Temerarietà, strafottenza, pugno duro. Quanti registi vorremmo avessero queste qualità! Senza mezzi termini, fustigatori e critici sino all’insofferenza. Tanto da divenire un peso sullo stomaco, da essere palesemente impopolari. Lo è Scorsese naturalmente, come già detto nel precedente capitolo. Tuttavia quest’ultimo riesce ad essere “pop” almeno nello stile, nella messinscena e nel linguaggio. Sceneggiature deliziose e sopra le righe corroborano regie magistrali. Ma esistono poi registi alieni, che comunicano ancor più criticamente, per codici e con una regia molto meno ammiccante. E non si sta parlando naturalmente di un cinema onirico, angosciante e indecifrabile alla Linch né di un ormai datato surrealismo felliniano, ma di un regista che, probabilmente come Kubrick, si comincerà a comprendere tra qualche decennio per la potenza dei suoi messaggi. Infatti non si vuol credere fideisticamente che Cronenberg abbia avuto da giovane rivelazioni misteriche da una qualche entità suprema. Ma il suo cinema ha un non so che di… mistico. E la sacralità in questione varca i confini strettamente tecnici del mezzo cinematografico. I suoi film non sono mai esteticamente esaltanti. Nessun movimento di macchina vertiginoso, nessun preziosismo fantasmagorico. Perché è l’immagine del perfetto regista che compie un assoggettamento del medium ai messaggi da veicolare, andando contro ogni umana logica del guadagno che l’industria cinematografica mondiale propone. Non si avverte quasi mai la pesantezza della camera da presa perché non cincischia mai con quel giocattolino che tanto diverte registucoli (a confronto) come Nolan e Sorrentino. Quasi come l’opera si facesse, immensa e grandiosa, da sé. Quest’impronta glaciale da cinema europeo gli ha permesso di trattare temi scomodi e irritanti, di un’attualità terribile. Fino all’ultima sua fatica, irrecensibile forse. Ma in un periodo nel quale Cronenberg è precipitato nel più profondo oblio, parlare del suo cinema è sempre e comunque propedeutico. Passiamo, dunque, al film del secolo.
Già, perché Cosmopolis descrive, destruttura e infine condanna senza tuttavia alcun patema la società contemporanea e i poteri che ne indirizzano il percorso. Il tutto con una messinscena parecchio, troppo autoriale. Di un’autorialità ostentata come mai è successo col regista canadese, ma funzionale alla causa. Perché il film deve risultare snervante e logorroico all’ennesima potenza, ambientato in luoghi angusti, resi tali non necessariamente dalla loro limitatezza dimensionale (si pensi all’auto in cui è girato gran parte del film) ma dalla ossessiva e seriale presentazione di identiche tematiche in ogni scena, affrontate da personaggi diversi. Diverse visioni del mondo che stridono e infine collidono irrimediabilmente. Il film è incentrato sulle vicende dell’uomo finanziariamente più potente al mondo, che, per raggiungere il suo parrucchiere di fiducia, deve attraversare tutta la città, bloccata da manifestanti, anarchici, da un funerale di stato e dalla visita del Presidente. Un viaggio metropolitano filtrato da un microcosmo, quello della limousine, e da una galleria di personaggi ora astuti, ora intelligenti, ora guardinghi, ora apatici, ora disperati e spregiudicati. Che disquisiscono di economia, sembrerebbe. Anche, ma non solamente. Ciò che a noi comuni mortali sembra dibattito finanziario non è altro che dibattito cyber-finanziario, dunque tecnologico. Alt, perché si necessita di più di cinque minuti di silenzio assoluto per comprendere la portata terribilmente tsunamica del dialogo tra il protagonista e la bionda esperta di storia e teoria economica a metà del film. A nostro avviso è il punto focale. Perché si parla di cyber capitale, innanzi tutto. Di soldi dunque (e qui si torna a The wolf of Wall Street) irreali per chi investe e reali per chi incassa. Ma si parla soprattutto di tempo, di progresso dunque. Di come cioè qualunque cittadino medio si ribelli al potere (il che fa già comunque notizia, almeno in Italia, in Sicilia, ad Agira soprattutto) non perché conscio della propria condizione sociale (la rivoluzione di marxiana memoria) ma perché impossibilitato a seguire le orme della falcata del progresso, troppo veloce, troppo disorientante. I cittadini rimangono indietro perché, paradossalmente, preferirebbero avere di meno (di quel superfluo tecnologico). Perché vorrebbero che si ricominciasse a marciare a passo d’uomo, come non si fa più da tempo. Perché vorrebbero sia tutto un po’ meno pianificato e scandito dai martellanti tempi che la tecnologia e la finanza, maledettamente abbinate, impongono. “Viviamo