo sono solo una parte di quel mastodontico organon totalitario che ci livella nel nome dell’uguaglianza culturale (non razziale, non antropologica, ma culturale: che orrore!). Persino movimenti o partitini politici di recente formazione, che rivendicano una certa rottura col passato, non fanno altro che alimentare indirettamente un nuovo modello di italiano medio, incentivando nei propri programmi politici l’uso sfrenato del web per il dibattito politico-culturale (in luogo delle storiche piazze). Ed è come se la serialità, ormai insinuatasi nelle case di tutti noi ed esplosa come vera e propria componente cancerosa, contribuisse a somministrare a ciascun ragazzo una dose (o, per meglio dire, overdose) di stili di vita e consuetudini culturalmente troppo lontani da noi. Assistiamo allora, sempre più, ad un vero e proprio svisceramento sociale, ad uno svuotamento etico (dove per etica si intenda, etimologicamente, il costume di un gruppo sociale) e identitario. Un modus vivendi improntato alla comodità (in cui non è più necessario andare al cinema per gustarsi un film o patire la presenza disturbante di altri esseri informi chiamati umani alla quale non siamo più abituati) attecchisce, è chiaro, ovunque in modo quasi naturale. E a contendersi il monopolio di tale somministrazione sono gli storici colossi della serialità pay tv e le nuove ma altrettanto efficaci statuine della serialità via web (oltre alla pirateria, naturalmente). Prezzi più o meno ingenti e costi più che irrisori, ma il risultato è lo stesso. E i cinema? Be’, quelli continuano a sopravvivere nell’attesa che una tale ondata pro/regressista si arresti per il bene di una sana vita sociale, nostrana, non assunta endovena. Nell’attesa che, un po’ come allora, si aspetti un film al cinema perché considerato un veicolo di straordinarietà audiovisiva (e qui si ritorna alla nostra premessa su Bruce Lee), di eccezionalità persino artigianale. Nell’attesa che le miriadi di fans capiscano che la fruizione di un prodotto non dipende dalla competitiva e quasi agonistica visione altrui, né dalle aspettative o dalle spregiudicate operazioni pubblicitarie e che non deve implicare a sua volta un trastullato e autoerotico circolo di commenti in rete; e che comprendano che evitare altezzosamente i “cinepanettoni” per calarsi nella realtà seriale è solo uno snobistico spreco di energia. Infine, chi guarda serie televisive comodamente da casa vanta la possibilità di “staccare la spina” (che brutta espressione!), rilassarsi e assistere a storie da seguire senza alcun impegno intellettivo. Chi va al cinema, invece, cerca di rinsavire dallo stato di vegetazione intellettiva. E di riattaccare quella stessa spina, ad un voltaggio magari superiore.

Gabriele Santoro

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ANCORA TU, MA NON DOVEVAMO VEDERCI PIU’? (Su “Dunkirk” di Nolan)

“Vizi di forma”, parte seconda. Qualche tempo fa ci arrogammo il diritto di sbeffeggiare Sir Christopher Nolan, mettendo alla berlina il suo presuntuosissimo Interstellar. Adesso, uscendo dalla sala dopo aver visto Dunkirk, ci ritroviamo meno intellettualmente minati. Rimane tuttavia ostacolata un’eventuale valutazione assolutamente positiva del film. Ostacolata da una sinistra tendenza, dal parte di Nolan, all’eccesso. Divenuta proverbiale ormai, almeno tra i detrattori del regista.

Dunkirk non è un brutto film, sia chiaro. Già la dotta citazione della prima sequenza, ispirata ad una storica scena di un film dell’ungherese Bela Tarr, conferisce una maggiore connotazione artistica al film. E anzi, spingendoci oltre, ci sentiamo di definire i primi 40 minuti un vero capolavoro del genere.  La messinscena è inoltre senz’altro gradevole, ottemperando ai dettami di quella tanto allettante e proficua ondata di cinema cosiddetto “iperrealistico” che sta coinvolgendo il mondo (la denominazione categorica è quanto mai arbitraria). Ma, se da una parte i vari Garrone e Inaritu si mantengono ancora entro i margini che tale scelta cinematografica impone, c’è chi, dall’altra, non riesce a tenere a freno il proprio piglio virtuosistico. La semplice ostentazione registica diviene, con Nolan, vera e propria smania di eruzioni audio-visive. Vanesio diviene Vesuvio, per intenderci. Ma cosa fa davvero di Nolan Christopher Nolan? La sua peculiarità, spacciata per capacità dell’universo cinema di reinventarsi continuamente, è in realtà degenerazione, scadenza, totale stucchevolezza. Partiamo dal montaggio: in Dunkirk risulta ben lontano dalla maestria mostrata in Memento, dallo stile incalzante e quasi rocambolesco, seppur ancora gradevole, di The Prestige e dei Batman. Nella sua ultima fatica riesce persino a confondere le idee sovrapponendo piani temporali, gettandoli alla rinfusa nella straniante centrifuga temporale che emerge dal film. Potrebbe pure aver un senso contaminare il genere bellico con una conduzione temporale inusuale e originale. Ma in tal caso l’originale si tramuta in totale frastornamento. Lo spettatore, perdendo a fine film ogni cognizione spazio-temporale, non riesce a comprendere cosa nel film avvenga prima e cosa dopo. Le lunghe sequenze e i richiami analettici decentrati richiamano alla mente illustri predecessori, da Lumet a Tarantino. Ma se in questi ultimi casi la visione risulta piacevolissima e la scelta di montaggio appare funzionale alla narrazione, nel caso di Nolan il tutto appare affettato. Forse, verrebbe da pensare, è proprio il genere bellico a non permettere eccessive manipolazioni estetiche e stilistiche. La grammatica cinematografica presenta delle restrizioni, a volte persino marziali, che non consentono estreme libertà di realizzazione. La guerra non può essere trattata con dinamiche thrilleristico-americanistoidi da film ad effetto e aprioristicamente in corsa per l’oscar.

