NON DI SOLO CALCIO…!

Trampolino. Da cui rimbalzare per piombare altrove. Passando da un argomento all’altro come fossero noccioline. Ma con molta cautela, naturalmente! Cinema, in fin dei conti e pragmaticamente, vuol dire anche questo. Creare precedenti tematici da sciorinare e tirar fuori quando serve, se serve. Per parlare d’altro, non necessariamente di cinema stesso. Di religione, perché no. Di politica, sempre. Di etica, magari. Di morale, delicatamente. Di calcio, sicuro!

Avevo due desideri fino a poco tempo fa. Uno era quello di vedere un film diretto da Cronenberg, con Julianne Moore e Philip Saymour Hoffman. Parzialmente realizzatosi, ma non del tutto, per ovvie ragioni di cronaca che ha coinvolto Hoffman (pace all’anima sua!). L’altro era quello di vedere realizzato un film sul più forte giocatore della storia del calcio, affidando però la sceneggiatura a Martin Scorsese. Ci saranno sicuramente migliori registi, si penserà. Non c’è dubbio, ma Scorsese sa fare qualcosa che nessun altro regista sa fare: riuscire a rendere ammiccanti personaggi altrimenti odiosi e repellenti. Motivando, umanamente, ogni loro impulso, facendone dominio comune. Personaggi come il pugile La Motta e Jordan Belfort, tanto per citare due esempi solo cronologicamente lontani tra loro, rendono manifesta l’impossibilità, da parte nostra, di approdare ad un giudizio morale univoco sulle loro gesta. Perché sono uomini e da tali agiscono, seppur in maniera inconsueta. Nessuno come lui, insomma, è capace di renderci solidali anche verso tendenze comportamentali apparentemente lontane da noi. E chi merita più degli altri, tra tutti gli uomini di sport che hanno condotto un’esistenza così dissipata e “scorsesiana”, che gli si dedichi un film biografico? Naturalmente chi è stato il migliore. Se poi si vuol parlare di aria a bagnomaria e negare che Diego Armando Maradona sia stato il non plus ultra, il primus inter pares, allora si vuol fare un buco nell’acqua. Saltando a piè pari ogni azzardato ed improponibile confronto con atleti del presente (solo questo sono diventati i calciatori oggi), bisogna accostarsi un po’ più alla storia propriamente detta per comprendere chi fosse realmente Maradona. Tornare insomma indietro nel tempo, a quando il calcio si chiamava più frugalmente ma opportunamente pallone. A quando saper giocare a pallone non era il corrispettivo dell’odierno “saper giocare a calcio”, rifuggendo ogni barocchismo tecnico, estetico – olistico, pubblicitario. Niente “cricchie” da Gallo Cedrone, I-Phones placcati in oro, Maserati maculate (come se non bastassero già sobrie per attirare l’attenzione), cadute simulate da sbronza di libera uscita un sabato di carnevale, atterramenti coreografici a tempo che neppure Roberto Bolle. Maradona insomma giocava a pallone in un ambiente estraneo (ancora per poco) a beceri orientamenti che potremmo definire… “Cool and the sGang”. Ebbene sì, perché solo strafacendosi di qualche droga un normotipo sarebbe disposto a presentarsi conciato così in campo senza temere reazioni da parte di pubblico e tifosi. E se Dieghito fu un tipo che negli anni Ottanta, comunque, faceva tendenza, questa è un’altra storia. Perché indirizzava mode potendoselo permettere, senza alcun timore reverenziale verso nessuno. Era un uomo di copertina anche lui, è vero, ma non perché protagonista della cronaca rosa, ma di quella, se non nera, comunque grigiastra. Immerso in un altro modo di intendere calcio, insomma, si diceva. Quello dell’atletismo del cuore, delle storie romantiche, delle rivalse sociali, delle vendette politiche.