in un perenne futuro”. Così presente da divenire il nuovo presente, perdendo quello autentico. Siamo proiettati, ci suggerisce Cronenberg, verso una destinazione che sembra non avvistarsi mai. Verso un mito da raggiungere cui cercheranno di approdare anche i nostri figli e figli dei nostri figli e così via senza sosta e soluzione. Viviamo per il futuro in un presente inesistente. Una corsa contro il tempo insomma! Non una rivolta per rivendicare diritti in campo lavorativo o sociale, ma per riportare il tempo al suo naturale e non coercitivo corso, strappandolo dallo statuto di “bene aziendale”. E questa forbice che vede da una parte i potenti e dall’altra insoddisfatte mine vaganti è ben rappresentata dalla netta frattura tra due piani del film: uno che potremmo definire inside (il contesto all’interno della limousine) e uno outside (all’esterno). E l’intuizione geniale di Cronenberg sta proprio nell’aver reso cyber-punk non l’ambientazione outside, ma l’interno della limousine e di aver dunque fatto attecchire l’atmosfera futuribile in un microcosmo asfissiante e aver invece ridotto (o semplicemente lasciato) all’osso il mondo circostante, quasi come se le scene outside fossero ambientate ai giorni nostri. La limousine è chiaramente l’habitat dei poteri forti, tecnologizzata e confortevole, ma l’esterno è atemporale, un mondo in balia di continui sovvertimenti, che non gode affatto del progresso perché ne viene fagocitato. E mentre il mondo scappa dal tempo e dal futuro, l’imperturbabile Pattinson non sente che qualche scossone o urto a quell’astronave che ha come veicolo, quasi come a lasciar intendere che il potere, a qualunque livello si trovi, non risente minimamente dei trambusti socio-economici (quando non è addirittura esso stesso ad orchestrarli). Anche la categoria dello spazio insomma tende a estraniare alcuni personaggi rispetto ad altri, ma elemento per nulla scontato è che ad essere rappresentato come emarginato e reietto non è il popolo, ma il potere. Con questa esplicito allontanamento del potere dall’outside, Cronenberg, a nostro avviso, avrebbe mostrato due aspetti distinti del mondo contemporaneo: da una parte si intuisce come la tecnologia abbia quasi lo scopo di costringere gli individui ad una rincorsa alla totale semplificazione e al totale annullamento di ogni sistema relazionale col mondo circostante, assimilabile persino ad un così piccolo ma così “completo” involucro come può essere una limousine (basti pensare alla stanza di ciascuno di noi, divenuta a causa di quella latrina di Facebook un apparentemente immenso universo); dall’altra Cronenberg ci mostra la disfatta dell’uomo moderno partendo però da una disillusa fiducia nei confronti di chi il potere, sia esso scientifico, sia esso finanziario, come in questo caso, lo incarna. Se insomma Scorsese provoca conati di vomito a coloro ai quali è indirizzata la sua critica, Cronenberg parla all’uomo. All’uomo dell’alta finanza, all’uomo di potere, ma innanzi tutto all’uomo, che è consapevole di essere ad un passo dal precipizio, nonostante sia troppo tardi. Un essere che inglobato in un mondo tutto suo decide, non senza remore, delle sorti del mondo (non solamente finanziario) senza averne un minimo contatto e di fronte ad un semplice monitor. Ma ci sono sequenze in cui il monitor si stacca e il protagonista deve per forza maggiore relazionarsi con l’outside. E a cosa mai può dedicarsi un uomo che sta segregato tutto il giorno in un’auto, dopo essere stato a contatto con tabelle informative, indici, percentuali e numeri da capogiro? S E S S O! Rincorrendo per esempio sua moglie, una donzella insopportabile e fastidiosamente indecifrabile e chiedendole di continuo di poter far l’amore, credendo che sia il modo migliore per consolidare il loro insolito e comunque sfasato rapporto. Oppure andando a letto con una sensuale componente della sua guardia del corpo. Nel momento cioè di massimo livello di capacità tecnologico-finanziarie raggiunto dall’umanità, l’uomo più potente del mondo ha un solo hobby extra lavorativo, il sesso. Come a voler dire che la reazione dell’uomo (stressato dal peso del potere e svuotato di ogni umanità) ad una vita da cani è liberarsi di ogni sovrastruttura e scatenare gli istinti primordiali, che diventano, paradossalmente, le reali e più genuine esigenze nonché le uniche, perché non finanziarie o virtuali. Anche la limousine è teatro di desideri sessuali, ma se nel primo caso è per lui un’esperienza insipida con una flaubertiana Juliette Binoche, è spontanea e irrefrenabile la “tensione sessuale”, come lo stesso