A proposito di quest’ultimo aspetto, verrebbe da applicare un solo aggettivo a questo film: sgrammaticato. Abbiamo analizzato il montaggio, ma non il metodo strettamente narrativo che Nolan decide di portar avanti. E proprio un determinato aspetto di esso determina la nostra negativa valutazione: la colonna sonora. Già, una colonna, che sembra crollare sotto i colpi delle armi da fuoco e dei bombardamenti e seppellirci definitivamente. A memoria d’uomo, infatti, non sovviene un film più inutilmente chiassoso di Dunkirk. Nessuno si permetterebbe di gettare in tal modo benzina sul fuoco, ma Nolan, da marpione qual è, lo fa con la nonchalance tipica dello studente capace ma insolente. Il suo collaboratore musicale prediletto, Hans Zimmer, sembra trovare pane per i propri denti caricando a salve l’intero film, che risulta musicato dalla prima all’ultima scena (non è una considerazione iperbolica, ma la pura realtà: dalla prima all’ultima!). Come abbiamo più volte ribadito in questa sede, Nolan ignora le salvifiche norme del buon cinema e le disattende in modo integrale. Il consueto sviluppo narrativo che caratterizza un film “grammaticato” prevede una graduale scalata verso l’apice narrativo, verso l’acmé, non una rincorsa contro il tempo. Il film preme perennemente sull’acceleratore, inflazionando e svalutando l’idea stessa di azione scenica, che diviene in realtà banale routine. È insomma un continuo svolgimento, senza un cauto esordio o un finale narrativamente risolutivo. Da questo punto di vista il cinema di Nolan sembra rappresentare l’alter ego manierato (ma nemmeno troppo) di un Bay o uno Snyder. Dei peggiori registi del pianeta, per intenderci.

Un piccolo accenno, poi, al finale. Tronfio, terribilmente anglico (e di certo non sassone: il nemico tedesco non si vedrà mai nel film, se non nel finale e fuori fuoco; scelta azzardata, ma, questa sì, particolarmente originale). Per una volta, tuttavia, siamo un tantino lieti di assistere alla lode, seppure sperticata, nei confronti di una vera patria come l’Inghilterra, biasimevole o meno che sia, ma autentica civiltà (in contrapposizione alle apologie filmiche del surrogato culturale a stelle e strisce).

Da quanto detto finora sorge una nostra ultima e forse estrema considerazione: il cinema così tanto osannato di Nolan è lo specchio dei nostri tribolati tempi. In cui ci si avventura in una sfiancante rincorsa all’originalità, in cui il normale è alieno perché banale, e l’alieno diviene originale, ma tremendamente modaiolo. Una regia posata e ligia alle norme grammaticali di cui sopra non può più avere spazio nel cinema contemporaneo, come nella letteratura e nella musica. Ma forse per un’unica ragione: non c’è più nulla da aggiungere all’arte. E proprio per questo ogni postilla va sbraitata, altrimenti non viene recepita affatto. Ma ciò che non si comprende è la vanità di tale operazione: ogni eccesso stilistico (a meno che non si tratti di sinceri tentativi di scuotere lo spettatore) finirà nel dimenticatoio, persino quello. Tanto rumore per nulla, verrebbe da dire.