Ma andiamo con ordine. Ciò che oggi ci dà lo spunto per parlare di calcio (anzi, “del” calcio!), il nostro trampolino in questione insomma, è un film del 2007, di Marco Risi, Maradona, la mano de Dios. Film fatto coi piedi, si specifichi subito (da qui il desiderio sfrenato che a dirigere un film sul dio del calcio sia, come sopra agognato, un tipo che ci sa fare come Scorsese). Ma in questo film emerge qualcosa di unico, che forse neppure lo stesso Martin probabilmente sarebbe riuscito a far ergere, gargantuesco nella sua eterna solitudine: il mito di Maradona. Vi è una scena difatti nella quale l’ormai ex giocatore del Napoli, a seguito di un malore per overdose e presso una clinica psichiatrica, condivide il suo delirio per la permanenza in quell’orribile posto con la moglie, confidandogli però con un sorriso di soddisfazione: “Qui c’è chi si crede Napoleone e tutti gli altri ci credono. Chi si crede il Papa e tutti ci credono. Io ho detto di essere Maradona, ma nessuno vuole credermi.” Bang! Questo breve dialogo è come una fucilata. Perché chi ha conosciuto Maradona, da tifoso del Napoli o magari da semplice amante del pallone, sa che può benissimo essere accostato ad una qualche immagine deificata o divina. Senza alcuna blasfemia, si badi bene. Perché con lui tutto è concesso. Allora mai come adesso è opportuno credere alla Parabola dei Talenti, a lui tanto aderente, per predestinazione, per vissuto, per storia. Non si ricorda cristiano alcuno che, dichiarando ingenuamente ed in sordina i suoi due sogni ad un giornalista all’età di nove anni, cioè quelli di giocare un mondiale con l’Argentina e di vincerlo, li abbia visti poi realizzatisi nemmeno vent’anni dopo. Se fosse un film lo si etichetterebbe come una solita storiella da strapazzo tra il melenso e il melò. Ma è cronaca! Ecco perché quella sequenza del film sopra citata sembra molto più che verosimile. E poco importa se quelle frasi Maradona le abbia davvero pronunciate. Perché riconsegnano la perfetta icona di un mito e l’essenza di tale identificazione. Perché sembrano descrivere l’uomo e il calciatore più di quanto quel noiosissimo film non riesca a fare per tutta la restante parte. L’essenza del mito, si diceva. Trasmutata e trasvalutata rispetto alla concezione usuale. Dire “Mito” e dire “Maradona” assumono sfumature differenti. La seconda parola ha difatti trasceso la categoria stessa della prima. Il tutto proprio perché fino a Maradona nessuno avrebbe mai potuto immaginare che il verbo del talento allo stato ideale e puramente concettuale potesse farsi carne in un solo individuo. Tutto uomo, peraltro. Nessuna incarnazione divina (da qui una sorta di necessità di deificazione). L’uomo travalica se stesso. E comincia ad averne paura, perché molto anticonvenzionalmente umano. E tale forma particolare di “volontà di potenza” si autodefinisce in ciò che c’è di più immanente al mondo, il pallone. Niente di teorico o trascendente. Solo umano pallone. Ma sono solo parole al vento queste. Per ben comprendere come le frasi di quella scena siano anzi riduttive della grandezza di Maradona, è necessario accostare le parole ai fatti. E che fatti! Elevare “l’umano pallone” ad entità sovraordinata è compito non facile. Soprattutto se provieni da una casa popolare di Villa Fiorito e se durante l’infanzia hai giocato con un pallone di lana. Magari riesci ad emergere, ma, per dimostrare di valere più degli altri, devi essere in grado di sfidare tutto e tutti ed uscirne vincitore. Oltre la mediocrità, oltre l’improbabilità. Oltre la fisica, soprattutto. E’ il 3 novembre 1985. Il Napoli ospita la Juventus del Trap, imbattuta per le prime otto giornate. A guastare la festa, come è prevedibile che sia, è proprio Maradona. E’ il secondo tempo quando l’arbitro fischia un calcio di punizione indiretto, dentro l’aria. Impossibile da battere direttamente in porta (se non puntando sul secondo palo, di potenza) per via dell’eccessiva vicinanza della barriera. Bastian contrario! “Come non det…”, sembra esclamare il San Paolo, prima di spalancare, stordito e collassato, la bocca per lo stupore. Il resto è storia, naturalmente. Girata e rigirata, ma che non fa mai male ricordare. Il calabrone spicca il volo come fosse colibrì, ignorando le leggi della natura che altrimenti lo vincolerebbero al suolo, se solo ne fosse al corrente. E Maradona fa finta di non esserne al corrente. Calcia ugualmente con quel (solo) suo interno sinistro, segnando una traiettoria improbabile (non impossibile, a questo punto!), scavalcando la barriera con quel pallone ben più “maneggevole” di quelli poco pratici di lana. Villa Fiorito è lontana ormai e con un pallone vero è un gioco da ragazzi fare ciò che riusciva a fare con ogni altro tipo di oggetto. Ecco allora perché Maradona riuscì ad arrivare persino dove non sono arrivati i professori universitari, scervellatisi e spremutisi le meningi, questi ultimi, per anni al fine di sgamare il trucco. Proprio come Jackman in The prestige di Nolan. Ma non c’è trucco, non c’è inganno. Pura magia, arte suprema, chiamatela come vi pare. Di sicuro è genio. “Puro, limpido, crestallino”, direbbe il colonnello Kurtz. Tutto questo giorno 3 novembre. Tra le commemorazioni dei defunti e dei caduti in guerra, quello dello scivolone della Vecchia ed imbattuta Signora. Solo frutto del caso?

