LA VERITA’ TI FA MALE! (su “Maps to the stars” di Cronenberg)

Agghiacciante. Credo che l’aggettivo che più a questo film si addice sia proprio questo. Raggelante in un finale che sembra principio di nulla, apocalisse di tutto. Niente spazio per misericordiosi giudizi divini ed eventualità di approdi in regni lontani e salvifici. Dio, stando alle suggestioni finali del film, sembra aver invertito la rotta, aggiustando e revisionando coscienziosamente i suoi piani. L’uomo ha perso la sua bussola, sembra navigare a vista alle volte di un illusorio ed effimero successo professionale. Dunque punibile; come non crede più di essere, per intenderci, dai tempi dell’Antico Testamento. Perché Maps to the stars di David Cronenberg, il film di cui stiamo parlando, rimanda sicuramente ad una visione dei rapporti umani, seppur atroce, comunque provvidenziale. Tutto sembra quadrare, nulla è lasciato al caso e ogni cosa va come è normale, viste le premesse, che vada: alla deriva. Tutto “scientificamente” spiegato, ma inspiegabilmente ancora più ambiguo. Perché stupisce il modo in cui i protagonisti approdano alla disfatta esistenziale. Tutti a prostituirsi non più alla ricompensa economica dei trenta denari ma al mero compiacimento per ogni forma di tradimento messa in atto. Sadici, i protagonisti del film. Di un sadismo (torniamo all’aggettivo iniziale) agghiacciante.