Gabriele Santoro

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LA MORTE DI MATUSALEMME

Sicilia? Quale Sicilia? Esiste ancora una terra identificabile con tutto quanto di peculiare sia stato accostato a tale regione nel corso dei secoli? Ed esiste ancora nel mondo una terra che possa davvero essere considerata portatrice sana di una qualche unicità culturale ed etica? Da questi quesiti bisognerebbe partire ogni qual volta ci si accosti ad un’opera (in questo caso un lungometraggio) che indaga le dinamiche di pensiero di un popolo territorialmente circoscritto. Prendendo in esame il nuovo film del siciliano Francesco Lama, balza subito agli occhi l’impossibilità di approcciarsi ad un prodotto cinematografico in modo usuale. I cineasti della nostra terra si limitano infatti, oramai, alla sola ed incondizionata esaltazione dei nostri luoghi. Un pregiudiziale elogio, superbo e traviante, di una solo presunta condizione di superiorità culturale e soprattutto etica. Il film in questione, I Siciliani, tenta purtuttavia di fugare ogni fuorviante luogo comune, analizzando la cultura popolare del Siciliano, se non con verace critica, con una comunque decisa sospensione di giudizio. Il protagonista, disoccupato storico, comincia a scrivere un libro sui suoi corregionali, sottovalutando forse la questione e credendo sia una matassa da poter sbrogliare in men che non si dica. Col tempo, dopo parecchie interviste a personaggi famosi e non, comincia a realizzare che ciò che dovrebbe caratterizzare positivamente un intero popolo è per lui fonte di disgusto nauseabondo. La Sicilia, la vecchia e unica Sicilia, fatta di identitari “scrusci” di carretti, di convinzioni, di ossessioni maniacali, di totale rassegnazione celata sotto urlii da bar solo apparentemente titanici, di lassismo sbraitato, di azione silente, di mediocre millanteria per un passato glorioso di cui in realtà non si è stati protagonisti, questa Sicilia qui sembra creare inaspettatamente profonda repulsione nel protagonista, che infine maledice lo stesso libro da lui scritto. E proprio il tema della maledizione lambisce tutta la narrazione: in parecchi momenti del film si ha come l’impressione che il protagonista venga dannato da una qualche entità superiore, in quanto reo di voler trascendere gli umani limiti e voler sondare l’insondabile, vale a dire la nostra terra (ne è un esempio la sequenza nella quale delira difronte all’ennesima e quasi infondata esaltazione gratuita della Sicilia da parte di un paesano). Le categorie di pensiero alla base della nostra sicilianità, sembra voler asserire il film, vanno apprese inconsciamente e passivamente, e qualora le si indaghi con cognizione di causa e con coscienza critica, finiscono per condurre all’instabilità psichica.

Questo è il nostro film: una critica all’inflazionatissima e boriosa esaltazione del carattere di noi Siciliani. Una matura presa di posizione del regista, che consegna allo spettatore un’alternativa chiave di lettura del film: il siciliano medio non è nessuno dei personaggi ritratti nel film, ma è il protagonista stesso, che dall’alto del suo amore per la scrittura crede di poter svoltare e scrivere un libro che lo faccia diventare finalmente benestante. Il classico atteggiamento facilone del Siciliano, che crede di spazzare via ogni cosa gli capiti a tiro, ma che con la stessa sveltezza decisionale diviene inerte e improvvisamente rinunciatario, come se il disinteresse finale fosse direttamente proporzionale all’entusiasmo iniziale.

Abbiamo elogiato la maturità critica del film, inusuale per una produzione locale. Tuttavia ci sentiamo di fare un ultimo passo in avanti, ancora oltre il finale tra l’onirico e lo spirituale, passando per quello spiraglio che il film sembra comunque mostrarci. Bisognerebbe indagare antropologicamente il Siciliano medio, ponendosi difronte ad un unico fondato quesito: è davvero dotato, oggi, di una sua esclusività caratteriale? Noi crediamo che la globalizzazione abbia livellato ogni popolo verso un’inferiore condizione. Anzi, infima. Nel nome del progresso, abbiamo accolto ogni diavoleria sia entrata nella nostra società persino in paesini come Agira. Non esiste più quel naturale limes che faccia da barriera culturale; siamo, anche noi paesani, “connessi globalmente, ma disconnessi localmente”. E se il modello globalizzante potrebbe pure avere ragione di esistere in un contesto urbano (?), sovrapporre un modus operandi et cogitandi prettamente cittadino ad una dimensione paesana crea invece un cortocircuito intellettuale ed intellettivo. Ecco allora che il discorso di Buttafuoco, nel film, sulla saudade dei Siciliani nel mondo sembra svanire sotto le macerie di un mondo che non esiste più. Gli “scrusci” di carretto sono solo ricordi da rispolverare in musei adibiti all’immobilismo culturale, le piazze sono sempre più vacanti, gli incontri vis-à-vis vengono soppiantati da blateranti dibattiti su circuiti virtuali, le maniacali ossessioni divengono crisi, complessi di adattamento, incapacità decisionali, in ultima analisi sociopatia (questo processo ha fatto sì che persino delle patologie prettamente cittadine si insinuassero nelle nostre realtà paesane). Il Siciliano, con i mezzi odierni, vorrebbe abbracciare il mondo, un po’ come un diciottenne appena patentato. Ma si limita, invece, a sbandierare convulsamente e compulsivamente qualche adesione o approvazione tramite i socials (si scrive così?). Esistono i vecchietti nei circoli delle piazze, è vero. Ma sono pur sempre vecchietti, e, sic stantibus rebus, finiranno la loro esistenza spazzati via come granelli di sabbia nel deserto culturale. E cosa rimarrà? Solo ciò che ci siamo conquistati, manco fosse il Vello d’Oro, dopo un’inutile corsa verso l’adeguamento al mondo. Che, tuttavia, continuerà a correre sempre più veloci di noi. E noi ad inseguirlo, e così, ricorsivamente, si continuerà a fare per il resto dei giorni che ci tocca vivere in questo mondo così beceramente ignorante. Questa Sicilia qui, e soprattutto questa Agira qui (parlando di ciò di cui abbiamo diretta conoscenza), il film sembra presentarla timidamente, in piccoli sprazzi di riprese. Un mondo ormai sommerso, un “matusalemme culturale” morto e sepolto. E l’emblema di questa agonizzante dissolvenza etica, quasi indirettamente e involontariamente, è uno dei tanti nostri compaesani presenti nel film nella veste di comparsa, il quale ci ha lasciati qualche tempo fa. Un anziano signore dai tratti fisiognomici marcati, un vero e proprio vegliardo. L’unico, nel film, ad aver compreso senza pleonastici giri di parole la condizione del vecchio Siciliano medio (dirà in una scena «Siciliani, accussì è, su vi piaci»), tuonando nel silenzio generale di una piazza che già appare fantasmatica. Anche lui andrà via, realmente, portandosi dietro un pezzo di quell’Agira che fu, e che oramai appare sempre più un surrogato, peraltro scadente e arrangiato, di realtà cittadine a noi aliene. E il processo appare irreversibile: l’Agirino, e il Siciliano in generale, non sarà più diverso da nessuno. Né migliore né peggiore (il che gli conferirebbe comunque una certa esclusività). Uguale, terribilmente uguale al resto del mondo, perfettamente allineato e coperto. Del resto, si sa, l’uguaglianza non è mai stata un valore.