E’ chiaro, alla luce di quanto detto, che “l’umano pallone” assume connotati di portata non di certo ordinaria. Ma la sublimazione passa per il campo, non è importata da fuori. Ecco perché il personaggio Maradona, scapestrato (ma non come si narra) e dissipato, rimarrà confinato al di fuori del campo di calcio. Ecco perché non si può identificare costui come l’iniziatore di un certo approccio al calcio, “fashionizzato”, posticcio, rifatto dei giorni nostri. La legittimazione “artistica” o quanto meno tecnica del pallone prescinde da una qualche patologia di “mondanità dandy” che un buon calciatore può comunque avere (affari di casa sua!). All’immagine dell’uomo, insomma, si accosta il mito sul campo, quello che si sovraordina, stando alla scena del film, a entità di ben altra caratura ieratica, solo perché, a buon diritto, più alla nostra portata, immanente, umano, recente, nato povero, popolare e populista, soprattutto.

Già, populista. Nel senso più genuino del termine. Impegnato politicamente in una rivalsa sociale, che parte da Villa Fiorito, per raggiungere il tetto del mondo. Con al seguito tutti coloro che come lui credevano che persino col pallone, l’unico strumento di cui ci si poteva servire, si potesse approdare ad una qualche rivalsa nei confronti di oppressori coloniali secolari. Ed è come se la storia avesse concesso a Diego Armando Maradona, durante i mondiali del 1986, di potersi vendicare sullo spietato colonialismo inglese, responsabile dell’episodio della guerra per le Malvinas, oppressore nei confronti di una fin troppo vilipesa Argentina. Ma proprio la sua partita più eclatante, “la partita del secolo”, come è stata chiamata, quella contro l’Inghilterra (in cui metterà alla berlina tutto un sistema culturale occidentale, prima con un gol disonestissimo ma quanto mai opportuno, di mano, e poi con quella suprema rete dopo aver scartato tutti, che è, se non la più bella, probabilmente la più vitalistica e roboante della storia), cela il segreto della scalata verso l’Olimpo del calcio. Maradona ha dimostrato in quell’occasione come per essere il migliore si debba trascendere l’etimologia stessa della parola calcio. Il gioco di squadra più famoso al mondo diventa gioco terribilmente individualista (e necessariamente direi!). Palla a Maradona e altri dieci giocatori concentratissimi ma poco più che mediocri a pendere dal suo sinistro. Nessuno si sognerebbe di inserire Maradona nella propria squadra dei sogni, perché al di fuori di ogni logica, al di fuori del tempo, al di fuori del calcio. “Metacalcio” dunque, non classificabile, raffrontabile o inseribile in studi di dati calcistici. “Maradona te lo manda Dio, tu devi solo stare attento”, disse Francisco Cornejo, primo allenatore del giocatore, non rivendicando alcun merito per averlo scoperto. E un dono di Dio non può mica essere statistica!

Potremmo citare almeno un’altra decina di casi di assoluta prodigiosità calcistica di Maradona, dal gol in torsione dalla trequarti contro il Verona (roba da Igor Cassina in forma olimpionica) al gol di testa dai trenta metri contro in Milan, di controbalzo, con gittata simile ad una potente pompa idraulica. Passando per il gol direttamente da calcio d’angolo o da centrocampo, e per i quattro gol promessi sentenziosamente e realizzati ad un incredulo portiere, Gatti, quando il fenomeno militava ancora nell’Argentinos Junior. E parafrasando il monologo iniziale di un capolavoro di Anderson, Magnolia, “è un caso” che ad un uomo riescano numeri del genere, affidati sì ad un istinto innato e talentuoso ma premeditati e consapevolmente esibiti? “E’ un caso” che a conquistare in meno di un decennio l’universo calcistico sia un poveretto e disgraziato, nato dalle miserie di Villa Fiorito? E ancora. “E’ un caso” che tutto ciò sia avvenuto ogni qual volta lo volesse? Volontà di potenza! Troppo umana, per essere vera.