Maps to the stars è il capolavoro assoluto di Cronenberg. È la summa stilistica, artistica e contenutistica del suo cinema. Nulla di nuovo nel soggetto, sia chiaro. È la banale storia di sei personaggi che si destreggiano tra i meandri di una Hollywood ostentatrice, materialista e ossessiva: un autista amorfo e arrivista; un’attrice fallita affetta da complesso di inferiorità nei confronti della madre defunta, grande attrice del passato; una famigliola composta da un padre fisioterapista, una moglie agente di spettacolo del figlioletto, a sua volta attore scapestrato e già tremendamente vissuto; infine una ragazza, appartenente anche lei alla suddetta famiglia, uscita da un ospedale psichiatrico dove era stata condotta da bambina dopo aver appiccato il fuoco in casa (per il quale evento rimase sfigurata). Il film sembra essere una trasposizione post-moderna di Inseparabili, altro meraviglioso e struggente film del regista canadese, con protagonista l’immenso Jeremy Irons. Le analogie sono molte: dal tema dei fratelli indissolubilmente legati da un destino comune, anche se apparentemente tanto lontano, alla presenza dell’elemento sessuale visto come ossessione da esorcizzare o assecondare (filo conduttore anche, e soprattutto, di un altro film di Cronenberg, Crash), fino al tema dell’estrema paura non tanto di invecchiare, quanto più di invecchiare con evidenti ma inevitabili segni dell’età (una sorta di morboso terrore della mutazione – tema sempre centrale in Cronenberg – , questa volta biologica). Ma se in Inseparabili il finale crea sconforto e, perché no, commozione, in Maps non c’è spazio per le lacrime. Fratello e sorella si accasciano senza simboleggiare La Pietà di Michelangelo, come avviene per i due gemelli interpretati da Irons. Filo conduttore provvidenziale, si diceva, ma questa volta Dio non si mostra. Non c’è affatto alcuna forma di compassione o pietà ostentate dal pur sempre ateo (?) Cronenberg. Si ripropone il tema dell’irrimediabilità del danno, frequente nel suo cinema, da Rabid a Pasto nudo, da Videodrome a A history of violence, da La promessa dell’assassino a Spider, fino a Cosmopolis. Come i protagonisti di tutti questi film anche ora vi è un peccato originale incontrovertibilmente traviante e irredimibile. E la suggestione principale è rappresentata dal fatto che questa colpa primordiale risale ai genitori dei due protagonisti, in realtà inconsapevoli, prima di sposarsi, di essere fratello e sorella. Si può dunque leggere un riferimento esplicito alle vicende di Edipo, macchiatosi di patricidio e incesto, le cui terribili colpe ricadono sui figli, impegnati a scannarsi vicendevolmente per tutta la vita (si tratta di Eteocle e Polinice, protagonisti della tragedia di Eschilo I sette contro Tebe). Ma i due figli protagonisti del film sommano ad una tendenza omicida innata (la sorella piromane aveva da piccola tentato di uccidere il fratellino e quest’ultimo, precoce star di Hollywood, manifesta di continuo una voglia repressa di uccidere) un amore incondizionato, quasi carnale, incestuoso per retaggio parentale. Ma ciò che più spiazza della trama del film è l’inspiegabile turba psichica della ragazza. Perché ella si giustifica per aver dato fuoco alla casa da bambina indicando la sua colpa come una giusta vendetta nei confronti dei genitori, rei di essere, come detto, fratelli di sangue. Da qui un atroce ritratto, realizzato da Cronenberg, della società contemporanea, vittima, inconsciamente, di vecchi ma ormai radicati retaggi “psicanalitici”, attribuendo colpe e delitti a individui in (più o meno) buona fede e dando necessariamente e freudianamente (ahi noi!) una motivazione logica a tutto ciò che appaia già un tantino umano. C’è poi chi potrebbe dare una lettura “deterministica” alle vicende narrate nel film, motivando cioè le azioni e le reazioni dei due giovani protagonisti con l’alto rischio genetico e biologico che l’accoppiamento tra due consanguinei può portare con sé. Ma questo aspetto pertiene più ad un’aderenza tematica al “solito” cinema del regista che ad un orientamento darwiniano di fondo. Ci riferiamo alle mutazioni, come detto, alle spiazzanti ed ossessive metamorfosi, alle anomalie, fisiologiche, genetiche, etiche. Ecco allora riproporsi il tanto discusso tema cronenberghiano del rapporto conflittuale tra scienza e uomo, tra medicina e uomo. Tra uomo e natura, in ultima istanza. Sì perché la consueta buona fede insita in ogni protagonista dei suoi film si schianta con la “coleridgiana” incapacità di travalicare i limiti che la Natura ci impone, di trascendere la condizione umana. In Rabid per esempio, il buono del film è il dottore, impegnato nel tentativo di migliorare la qualità della vita di persone sfigurate da incidenti, attraverso la chirurgia plastica. Il cattivo, ragionando in termini fumettistici, è, invece… sempre lui! Perché artefice, seppur involontariamente, di una violazione evidente del “codice naturale”, avendo creato un siero sì rigenerante ma accidentalmente capace di trasformare in mostri. In Maps to the stars si nota invece l’inclinazione ad un’anomalia etica, l’inusuale matrimonio cioè tra fratelli e il cortocircuito psichico che esso sembra provocare. Ma il denominatore comune è sempre quello: tutti, proprio tutti i protagonisti della filmografia di Cronenberg si riscoprono artefici e/o vittime di una controtendenza, di uno scardinamento sociale, di un cambiamento. E per questo, nonostante tutto, incorrono sempre in una morte più o meno purificatrice. Tuttavia l’elemento che fa da collante tra le varie vicende di questo film è il fuoco. Fuoco che brucia ma non rigenera o purifica affatto. Immagine che, secondo la tradizione biblica, si contrappone a quella dell’acqua, richiamo ad una rinascita catartica (i sogni di Noè nell’ultimo film di Aronofsky ne sono un esempio).