Pattinson la definisce, che coglie una sua consulente che lo va a trovare in auto. Tensione sessuale che svela la reale natura umana, nascosta tra un pallottoliere di Wall Street, una disquisizione sul saliscendi del valore della moneta e una bottiglia sgretolata che funge da antistress. Il tutto durante un check-up che il protagonista è solito fare ossessivamente ogni giorno, in una sequenza tra le più memorabili della storia del cinema. Ipocondria pura mentre fuori regna l’anarchia. Ma tutto paradossalmente quasi senza malizia, perché il film rappresenta la degenerazione di un potere, quello finanziario o tecnologico, che sembrava aver illuso tutti con aspettative fuori dalla portata dell’uomo (lo dimostra il fatto stesso che Pattinson non si fidi delle macchine e ogni giorno cerchi di scongiurare l’avvento di gravi malattie). E come in molti suoi film, per esempio in Rabid, anche qui il carnefice è anche la vittima sconsolata del sistema da lui stesso creato, che gli si ritorce contro. In quel film era stato il medico che aveva osato sfidare le conoscenze fino a quel momento acquisite, adesso è l’introduzione di questi capitali cibernetici e di questi esasperati e irrefrenabili liberi mercati virtuali a costare la vita a Pattinson. È se alla fine riesce a raggiungere il parrucchiere (emblema dell’insoddisfazione esistenziale e malinconica delle vecchie generazioni – stordite, palesemente presuntuose e sorde – di fronte alla catastrofe imminente) è solo per arrivare puntuale alla sua “resa dei conti”. In questo film infatti, come detto, vi è un’apocalittica consapevolezza da parte dell’ormai navigato uomo d’affari: il prossimo ad essere sacrificato sarà lui, perché è chiaro che ormai l’asse del potere si è spostato dall’ambito politico a quello finanziario se non addirittura tecnologico (“Ancora ammazzano i presidenti?”, chiede sarcasticamente il protagonista al suo agente). La tanto vituperata politica ha in realtà perso il suo scettro, divenendo però una copertura, un diversivo per chi ancora crede come noi che il problema sia questo o quel politico nazionale. Il problema, semmai, sarebbe per chi lavora questo o quel politico nazionale, a quale Mangiafuoco finanziario deve rendere conto. È il fallimento dello Stato come istituzione, si diceva nello scorso capitolo. E si ripete nuovamente, perché se il mondo ha deciso di affidarsi, sembra tuonare Cronenberg, a uomini di finanza, è perché reali cambiamenti e ribaltoni la politica non ne ha mai realmente conosciuti. Dunque è sì un film che mette al patibolo il mondo finanziario, ma che molto intelligentemente mostra come al potere economico non ci sia alternativa e la politica, nel film, non esiste affatto. Vi si può leggere persino un fallimento della nozione di democrazia, “regime” da sempre illusorio e forfaittario, che si serve di espedienti balordi (per esempio le invenzioni tecnologiche, per rimanere in tema) che facciano da contentino per un popolo che crede ancora a Babbo Natale. E se il cinema è l’universale che allude ad un particolare allora non è necessario andare troppo lontano. Perché non si parla qui solamente di poteri nazionali o sovranazionali. Basta osservare Agira! Il nostro paesino è il manifesto del fallimento di una politica appiccicaticcia, condotta per vent’anni circa da individui inspiegabilmente (data la loro incompetenza intellettuale) millantatori quanto mai. Essi, a differenza del protagonista di Cosmopolis, per esempio, il quale, in conflitto con se stesso, sa di meritare la morte, crederanno a fine mandato di aver portato a termine un buon lavoro, poiché mai ostacolati da nessuno. Tutti i rappresentanti politici del nostro paese dovrebbero pertanto sorbirsi questo film, perché servirebbe a sedarli, sconvolgerli, terrorizzarli (ammesso che almeno Cronenberg riesca a farlo, anche se dubitiamo di ciò). Perché è un film che tiene basse le aspettative del potere, minacciandolo non di un’eventuale rivalsa della coscienza di classe, ma della follia di singoli individui, depressi ed esanimi. E l’inaffidabilità della politica permette che il potere si sposti verso l’asse economico, che la gente cioè si affidi a realtà nuove e “straniere”, a grossi imprenditori cioè che creano sì necessari posti di lavoro in grossi centri commerciali ma che smembrano e delocalizzano l’universo cittadino neanche fosse un’industria automobilistica, smantellando ogni realtà artigianale. Ancora una volta si guardi Agira. È un progresso che non è affatto modernità. È l’eutanasia di cui ci accontentiamo.
Gabriele Santoro
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