Gabriele Santoro

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BUONO A CHI? (Su “Anime Nere” di Munzi)

Fratello silenzio. L’unico vero alleato in un periodo di frastuono bellico. L’unico antidoto a questa terribile e pandemica fobia dell’anonimato in un’epoca che sembra poter dare, molto pericolosamente, voce a tutti. A troppi, verrebbe da dire. L’unica testimonianza di fede in un mondo che comunque ci accoglie, ma che sembra confonderci. L’unico strumento di fine intelligenza, per chi sappia coglierlo, apprezzarlo, ascoltarlo. E tale indirizzo di mutangherìa abbiamo perseguito ormai da tempo in tale sede. Ci si accorge ogni giorno di più che il sovraccarico di informazioni, ipertroficamente e convulsamente scaraventateci addosso, creano un inflazionatissimo cortocircuito intellettuale per il quale sensatezza e stupidità mediatiche vengono livellate e poste con egual considerazione in uno stesso calderone. Ecco allora che ciò che qui scriviamo, seppur senza vincoli ideologici e con liberi spunti culturali, ha esattamente lo stesso valore mediatico e informativo di una qualunque esternazione o di qualsivoglia pensiero immolato al sacro altare dei social networks (si scrive così?). Il silenzio, dicevamo. L’unico modo per sentirsi narcisisticamente più ‘sperti degli altri. Affiancato al minimalismo, aggiungiamo. Orientamento esistenziale da sempre seguito dagli ‘sperti di cui sopra. E in un salvifico piano di silenziosa meditazione che ha pervaso da tempo il nostro sito, inseriamo quest’oggi una parentesi di cervellotico blateramento, ma a buon fine. Perché desideriamo parlare di un eccezionale film del 2014. Per la regia del buon Ciccio Munzi, Anime Nere.

Film italiano, italianissimo. Epico ma intimo, a metà tra un’opera declamatoria e una appena sussurrante. Radicato in una dimensione claustrofobicamente regionale (se non addirittura provinciale) ma ispiratosi a categorie drammaturgiche universali. Anime Nere ci restituisce un cinema che non vedevamo da tempo, rinnovando il noir in funzione ipertragica, non dimentico tuttavia della magnifica e recente lezione di Garrone (parliamo naturalmente del Garrone più rivolto all’onirico, come in Reality). Si badi bene: in Anime Nere non vi è nulla di surreale o surrealistico, ma ciò che balza agli occhi è un’impostazione narrativa contaminata nelle sue sostanziali componenti, divenendo continuamente altro da sé. Esteticamente, drammaturgicamente parlando.

Stiamo parlando del miglior film italiano degli ultimi tempi probabilmente (e il cinema italiano, ormai da un paio di anni, ci sta viziando con del cinema di qualità che non sempre viene lodato a sufficienza: Educazione Siberiana, Il capitale umano, Non essere cattivo, Il racconto dei racconti, Veloce come il vento). Se ad inizio nuovo millennio si poteva parlare di uno spartiacque cinematografico rappresentato dal capolavoro di Sorrentino L’uomo in più, adesso si può già parlare di un prima e un dopo Anime Nere. Il film narra le vicende di una famiglia malavitosa proveniente dalla Calabria implicata nei loschi affari edilizi del Nord Italia e nel traffico di stupefacenti. Collaterali vicende svoltesi nella terra natia portano alcuni membri della famiglia a tornare al Sud, innescando una spirale di sangue e violenza. Fin qui niente di nuovo. Una trama trita e ritrita di coppoliana memoria che vede protagonista una famiglia alle prese con i “doveri” e i necessari adempimenti della cupola. Ma il finale del film, esclusivo nella sua potenza tragica, irrompe terribilmente. Uno dei tre fratelli decide, dopo la morte di alcuni cari, di porre rimedio al terribile andazzo in maniera estrema, recidendo ogni legame familiare e uccidendo il resto della sua famiglia.