Dunque gli episodi di questo film vanno ben oltre la semplice espiazione attraverso la morte (eXistenZ o Cosmopolis) o, nei peggiori dei casi, attraverso l’apocalisse (Rabid sempre) o il terribile peso di restare in vita (A history of violence o Spider): qui si parla dell’uomo spogliato di ogni sovrastruttura che il cinema troppo buonista non ci presenta mai; si parla dell’umanità nuda, capace di liberare ogni sorta di immediato e selvaggio approccio alle relazioni umane; e non si parla solamente (si badi bene!) di istinti ferini, ma di disarmanti calcoli razionali; si parla di cattiveria allo stato non lavorato, grezza, ma comunque ragionata. A tal proposito la scena più emblematica è quella nella quale un’attrice fuori giri, arrivista, bugiarda e superba, interpretata da Julianne Moore (piccola annotazione: interpretazione da Regno dei Cieli!), si esibisce in un tifo da stadio dopo essere venuta a conoscenza che è entrata nel cast di un film dopo che la sua rivale professionale ha dovuto dare forfait a causa della morte del figlioletto. Chi non ha mai esultato per le sventure altrui, scagli la prima pietra! Imbarazzante insomma lo scarto tra un Cronenberg e un registucolo qualunque alla Robert Redford, il quale si accontenta dell’etichetta del “politicamente corretto”, dello scontato, dell’irreale al fine di non mostrare ciò che potrebbe risultare fastidioso, scandaloso, provocatorio, “troppo reale per essere vero”. E chi ha visto questa scena avrà almeno una volta indirizzato a se stesso la domanda “Sarò forse anch’io così?”, scongiurandone subito l’eventualità, gettando nell’oblio quella dannata e troppo martellante visione. Dimenticare tuttavia questa scena sarà difficile, perché Cronenberg utilizza tutto ciò che il suo mestiere gli concede al fine di renderla unica: tralasciando la messinscena (da sempre perfetta in Cronenberg e unica nel riuscito tentativo di bilanciare temi caldissimi ad una regia fredda e non troppo “americana”), è da brividi, tornando al tema del “glaciale”, la musica che fa da sottofondo alla scena. Premettendo che non si può negare una certa componente orrorifica in ogni film di Cronenberg, anche in quelli dichiaratamente noir (La promessa dell’assassino), qui questa tendenza è espressa (oltre che dalle continue visioni fantasmatiche e mortifere del ragazzino e del personaggio della Moore) da una base inquietante, tremendamente tuonante, che fa da magnifico e straniante contraltare al canto gioioso della donna. Due musiche polari e antitetiche insomma, quella diegetica e quella extradiegetica, che attivano un meccanismo nello spettatore di vergognoso spaesamento, che sa molto, come detto, di rispecchiamento comportamentale (seppur tacito), di una parte di personalità latente in ognuno di noi, da nascondere e mai ammettere di avere. E ancora. Cronenberg vuole farci sentire talmente tanto parte di quella “danzante e galleggiante merda del mondo” che ci offre un altro assist: chi non ha provato ribrezzo allorquando l’avvenente e aitante giovane autista, interpretato dall’inespressivo Pattinson, si approccia sessualmente con la ragazza sfigurata, anche se per secondi fini? O chi non ha goduto personalmente del rapporto sessuale dello stesso Pattinson con la sensuale Julianne Moore? Ma non c’è da allarmarsi troppo, perché nolente o volente l’uomo è questo, frutto di un inesauribile quanto palliativo tentativo di omettere certe tendenze sinistre in noi insite. Ma basta ammetterlo, onestà intellettuale! L’anima, la sua cura, l’inattendibilità della bellezza esteriore e la priorità della parola sul tutto il resto: balle! Retaggi solo retorici di un Occidente troppo Occidentale già da qualche secolo. Una critica al west sbraitata dal west per eccellenza, quello dell’America tronfia e piena di sé, dei “pionieri di Hollywood”, degli Oscar barattati in cambio di proseliti americanistoidi, della fame di fama. Quella dell’industria cinematografica che dietro apparenze solidali cela un mondo balordo e meschino, fatto di ghigni concorrenziali e sgambetti scorretti. Stando così le cose, sfuma ogni piacere nella visione di un film, perché, dopo Maps to the stars, sembrerebbe quasi che ogni produzione sia afflitta da sotterfugi e scalate di siffatto genere. Questo è il cinema, il vero cinema. Mai realmente arte, a livello realizzativo; ma soprattutto gioco di ombre, “dietro le quinte”.