Quando la nostra generazione dovrà raccontare storielle ai figli prima che si addormentino, narrerà di un uomo, presuntuoso, insolente, strafottente, arguto, tarchiatello, vizioso sì ma soprattutto virtuoso. Di qualunque cosa fosse sferica e palleggiabile. Narrerà di un ometto venuto al mondo con quella famosa e vaticinante intervista a nove anni e morto nel bel mezzo del mondiale di USA 94 (mentre eravamo appena nati). Il suo mito dura meno di quanto sembri e meriti. Come è giusto che sia, naturalmente, affinché sia tale. Narreremo di un uomo magari (si spera!) ancora in vita, ma come fosse dipartito. Perché qui sta la differenza con i “divi” del presente: il suo mito si arresta sul campo, ma non in partite solamente ufficiali, chiudendo la propria carriera in squadre arabe, australiane o canadesi di millesima categoria, ma in quelle che contano, in quei suoi naturali campi di battaglia che si chiamano Coppe del Mondo (anche se continuò ancora a giocare dopo il mondiale negli Stati Uniti). Maradona è un personaggio scomodo e coraggioso, caustico e provocatore, inviso ai più ma allo stesso tempo terribilmente “pop”. Non semplice dialettica del genio e sregolatezza, ma dell’eroe di epoca post-moderna, leader nel bene e nel male, compiacente di portarsi sulle spalle una croce con delizia in potenza, il suo amato numero 10. A quest’ultimo dedichiamo questo testo, unico ricordo beato di un uomo bistrattato e fin troppo condannato, oggigiorno sottovalutato e accantonato dalla critica calcistica e non, dal giornalismo di bassa lega e dagli stessi amanti del gioco del pallone. Personaggio infinito o quanto meno indefinito. Che sentiamo parlar male dell’America, esponenziale, goffa ma realissima caricatura politico-culturale di quell’Inghilterra da lui già troppo odiata e beffata nel mondiale che vinse, stravinse, da solo. Che sentiamo sbraitare contro caporaloni da strapazzo che primeggiano come fossero puritani Fürer dagli alti ranghi di quell’ingordo Reich che la FIFA rappresenta. Che incarna lo spirito romantico ormai decaduto, pronto a insudiciarsi i calzoncini per la propria gente. Così lontano dal pallone moderno. La realtà, la storia dunque sembrano impressionare più di un film, più di quell’apparentemente surreale confessione di Maradona alla fidanzata nella scena del film preso in analisi. Icona di un popolo più di chiunque altro. Per questo mito. Chapeau!

Ps: Liquidiamo immediatamente chiunque tocchi il tasto dolente dell’abuso di droga fuori dal campo: “Del resto tutti hanno tirato in questi anni di merda, chi è che non l’ha fatto?” (Cit. Tony Pisapia, L’uomo in più)

Gabriele Santoro

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L’ULTIMA TENTAZIONE DI QUENTIN (su “Grindhouse” di Tarantino)