Esistono a nostro avviso due tipologie di film. Quelli che consegnano una chiave interpretativa, di qualunque levatura intellettuale e culturale si tratti, che pertiene comunque ad un ambito strettamente filmico; e quelli, poi, che sembrano trascendere il limite della semplice pellicola da consumare in una saletta cinematografica e che, impregnandosi di letterarietà, colti modelli e visioni ampie, sia a livello antropologico che ontologico, entrano a pieno diritto nel novero dei capolavori (non limitato al solo ambito della Settima Arte). Anime Nere appartiene di certo a quest’ultima categoria, palesatasi in realtà negli ultimi minuti del film, quando da una semplice storia di regolamenti di conti tra gente dai costumi non del tutto irreprensibili si passa ad una liricissima uscita di scena del protagonista assoluto, sino a quel momento, invece, semplice comprimario. E l’eroe tragico, approdato alla cosiddetta anagnorisis (‘riconoscimento’ e ‘presa di coscienza intellettuale’), alla maniera edipica, nella più sconcertante solitudine, decide tuttavia, diversamente dal riferimento drammatico di Sofocle, di agire con raziocinio, seppur con le lacrime agli occhi. È un genio a invadere la mente del nostro protagonista, quasi di matrice divina (emblematica a tal riguardo la sequenza in cui l’uomo beve una soluzione di acqua, medicinali e polvere raccolta da un simulacro, a testimonianza della sua strenua pietas). Una ferrea logica del calcolo. La computazione delle nefaste conseguenze per la famiglia, qualora tutti rimanessero in vita, supera di certo ogni sentimento di affetto e legame fraterno. Il Male, geneticamente insito nel seme familiare, va estirpato sin dalle sue radici. Nessuna ingombrante pietà, nessun compromesso. Solo ciò che è necessario. E applicando un ulteriore raffronto con l’universo tragico della Grecia del V secolo, il protagonista finale si palesa nella doppia veste di eroe (di certo non antieroe o antagonista) e di organon risolutore, di deus ex machina. L’inettitudine che delle volte attanaglia gli eroi tragici, capaci di agire, quando riescono a farlo, solo sulla propria persona, stringendo il campo di focalizzazione, persino in maniera claustrofobica, su un solo individuo, in questo film diviene titanismo. Un film audace insomma, apparentemente bruto, di sicuro non politicamente corretto.

Abbiamo visto come Anime Nere rappresenti un solenne incontro tra realismo narrativo e romanzata convenzione drammaturgica. Tale commistione è funzionale ad accattivare un pubblico più vasto (?), ma la finalità ultima è di sicuro quella di creare un genere novello. Perché, seppur ancorato alla tradizione e calato interamente in una realtà storica, risulta infine un fiume in piena. Capace insomma di parlare dell’uomo prima ancora che del determinato ambito in cui le vicende si svolgono. Eppure riscontriamo una critica feroce al sistema imprenditoriale del Nord Italia, che non subisce, come si potrebbe pensare a primo acchito, la criminalità organizzata del Sud, ma la strumentalizza e la custodisce gelosamente. Appalti truccati e speculazioni edilizie a servizio di quello che sarà uno degli eventi più smargiassi e magniloquenti della recente storia italiana: l’Expo. E l’invettiva si materializza nell’unico modo possibile al fine di non renderla stucchevole: accennandola appena. Una critica formale insomma, senza altri blateramenti, derivante dalla presentazione oggettiva dei soli fatti in cui lo spettatore coglie lo scatologico marciume. Una denuncia peraltro ante litteram che precede ogni successiva indagine intrapresa sui loschi affari edilizi degli ultimi anni. Ante Mose, per esempio, con tangenti e finanziamenti illeciti ad esso annessi. Munzi insomma mischia le carte, guardando alla cronaca, per poi accantonarla e raccontare la storia di una famiglia. Con una visione a tratti deterministica, quasi zoliana. Perché il sangue sembra non mentire mai di fronte alle proprie origini, e se Milano rappresenta una sicura via di fuga per i due fratelli emigrati al Nord, il fratello rimasto in Calabria riceve pressioni insostenibili e, seppur evaso sin da piccolo dal mondo del delinquere, vi si ritrova catapultato a causa del figlio. Genetica predisposizione, innata tendenza, esposizione alla morte. Ecco giustificato il suo estremo gesto.