A volte le parole sono vane per tipi come Cronenberg. Ma parlarne, soprattutto dal pulpito di un cinema di paese, fa sempre bene. Evidenziandone genio, valenza artistica, levatura culturale. Anche solo liquidando Maps to the stars come il film dell’anno. Perché lo è, persino a livello tecnico, con trovate congeniali alla causa: primi piani con grandangoli appositamente diffusi (presenti soprattutto nel suo cinema di inizio millennio – eXistenZ, Spider, Cosmopolis) ma non esasperati (alla Joel Schumacher per intenderci); fotografia “plastica”, lucida ma perfetta, molto simile al suo film precedente, che vede nel direttore Peter Suschitzky (ormai storico collaboratore di Cronenberg) uno degli artisti più eminenti nel campo, con la sua capacità di gestire, (r)innovare e rivoluzionare le luci come nessuno al mondo; infine la solita messinscena, quella che farebbe pensare al regista canadese già a due miglia di distanza (anche se sono presenti più carrellate e la regia risulta un tantino meno fredda del solito). Film viscerale, sviscerante, come tutti gli altri di questo genio assoluto, che, insieme a Linch, anche se in modo diverso, ci propone una forma di cinema che agisce sull’inconscio e lì sedimenta, giorno dopo giorno. Tragedia greca post-moderna, “film teatrale” dai toni apocalittici, ilarotragodìa un po’ noir, satira pungente. Tutto questo è Maps to the stars, che fa di David Cronenberg un kamikaze (più che un terrorista come Fulci) dei generi, miscelandoli e confondendoli; capace, buttandosi a capofitto, di scardinare la concezione di cinema dal suo interno, parlando di esso, destabilizzandolo, annichilendolo, decratandone solennemente, di fatto, la fine. Non più “metacinema”. Spazio all’“anticinema”!

Ps: ringrazio Salvo, il quale, con la sua instancabile (contro)informazione cinematografica tra le più giovani generazioni, ci ha fatto conoscere il più grande regista vivente. Con la speranza che, adesso che sappiamo chi sia, Cronenberg possa consegnarci ancora altri capolavori.

Gabriele Santoro

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L’ULTIMA TENTAZIONE DI QUENTIN (su “Grindhouse” di Tarantino)

Peggiu dell’irricanuscenza c’è sulu ‘a ‘ppatenza” – Cultura popolare

Sembrano non sbagliare mai gli antichi. Manco la fame è così lacerante come l’ingratitudine. Perché per quanto qualcosa sia realizzata gratuitamente vale pur sempre la formula del “buon rendere”. Ma il cinema e la sua storia più o meno recente non possono rivendicare da sé, nei confronti di registi e produttori, una qualche riconoscenza. È obbligo morale di chi il cinema lo ha portato avanti per anni come fortunata professione sottoporre alla nostra attenzione una parte di storia che non c’è più. Non tanto impedendo che il progresso inarrestabile e già sceneggiato abbia compimento, quanto più prendendone coscientemente e pubblicamente atto e focalizzando su di esso maggiore acume critico. Dire grazie, insomma, alla pellicola. Nulla di scontato in tutto ciò! Perché in un mondo ormai senza storia recente, appiattito non nel presente ma in una continua rincorsa alle volte di un irraggiungibile futuro (Cronenberg docet in Cosmopolis), tutti ci abituiamo a svolte più o meno epocali come fossero banali cambi di stagione. E se nulla più ci sconvolge o impietosisce, la riconoscenza artistica di un maestro e autore contemporaneo come Quentin Tarantino, nei confronti del mondo che lo ha reso grande, vale il triplo di quanto dia a vedere. Si passa al digitale, e nel torpore letargico e assuefacente della latrina hollywoodiana sembra essersene accorto solo lui. Quanto analizzato in funzione “nostalgica” nel saggio che ha inaugurato la nostra rubrica Grandangolo (“Si scrive digitale e si legge capitale”) trova insomma un illustre portavoce e pioniere nell’industria cinematografica delle maxi produzioni, dello star-system imposto e degli Oscar barattati. Gratuito populismo mediatico, quello del regista? Può darsi, ma cosa importa! Ci interessa poco se Tarantino abbia concesso un’ultima dose di morfina ad un circuito in stato vegetativo e destinato ormai alla sepoltura quale quello delle pellicole e poi se ne sia lavato le mani senza il minimo scrupolo e con la coscienza a posto. Perché la gratitudine, quella sì che conta! Verso un mondo fatto di imperfezioni, di crepe, di sane e salvifiche aporie. E a questo rende omaggio il suo film del 2007, Grindhouse, A prova di morte. Prima che il mondo cioè venisse invaso da una pandemia di digitalizzazionite acuta, Tarantino ci consegnava un film magistrale e, paradossalmente, innovativo. È un omaggio a quel cinema anni ’60 appartenente alla cosiddetta serie b: film cioè a basso costo e con trame non impegnative (e Tarantino avrà modo di patrocinare e presentare una rassegna di b-movies italiani in occasione della 61ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia). E l’omaggio è evidente soprattutto negli espedienti tecnici adottati perché il riferimento a quel determinato cinema potesse rendere maggiormente: bruciature di sigarette, sgranature, fuori quadri, inquadrature sfocate e salti e tagli di pellicola. Il tutto, naturalmente, riproposto e ostentato continuamente, come mero gioco registico autoreferenziale forse, ma anche e soprattutto come preziosismo artistico che possiamo fare nostro in quanto rappresentazione di un universo rarefatto e ormai lontano e di una qualche componente di artigianalità e corporeità che la visione di un film ha ormai perso (tutto è HD). Una chicca insomma questo film. E non pensiamo mica che il buon Quentinone volesse ergersi a paladino delle ultime salette del mondo che non possono prescindere ancora oggi dall’impiego del supporto pellicola. Ma finisce, come detto, più o meno involontariamente, a incarnare l’immagine di un regista che, dopo aver scosso, destabilizzato e detto ormai tutto sull’epoca post-moderna del cinema, decretandone di fatto la fine, immola doverosamente la sua opera agli altari del (supporto) passato, quello buono, genuino della pellicola, forse perché unico, dai Lumiérès fino all’altro ieri.