Peggiu dell’irricanuscenza c’è sulu ‘a ‘ppatenza” – Cultura popolare

Sembrano non sbagliare mai gli antichi. Manco la fame è così lacerante come l’ingratitudine. Perché per quanto qualcosa sia realizzata gratuitamente vale pur sempre la formula del “buon rendere”. Ma il cinema e la sua storia più o meno recente non possono rivendicare da sé, nei confronti di registi e produttori, una qualche riconoscenza. È obbligo morale di chi il cinema lo ha portato avanti per anni come fortunata professione sottoporre alla nostra attenzione una parte di storia che non c’è più. Non tanto impedendo che il progresso inarrestabile e già sceneggiato abbia compimento, quanto più prendendone coscientemente e pubblicamente atto e focalizzando su di esso maggiore acume critico. Dire grazie, insomma, alla pellicola. Nulla di scontato in tutto ciò! Perché in un mondo ormai senza storia recente, appiattito non nel presente ma in una continua rincorsa alle volte di un irraggiungibile futuro (Cronenberg docet in Cosmopolis), tutti ci abituiamo a svolte più o meno epocali come fossero banali cambi di stagione. E se nulla più ci sconvolge o impietosisce, la riconoscenza artistica di un maestro e autore contemporaneo come Quentin Tarantino, nei confronti del mondo che lo ha reso grande, vale il triplo di quanto dia a vedere. Si passa al digitale, e nel torpore letargico e assuefacente della latrina hollywoodiana sembra essersene accorto solo lui. Quanto analizzato in funzione “nostalgica” nel saggio che ha inaugurato la nostra rubrica Grandangolo (“Si scrive digitale e si legge capitale”) trova insomma un illustre portavoce e pioniere nell’industria cinematografica delle maxi produzioni, dello star-system imposto e degli Oscar barattati. Gratuito populismo mediatico, quello del regista? Può darsi, ma cosa importa! Ci interessa poco se Tarantino abbia concesso un’ultima dose di morfina ad un circuito in stato vegetativo e destinato ormai alla sepoltura quale quello delle pellicole e poi se ne sia lavato le mani senza il minimo scrupolo e con la coscienza a posto. Perché la gratitudine, quella sì che conta! Verso un mondo fatto di imperfezioni, di crepe, di sane e salvifiche aporie. E a questo rende omaggio il suo film del 2007, Grindhouse, A prova di morte. Prima che il mondo cioè venisse invaso da una pandemia di digitalizzazionite acuta, Tarantino ci consegnava un film magistrale e, paradossalmente, innovativo. È un omaggio a quel cinema anni ’60 appartenente alla cosiddetta serie b: film cioè a basso costo e con trame non impegnative (e Tarantino avrà modo di patrocinare e presentare una rassegna di b-movies italiani in occasione della 61ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia). E l’omaggio è evidente soprattutto negli espedienti tecnici adottati perché il riferimento a quel determinato cinema potesse rendere maggiormente: bruciature di sigarette, sgranature, fuori quadri, inquadrature sfocate e salti e tagli di pellicola. Il tutto, naturalmente, riproposto e ostentato continuamente, come mero gioco registico autoreferenziale forse, ma anche e soprattutto come preziosismo artistico che possiamo fare nostro in quanto rappresentazione di un universo rarefatto e ormai lontano e di una qualche componente di artigianalità e corporeità che la visione di un film ha ormai perso (tutto è HD). Una chicca insomma questo film. E non pensiamo mica che il buon Quentinone volesse ergersi a paladino delle ultime salette del mondo che non possono prescindere ancora oggi dall’impiego del supporto pellicola. Ma finisce, come detto, più o meno involontariamente, a incarnare l’immagine di un regista che, dopo aver scosso, destabilizzato e detto ormai tutto sull’epoca post-moderna del cinema, decretandone di fatto la fine, immola doverosamente la sua opera agli altari del (supporto) passato, quello buono, genuino della pellicola, forse perché unico, dai Lumiérès fino all’altro ieri.