Nel mondo della post-globalizzazione (in cui tale fenomeno sembra aver raggiunto uniformemente ogni angolo dell’Occidente, dal paesino di mille anime sino alla grande città, non permettendo l’esistenza di alcuna “biodiversità sociale”), Anime Nere rappresenta un unicum antropologico, prima ancora che estetico. Un ultimissimo sguardo rivolto ad un mondo che non esiste più, che persino nell’ambito della criminalità organizzata ha strenuamente resistito ma che ha dovuto fare i conti con l’inevitabile inghiottimento da parte di altre forme di potere. Un nucleo così apparentemente incontaminabile come quello del crimine organizzato fagocitato da una particolarissima forma di progresso. Onnipresente, quest’ultimo. Terribilmente onnipotente. Chi rimane incorrotto nell’opera di Munzi è colui il quale è più spietato, colui il quale si presenta ancora allo stato grezzo, non lavorato. Seppur nell’asfissiante mondo della ‘ndrangheta, possiamo comunque segnare una netta linea di demarcazione tra un coerenza morale incarnata dal fratello più gagliardo e spregiudicato (interpretato da un grandissimo e rivitalizzato Marco Leonardi) e un tradimento genetico di fondo perseguito dal fratello emigrato fissamente al Nord (interpretato invece da un misuratissimo Peppino Mazzotta). La famiglia, strettamente ancorata al suo fondale più congeniale, vale a dire la terra natia, sembra sprofondare nelle sabbie mobili di un mondo paradossalmente più grande di lei (al peggio non c’è mai fine!), nelle paludi nordiche. Come un’azalea sradicata e impossibilitata a germogliare in un terreno non suo. E la risposta a tale inadeguatezza intrinseca non può che essere l’atto di forza di cui sopra. Esercitato contro il mondo, contro l’insistere del tempo e la sua dittatura, contro il proprio sangue. Che non mente mai, come dicevamo. Prendiamo infatti in considerazione, per concludere, una ricerca di Paolo Martino sull’etimologia del termine ‘ndrangheta. Secondo lo studioso deriverebbe dal greco ἀνδραγαθἰα (andragatìa), indicante la personalità dell’uomo valoroso. Acquisendo col tempo un’accezione sempre più sinistra e ferina dell’ambito semantico del valore, la radice del termine è passata a identificare un corrispettivo verbo: ‘ndragarsi, vale a dire infuriare. E il protagonista finale, il deus ex machina dell’intreccio, il fratello “buono” insomma, assume entrambe le sfumature etimologiche del termine preso in esame. Egli è un galantuomo, è un uomo d’onore (nella sfumatura benigna del sintagma), un onesto lavoratore ma anche una polveriera pronta ad innescare il peggio, un represso, un pericoloso e mai testato assassino. Argomento usuale nel cinema, quello della latenza dell’ira e le sue conseguenze. Da Gli spietati sino a A history of violence. Ma questa volta l’esperienza filmica ci coinvolge personalmente. Perché è una realtà molto più prossima, che ci appare, seppur parossisticamente stirata al limite del reale, più verosimile del previsto.

Questo è Anime Nere. Una magnifica replica, e meno pericolosamente pretenziosa, al cinema iperrealistico (riduciamo la questione ad un solo, esilissimo e ridicolo aggettivo, come osano fare i più grandi critici!) di Iñarritu. Una replica inoltre a quella parte di cinema italiano (soprattutto rappresentato dalla commedia, genere, tra tutti, maggiormente dipartito) che crede di intrattenere il pubblico facendolo tuttavia riflettere sulla condizione di noi italiani medi e… bla bla bla. Tra un chiacchiericcio e l’altro, tra sproloqui cinematografici di ogni genere e registici deliri di onnipotenza, c’è chi, come Munzi, preferisce parlare di morale, ancor prima che di sciatta e miserrima etica. Senza sbraitare, nel più feroce silenzio.

 

P.S. Il film è tratto da un romanzo. La questione letteraria, tuttavia, non deve pertenere all’ambito di una recensione cinematografica.

Gabriele Santoro

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UNA FORMALITA’ PURA (su “The Revenant” di Iñàrritu)

Al rogo Slanislavskij! Il metodo, con le sue radicali degenerazioni formali e performative, ha lasciato strascichi pesanti nel mondo del cinema. Roboante, per carità. Scenicamente impattante. Mediaticamente risonante. Ma funzionale, a volte, come la ricotta sul sugo di pomodoro fresco. Può senz’altro rendere più gradevole il sapore, ma nasconde quello reale. E allo stesso modo questo metodo risulta il più delle volte un tappabuchi, un rimedio temporaneo affinché un’interpretazione risulti più ammiccante ma che non conferisce nessun valore aggiunto al talento recitativo. Che si ha o non si ha. E le cui lacune non possono essere mascherate da una comunque strenua disposizione d’animo al patimento corporale. Il metodo e le sue correlate esasperazioni non aggiungono nulla a quanto già possa dimostrare, di suo, un attore. Anzi, condiziona a volte negativamente l’esito del giudizio della critica quando la fase preliminare alle riprese, in cui l’attore lavora per calarsi totalmente nella parte, viene sbandierata mediaticamente così da farne carne da macello. Pensate che importi a qualcuno che un attore soffra realmente le pene dell’inferno, che si arrechi volontariamente e appositamente alcuni traumi per apparire più credibile? Risulta anzi fin troppo facile interpretare il ruolo di un rinoceronte se lo si è già per natura. È da professionista, invece, sapersi travestire da rinoceronte, in modo verosimile. Anche il mondo attoriale ha dunque subìto una lenta metamorfosi, seguendo una direttrice di semplificazione artistica spacciata per pratica autorale. E la baraonda mediatica causata dal trapelamento, per così dire, di aneddoti riguardanti le riprese di The Revenant, il film di oggi, non hanno sicuramente giovato ad una certa imparzialità di giudizio. Indulgenza pietistica e commiserante o detrazione incondizionata hanno dominato tutte le recensioni relative a quest’ultima fatica di Iñàrritu, dicendo tutto e niente. Cercheremo allora di dire la nostra attraverso considerazioni epurate totalmente da ogni forma pregiudiziale, sia essa concernente la trama, sia essa relativa all’interpretazione di Di Caprio. Per quanto ci riguarda, quest’ultimo avrebbe pure potuto godere di migliori o peggiori condizioni; avrebbe potuto essere sottoposto a restrizioni alimentari o meno; avrebbe potuto recitare negli Studios hollywoodiani o tra i ghiacci. Ma a noi non importa di questi atteggiamenti marchettari ed erotici atti a sovraeccitare lo spettatore o più semplicemente vendere un prodotto. Per quanto ci riguarda, al suo posto avremmo potuto vedere pure l’umilissimo Sandro Ghiani. Impassibili, giudicheremo esclusivamente il film.