E stilisticamente parlando, questo film non si fa mancare assolutamente nulla. La messinscena è perfetta e, con quel giocattolino tra le mani, Tarantino sembra decollare, pur rimanendo ancorato ad un certo classicismo. E ciò che gli permette di ottenere uno scarto a suo vantaggio nei confronti di registi ormai incauti come Nolan o Sorrentino è la capacità di bilanciare azione e stasi nelle riprese. Che questa sanità si sia parzialmente persa nel recente Django… quella è un’altra storia. Perché A prova di morte sa amalgamare benissimo carrelli evidenti a camere fisse, “action” a dialoghi cervellotici e prolissi (i quali, forse, hanno permesso che molti lo etichettassero, negligentemente, come il peggior film del regista). E Quentinone, da gran burlone qual è, sa divertire, ma soprattutto divertirsi. In questo film difatti si prende gioco di quei suoi fans affetti da “nerdismo acuto” da una parte, dall’altra di coloro i quali disprezzano incondizionatamente tutto quanto fuoriesca dal cinema hollywoodiano. In occasione dell’uscita del film, chi si aspettava molto sangue fu deluso. Lo fu pure chi desiderava una trama molto più congeniata. Piacque tanto alle donne, che videro nella pellicola il perfetto epilogo di quel cinema tarantiniano femministoide ad esse tributato (da Jackie Brown a Kill Bill), con protagoniste capaci di frenare il “macello di carni” del folle stuntman. È vero, il film è spudoratamente dalla parte delle donne e non vi è quell’”Aufhebung” finale che scavalchi la accademica divisione tra Bene e Male. Se in Kill Bill infatti l’uomo rivela alla fine la vera natura omicida di lei, la quale se ne rende conto ma non può non portare a termine la sua vendetta, in A prova di morte le donne che uccidono sono il Bene, lo stuntman è il Male, fine della storia (anche se è condannato un certo stile di vita femminile – delle prime protagoniste, che si “espongono” a tal punto da trovare la morte). Ma tutte queste sono chiacchiere da bar. Il film, come detto, non ha difatti alcuna pretesa, in quanto “b-movie”. Piuttosto nessuno parlò nel 2007 della valenza estetica, storica, artigianale del film. Perché il pubblico, vedendolo, correva subito dall’operatore in cabina lamentandosi della bassa qualità della pellicola. E Tarantino, per via di questa sorta di provocazione formale, avrà goduto parecchio, proponendo a tutti un modo di far cinema antipopolare, sfrontato e menefreghista. Infatti, agli albori della “primavera digitalizzante”, mentre il mondo si preparava all’evento 3D del secolo (Avatar, di qualche anno dopo), nessuno avrebbe mai potuto immaginare che vi fosse un regista al mondo così pazzo da realizzare un film appositamente “rovinato”. Se vi è dunque un testamento artistico di Tarantino, quello è A prova di morte, realizzato sì con apparecchiature altamente tecnologiche (nella seconda parte Tarantino fa infatti tutto ciò che gli frulla per la testa e che i mezzi gli consentono di fare, passando addirittura per un magnifico e “nitido” bianco e nero), ma utilizzate per ricostruire tecnicamente un mondo che quasi non esiste più. Un film che ci consegna un’incontrovertibile verità: non si può far cinema senza guardare come lo si è già fatto. Sia relativamente ai mezzi (il supporto pellicola) che per quanto riguarda il piano artistico e culturale (l’importanza dei classici, anche e soprattutto se al fine di rinnegarli), è necessaria dunque una conoscenza di fondo.