E stilisticamente parlando, questo film non si fa mancare assolutamente nulla. La messinscena è perfetta e, con quel giocattolino tra le mani, Tarantino sembra decollare, pur rimanendo ancorato ad un certo classicismo. E ciò che gli permette di ottenere uno scarto a suo vantaggio nei confronti di registi ormai incauti come Nolan o Sorrentino è la capacità di bilanciare azione e stasi nelle riprese. Che questa sanità si sia parzialmente persa nel recente Django… quella è un’altra storia. Perché A prova di morte sa amalgamare benissimo carrelli evidenti a camere fisse, “action” a dialoghi cervellotici e prolissi (i quali, forse, hanno permesso che molti lo etichettassero, negligentemente, come il peggior film del regista). E Quentinone, da gran burlone qual è, sa divertire, ma soprattutto divertirsi. In questo film difatti si prende gioco di quei suoi fans affetti da “nerdismo acuto” da una parte, dall’altra di coloro i quali disprezzano incondizionatamente tutto quanto fuoriesca dal cinema hollywoodiano. In occasione dell’uscita del film, chi si aspettava molto sangue fu deluso. Lo fu pure chi desiderava una trama molto più congeniata. Piacque tanto alle donne, che videro nella pellicola il perfetto epilogo di quel cinema tarantiniano femministoide ad esse tributato (da Jackie Brown a Kill Bill), con protagoniste capaci di frenare il “macello di carni” del folle stuntman. È vero, il film è spudoratamente dalla parte delle donne e non vi è quell’”Aufhebung” finale che scavalchi la accademica divisione tra Bene e Male. Se in Kill Bill infatti l’uomo rivela alla fine la vera natura omicida di lei, la quale se ne rende conto ma non può non portare a termine la sua vendetta, in A prova di morte le donne che uccidono sono il Bene, lo stuntman è il Male, fine della storia (anche se è condannato un certo stile di vita femminile – delle prime protagoniste, che si “espongono” a tal punto da trovare la morte). Ma tutte queste sono chiacchiere da bar. Il film, come detto, non ha difatti alcuna pretesa, in quanto “b-movie”. Piuttosto nessuno parlò nel 2007 della valenza estetica, storica, artigianale del film. Perché il pubblico, vedendolo, correva subito dall’operatore in cabina lamentandosi della bassa qualità della pellicola. E Tarantino, per via di questa sorta di provocazione formale, avrà goduto parecchio, proponendo a tutti un modo di far cinema antipopolare, sfrontato e menefreghista. Infatti, agli albori della “primavera digitalizzante”, mentre il mondo si preparava all’evento 3D del secolo (Avatar, di qualche anno dopo), nessuno avrebbe mai potuto immaginare che vi fosse un regista al mondo così pazzo da realizzare un film appositamente “rovinato”. Se vi è dunque un testamento artistico di Tarantino, quello è A prova di morte, realizzato sì con apparecchiature altamente tecnologiche (nella seconda parte Tarantino fa infatti tutto ciò che gli frulla per la testa e che i mezzi gli consentono di fare, passando addirittura per un magnifico e “nitido” bianco e nero), ma utilizzate per ricostruire tecnicamente un mondo che quasi non esiste più. Un film che ci consegna un’incontrovertibile verità: non si può far cinema senza guardare come lo si è già fatto. Sia relativamente ai mezzi (il supporto pellicola) che per quanto riguarda il piano artistico e culturale (l’importanza dei classici, anche e soprattutto se al fine di rinnegarli), è necessaria dunque una conoscenza di fondo.

Quella che segue, in fondo alla pagina, è la scena più emblematica del film e in essa è racchiusa tutta l’idea di cinema tarantiniano. Un paio di minuti nei quali una delle protagoniste si esibisce in una lap-dance per “stuntman Mike“, magistralmente interpretato da Kurt Russell. Bene… questa scena è quello che gli Americani, a volte maldestramente, definiscono cult. E ha tutte le carte in regola per esserlo: una ragazza bellissima, di una bellezza non classica ma carnale e morbosa (anche la sua prorompente fisicità tutt’altro che comune al cinema e alla televisione lo dimostrano); un attore che non potrebbe che essere lui; una location caratteristica (un pub “on the road”); infine una musica straordinaria, la canzone Down in Mexico. È girata, naturalmente, come solo Tarantino sa fare: primissimi piani su dettagli, quali per esempio il piede di lei che incautamente si posa vicino al cavallo dei pantaloni di lui, il ginocchio al teso  torace o i due visi che si sfiorano, a testimonianza della forte e repressa tensione sessuale di tutta la sequenza; e poi quel carrello circolare, mai pacchiano e opportunamente inserito quando la canzone improvvisamente cambia ritmo così come cambiano le movenze di lei. Ma ciò che realmente attribuisce l’immortalità a questa scena è la fase finale, il passaggio alla scena successiva. Infatti quella della lap-dance è una scena fortissima per impatto visivo, tanto da non potervi trovare una degna conclusione. Ed ecco ergersi il genio di Tarantino, che cala l’asso e, inaspettatamente, al minuto 3:36 del video, “taglia la pellicola”, la fa saltare senza mostrare la fine della lap-dance, quasi come se mancassero parecchi fotogrammi, smorzando così le aspettative di tutti e riabbassando terribilmente il ritmo. Un lapsus del mezzo cinematografico diventa per la prima e ultima volta nella storia del cinema una voluta scelta stilistica e narrativa. Tarantino dunque, non di certo inconsapevolmente, conferisce all’imperfezione del supporto analogico della pellicola uno statuto artistico, che sa molto di addio, di eutanasia. E proprio questo espediente ci consente di intraprendere una riflessione teorica sul mondo della pellicola. L’analogico è costituito da un segnale che si definisce continuo, perché, anche interrompendosi per qualche attimo a causa della presenza di fotogrammi corrotti, esso passa ai fotogrammi successivi, consentendo la visione. Il digitale, invece, è costituito da componenti discrete (perché il film non è “impressionato” su alcuna pellicola) che non consentono la fruizione continua se non compromettendo intere scene o sequenze. Per semplificare in modo estremo: se un dvd si inceppa, lo possiamo gettare; se è un vhs (e soprattutto una pellicola) a danneggiarsi, si può rimediare tagliando quei determinati fotogrammi. Per non parlare poi dei guasti in cui incorre il segnale digitale, che spesso, come notiamo dai nostri televisori, non arriva per periodi più o meno lunghi.