Western, dai toni tragici, lirici, documentaristici, sadomasochistici, onirici. Che guarda ad Herzog, a Gibson, a Costner, e che sbircia Cronenberg e Mallick. Ma che risulta, molto semplicemente, iñarritiano. Un’opera ancora una volta personalissima di un regista che, novello Faust, sembra aver contratto un patto col diavolo così da poter acquisire un’abilità registica unica nella storia del cinema. Almeno nel suo genere. Uno stile che sembra cogliere solo il meglio delle possibilità che la nuova era digitalocratica propone. Molto kubrickiano, in tal senso. E questo film non si esime dal presentare una messinscena limata sino a qualche tacca prima del nauseabondo, ricca ma non opulenta. Si rivedono pratiche ormai da tempo bandite nel cinema di oggi, fin troppo colpito dalla barberie di montaggi che il più delle volte rendono qualunque film un frenetico spezzatino: in primis, per esempio, la panoramica, sfruttata non per le riprese dei meravigliosi paesaggi (per quelli vi sono inquadrature fisse) ma per i campi e controcampi, e che ha la stimolante funzione di conferire maggiore tensione alla macchina attoriale e di conseguenza allo spettatore che gode della visione; poi, naturalmente, i lunghi e soliti piani-sequenza. A proposito di questi ultimi, parleremo dell’aspetto che più ci ha colpito di The Revenant, che lo rende, probabilmente, un’opera somma per levatura estetica. In Birdman, capolavoro assoluto dello stesso regista, i piani-sequenza creavano un’abnorme pretesa di realistico, corroborata peraltro dalle tematiche teatrali, oltre che cinematografiche. Il continuo inseguimento da parte della camera nei confronti dei personaggi rendeva tutto terribilmente verosimile, sfiorando più volte il reale. In tal senso, si rischiava di far saltare tutti i meccanismi finzionali e rappresentativi, rinnegando l’essenza stessa di “arte” e sfociando in altri inavvicinabili domini che al cinema non devono pertenere. Ma il grande Iñàrritu comprendeva il rischio e disilludeva subito uno spettatore ormai troppo coinvolto nelle dinamiche ravvicinate e maledettamente realistiche. E lo faceva con un artificio tecnico quale quello del superamento di campo della macchina da presa (l’inquadratura scavalca l’ideale linea di unione tra campo e controcampo) davanti ad uno specchio. Lo spettatore, attendendo invano di vedere l’operatore con la camera allo specchio (ipotesi disattesa da un ”ritocco” digitale), viene finalmente rispedito al cinema, con la consapevolezza di vedere semplicemente un film. Rimarcando peraltro il ruolo del regista, considerato come un semplice rappresentatore, adesso detronizzato e privato di quell’aura di arte che sembrava possedere. Allo stesso modo, in The Revenant, il regista segna un solco profondo tra realtà, finzione e rappresentazione. Sin dall’inizio assistiamo a veri lapsi visivi che ci fanno avvertire la grave presenza del medium (la macchina), vale a dire: aberrazioni cromatiche (Iñàrritu riprende spesso in luce, rivolto verso il sole per esempio, violando le norme della grammatica cinematografica e creando quelle fastidiose rifrazioni che si protraggono per tutta l’inquadratura); macchie sulle lenti della camera, siano esse apportate dalla neve o dal sangue dei protagonisti, ma che permangono a lungo per via degli estenuanti piani-sequenza; per non parlare, poi, degli aloni arrecati dal respiro del protagonista, che in una scena conduce addirittura al totale appannamento. E il regista sembra pure giocarci su, giostrando con abilità colori, vapori, nebbie e fumi. Questa volta, però, il movente di questi lapsi è diverso, addirittura opposto. Non si vuole realizzare un film depositandolo in un limbo che non sia né totale finzione, né indubbia realtà (come in Birdman), ma si vuole, sfruttando una tecnica molto elementare, portare lo spettatore a credere nella rappresentazione ma non nella realtà rappresentata. In parole povere: si sa che è un film, perché si nota continuamente la macchina, e di conseguenza si può arrivare a credere che il protagonista possa salvarsi prima di fronte alla furia di un orso e poi dopo essere caduto da una rupe scoscesa. L’improbabile diventa verosimile perché (solo) la sua rappresentazione lo è.