Quella che segue, in fondo alla pagina, è la scena più emblematica del film e in essa è racchiusa tutta l’idea di cinema tarantiniano. Un paio di minuti nei quali una delle protagoniste si esibisce in una lap-dance per “stuntman Mike“, magistralmente interpretato da Kurt Russell. Bene… questa scena è quello che gli Americani, a volte maldestramente, definiscono cult. E ha tutte le carte in regola per esserlo: una ragazza bellissima, di una bellezza non classica ma carnale e morbosa (anche la sua prorompente fisicità tutt’altro che comune al cinema e alla televisione lo dimostrano); un attore che non potrebbe che essere lui; una location caratteristica (un pub “on the road”); infine una musica straordinaria, la canzone Down in Mexico. È girata, naturalmente, come solo Tarantino sa fare: primissimi piani su dettagli, quali per esempio il piede di lei che incautamente si posa vicino al cavallo dei pantaloni di lui, il ginocchio al teso  torace o i due visi che si sfiorano, a testimonianza della forte e repressa tensione sessuale di tutta la sequenza; e poi quel carrello circolare, mai pacchiano e opportunamente inserito quando la canzone improvvisamente cambia ritmo così come cambiano le movenze di lei. Ma ciò che realmente attribuisce l’immortalità a questa scena è la fase finale, il passaggio alla scena successiva. Infatti quella della lap-dance è una scena fortissima per impatto visivo, tanto da non potervi trovare una degna conclusione. Ed ecco ergersi il genio di Tarantino, che cala l’asso e, inaspettatamente, al minuto 3:36 del video, “taglia la pellicola”, la fa saltare senza mostrare la fine della lap-dance, quasi come se mancassero parecchi fotogrammi, smorzando così le aspettative di tutti e riabbassando terribilmente il ritmo. Un lapsus del mezzo cinematografico diventa per la prima e ultima volta nella storia del cinema una voluta scelta stilistica e narrativa. Tarantino dunque, non di certo inconsapevolmente, conferisce all’imperfezione del supporto analogico della pellicola uno statuto artistico, che sa molto di addio, di eutanasia. E proprio questo espediente ci consente di intraprendere una riflessione teorica sul mondo della pellicola. L’analogico è costituito da un segnale che si definisce continuo, perché, anche interrompendosi per qualche attimo a causa della presenza di fotogrammi corrotti, esso passa ai fotogrammi successivi, consentendo la visione. Il digitale, invece, è costituito da componenti discrete (perché il film non è “impressionato” su alcuna pellicola) che non consentono la fruizione continua se non compromettendo intere scene o sequenze. Per semplificare in modo estremo: se un dvd si inceppa, lo possiamo gettare; se è un vhs (e soprattutto una pellicola) a danneggiarsi, si può rimediare tagliando quei determinati fotogrammi. Per non parlare poi dei guasti in cui incorre il segnale digitale, che spesso, come notiamo dai nostri televisori, non arriva per periodi più o meno lunghi.