Insomma, dietro una semplice scelta di montaggio e in un film che è stato considerato un flop, si cela tutto il mondo del cinema: quello della cabina dell’operatore, il quale ripara ancora pellicole usurate o spezzatesi per il troppo cumulo nelle bobine; quella della monosala di paese, che ancora può conoscere questa realtà incontaminata.

E rivedendo adesso questo film, sette anni dopo, mentre l’organigramma del tanto scongiurato “nuovo ordine digitale” si è costituito, fa ancora maggiore effetto. Forse solamente per noi, che il cinema lo amiamo, prima ancora che come strumento culturale (ebbene sì!), come luogo di una certa artigianalità, repressa all’ombra della piattaforma virtuale su banda larga. Perché “la cultura forse passa, ma le tradizioni devono rimanere”. L’omologazione ci è (stata) imposta da un’ondata di ammiccante progresso, il quale non è tuttavia modernità. Tutti a compiacerci dunque di fronte alla discretezza e alla conseguente interruzione del segnale digitale, a dispetto della “continuità analogica”. Perché il bello della pellicola, in fondo, è sempre stata la sua componente di esclusiva rimediabilità del supporto. Anche se corrotto, bruciato, imperfetto. Gagliarda per questo, la pellicola; metafora di tutto. Basta tagliare e ricucire. E si riparte.

 Gabriele Santoro

Fonte: UniversoTarantino

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SMETTO QUANDO VOGLIO

 

smetto

 

In Smetto quando voglio, Pietro Zinni ha trentasette anni, fa il ricercatore ed è un genio. Ma questo non è sufficiente. Arrivano i tagli all’università e viene licenziato. Cosa può fare per sopravvivere un nerd che nella vita ha sempre e solo studiato? L’idea è drammaticamente semplice: mettere insieme una banda criminale come non se ne sono mai viste. Recluta i migliori tra i suoi ex colleghi, che nonostante le competenze vivono ormai tutti ai margini della società, facendo chi il benzinaio, chi il lavapiatti, chi il giocatore di poker. Macroeconomia, Neurobiologia, Antropologia, Lettere Classiche e Archeologia si riveleranno perfette per scalare la piramide malavitosa.

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LA MOSSA DEL PINGUINO

 

LA MOSSA DEL PINGUINO

E’ il sogno olimpico di quattro uomini disagiati che scoprono per caso il gioco del curling e si convincono di poter partecipare alle Olimpiadi Invernali di Torino 2006 dove l’Italia, paese ospitante, avrà di diritto una squadra qualificata. S’ingegnano in allenamenti improbabili, trovano scappatoie alle regole, provocano gli avversari e finiscono per diventare campioni italiani, acquisendo così il diritto di partecipazione alle Olimpiadi. Per riuscirci dovranno però diventare uomini migliori. La loro è una storia di riscatto individuale e familiare, prima ancora che sociale.

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BELLE & SEBASTIEN

 

BELLE & SEBASTIEN

 

Durante la seconda guerra mondiale, il piccolo orfano Sebastien trova l’amicizia di Belle, una grande femmina di cane dei Pirenei che abita nei boschi attorno al paese e che dovrà difendere da chi la ritiene un feroce e pericoloso predatore. Belle e Sebastian riusciranno infine a dimostrare tutto il loro valore portando in salvo al di là delle montagne una famiglia di fuggitivi inseguiti dai militari tedeschi.

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