Il noto, in quanto noto, non è mai conosciuto”, diceva qualcuno. Per questo, analizzando il film dal punto di vista tematico, non ci accodiamo a coloro i quali considerano la trama del film la solita storia, trita e ritrita. Noi siamo del parere che non si debba mai smettere di parlare dell’impatto apocalittico che la colonizzazione europea abbia avuto in America ai danni dei nativi; di cui, nel mondo, non si commemora di certo la strage in un apposito “giorno della memoria”… E ammesso che il numero di film narranti questi episodi arrivi a cento, non abbiamo neppure un film ogni millesimo di indiano massacrato. Ci pare un tantino poco! Dunque, che ben venga The Revenant. Il quale, pur essendo una sorta di rifacimento di Uomo bianco va’ col tuo dio, riserva non poche originali sfumature. Innanzi tutto, è un film che potremmo definire provvidenzialistico. Tutto è inesorabilmente scritto. In uno scontro filosofico tra le categorie di necessario e possibile, la verità è solo una: l’uomo non può pensare di trovare la libertà nel luogo in cui regna sovrana l’incontrovertibile necessità, cioè nella natura. Essa è il luogo delle interminabili odissee, delle lotte per la sopravvivenza e della caccia, sia animale che umana. Anche l’uomo dunque, avvezzo ad abitare la natura, a dominarla, ma non a farne parte, ne rimane ripetutamente vittima. Ed ecco spiegate anche quelle apparentemente snervanti inquadrature di panorami mozzafiato. Non sono un mero sfogo di abilità fotografiche (o almeno non solo) ma fanno da contraltare a immagini invece mortifere e violente dell’amata-odiata natura. E tutto ciò non è che la trasposizione su macchina da presa della teoria del sublime di Kant: in sostanza, gli eventi naturali appaiono affascinanti solo se visti da lontano. Un terremoto, una valanga, un’eruzione vulcanica, un orso gigantesco sono spettacoli meravigliosi…ma solo se inavvicinabili. E la natura, in questo film, appare dunque sublime, non di certo bella. E anche quando risultasse utile e quasi rivitalizzante per l’uomo, sarebbe ripugnante (come in occasione dello sventramento del cavallo usato a mo’ di involucro, per uscirne rigenerato il giorno seguente). Lontano da ogni banale idealizzazione della natura, questo film ci riconsegna, alla maniera di Von Trier in Antichrist, l’immagine di un uomo senza una dimora nel mondo. Sia perché a metà tra due civiltà (la moglie è un’indiana), sia perché alla ricerca di un motivo valido per cui vivere (o per lo meno vegetare). Sia esso la vendetta, sia esso l’amore per la moglie, sia esso Dio. Altro leitmotiv, Quest’ultimo, di tutta la narrazione. Comune a bianchi e Indiani, depositari questi ultimi del Suo spirito vitale, ma Che anche un bianco come il protagonista riesce a pregare. Allora lo scontro non sembra essere tra civiltà o razze. È uno scontro, quello del film, esclusivamente tra timorati di Dio e non. Tra personaggi pii, violenti o meno che siano, e “selvaggi” bestemmiatori. Un ritorno allo scontro, atavico nel western, tra Bene e Male, manicheisticamente definito ma non razzialmente identificato. Una piccola rivoluzione nel genere, riprendendo il tema preleoniano della resistenza degli Indiani; ora popolo dannato, ora popolo prescelto quasi alla maniera ebraica. Ed ecco allora che il finale si macchia di sangue fratricida (ci si chiede ripetutamente chi siano i veri selvaggi nel film), ma dello scontro tra Indiani ed Europei…nemmeno l’ombra! Il vecchio, vecchissimo continente sembra aver cercato e trovato un nuovo luogo dove mettere in scena il solito teatrino dell’orrore, sfociato in violenza dissennata (il sangue versato dagli Indiani risponde invece ad una dinamica ritualistica, quasi sacra). E la ricerca di Dio finisce, a nostro personale avviso, nella meravigliosa scena del sogno del protagonista. Gli appaiono la moglie e il figlio, quest’ultimo al centro di una chiesa ormai in macerie. Sogno che rivela la necessità di ritrovare i cari barbaramente uccisi nel nome di Gesù. Ma la ricerca è vana, perché, molto pessimisticamente, la neonata America sembra aver dimenticato Dio (ammesso che l’abbia mai conosciuto) e mandato in frantumi la Chiesa, sepolta tra il mercato delle pelli e le ignobili pugnalate alle spalle.

Esercizio di stile, quest’opera. Non una pura formalità, ma una formalità pura. Un’estetica di puro cinema che si ripercuote come non mai sulla fruizione, la ricezione, la riproduzione e le tematiche dello stesso film. Con una colonna sonora, affidata a Sakamoto, che risulta a sprazzi volutamente irritante e per questo stimolante, e un finale che è una magra consolazione. A proposito: se da un lato infatti il film apre ad un contatto fraterno tra civiltà che sono molto più vicine, per comune destino, di quanto non diano apparentemente a vedere, dall’altro frastorna all’idea che la vendetta possa appagare il protagonista solo temporaneamente. E che, anzi, possa rimanere totalmente solo questa volta, senza neppure lo spirito della moglie, che sembra tragicamente allontanarsi. E allora ecco il genio assoluto di Iñàrritu, che rompe ancora una volta la quarta parete, definitivamente, facendo interagire il protagonista direttamente col pubblico. Ma il lapsus, questa volta, ha uno scopo di identificazione dello spettatore nel personaggio. La solitudine di quel disgraziato non si riduce di certo. Viene invece condivisa. Siamo tutti soli, siamo tutti senza Dio.

Gabriele Santoro

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