Insomma, dietro una semplice scelta di montaggio e in un film che è stato considerato un flop, si cela tutto il mondo del cinema: quello della cabina dell’operatore, il quale ripara ancora pellicole usurate o spezzatesi per il troppo cumulo nelle bobine; quella della monosala di paese, che ancora può conoscere questa realtà incontaminata.

E rivedendo adesso questo film, sette anni dopo, mentre l’organigramma del tanto scongiurato “nuovo ordine digitale” si è costituito, fa ancora maggiore effetto. Forse solamente per noi, che il cinema lo amiamo, prima ancora che come strumento culturale (ebbene sì!), come luogo di una certa artigianalità, repressa all’ombra della piattaforma virtuale su banda larga. Perché “la cultura forse passa, ma le tradizioni devono rimanere”. L’omologazione ci è (stata) imposta da un’ondata di ammiccante progresso, il quale non è tuttavia modernità. Tutti a compiacerci dunque di fronte alla discretezza e alla conseguente interruzione del segnale digitale, a dispetto della “continuità analogica”. Perché il bello della pellicola, in fondo, è sempre stata la sua componente di esclusiva rimediabilità del supporto. Anche se corrotto, bruciato, imperfetto. Gagliarda per questo, la pellicola; metafora di tutto. Basta tagliare e ricucire. E si riparte.

 Gabriele Santoro

Fonte: UniversoTarantino

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SMETTO QUANDO VOGLIO

 

smetto

 

In Smetto quando voglio, Pietro Zinni ha trentasette anni, fa il ricercatore ed è un genio. Ma questo non è sufficiente. Arrivano i tagli all’università e viene licenziato. Cosa può fare per sopravvivere un nerd che nella vita ha sempre e solo studiato? L’idea è drammaticamente semplice: mettere insieme una banda criminale come non se ne sono mai viste. Recluta i migliori tra i suoi ex colleghi, che nonostante le competenze vivono ormai tutti ai margini della società, facendo chi il benzinaio, chi il lavapiatti, chi il giocatore di poker. Macroeconomia, Neurobiologia, Antropologia, Lettere Classiche e Archeologia si riveleranno perfette per scalare la piramide malavitosa.

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LA MOSSA DEL PINGUINO

 

LA MOSSA DEL PINGUINO

E’ il sogno olimpico di quattro uomini disagiati che scoprono per caso il gioco del curling e si convincono di poter partecipare alle Olimpiadi Invernali di Torino 2006 dove l’Italia, paese ospitante, avrà di diritto una squadra qualificata. S’ingegnano in allenamenti improbabili, trovano scappatoie alle regole, provocano gli avversari e finiscono per diventare campioni italiani, acquisendo così il diritto di partecipazione alle Olimpiadi. Per riuscirci dovranno però diventare uomini migliori. La loro è una storia di riscatto individuale e familiare, prima ancora che sociale.

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UN MATRIMONIO DA FAVOLA

 

UN MATRIMONIO DA FAVOLA

Cinque compagni di liceo, inseparabili a scuola, si ritrovano vent’anni dopo la maturità. Daniele (Ricky Memphis), l’unico ad aver fatto carriera, invita tutti al suo matrimonio a Zurigo con Barbara (Andrea Osvart), la figlia del noto banchiere svizzero per cui lavora. Gli ex compagni accettano entusiasti: è l’occasione per una rimpatriata, anche se per loro la vita non è stata altrettanto generosa, ognuno aveva mete e sogni ma nessuno è riuscito a realizzarli. Rivedendosi i cinque amici ritrovano il calore e la complicità di un tempo ma si trovano anche a rimettere in gioco le loro vite e le loro aspirazioni. Durante quel lungo week end in Svizzera avranno modo di raddrizzare i loro destini, in una girandola di equivoci, situazioni comiche e rocamboleschi colpi di scena in cui i cinque faranno saltare i loro precari equilibri ed ognuno finalmente troverà il coraggio di esprimere la sua vera natura. Il matrimonio di Daniele non sarà esattamente “da favola”, ma i cinque ex compagni si ritroveranno dopo vent’anni come il giorno della maturità, pronti a ricominciare le loro vite.

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