UN NATALE STUPEFACENTE

NATALE

Alla vigilia delle feste natalizie, zio Lillo e zio Greg sono improvvisamente costretti a prendersi cura del nipotino di 8 anni. I suoi genitori sono stati erroneamente arrestati per coltivazione di sostanze stupefacenti. I due zii sono molto diversi tra loro, e inadeguati a tale compito. Greg, single rockettaro, cercherà l’aiuto di Genny (Ambra Angiolini). Lillo, appena lasciato dalla moglie (Paola Minaccioni) e geloso del nuovo compagno di lei, un coatto tatuatore (Paolo Calabresi), approfitterà della situazione per riconquistarla. A complicare le cose, le visite a sorpresa di due zelanti ma bizzarri assistenti sociali (Francesco Montanari e Riccardo De Filippis) alla “strana famiglia”, per verificarne l’idoneità.

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ANDIAMO A QUEL PAESE

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Salvo e Valentino, sono due amici che rimasti disoccupati, abbandonano la grande città per rifugiarsi nel piccolo paese d’origine, Monteforte, dove la vita è meno cara ed è più facile tirare avanti. L’impatto con la nuova realtà non risulterà per nulla facile: i due si ritroveranno a vivere in un contesto diverso da quello che si erano immaginati: un paese pieno di anziani, da cui però è impossibile non poter trarne beneficio. Ogni anziano rappresenta una pensione, un bel bottino per i due disoccupati…

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LA RIVOLTA DI ABELE (su “Solo Dio perdona” di Refn)

A ritroso. Quasi dissacrando l’idea stessa di cinema. Ma almeno con molta poca ipocrisia conoscitiva. Perché è chiaro che in un’epoca di inflazione di offerta artistica, estetica, informativa, trovare qualcosa di reale valore è davvero arduo. Soprattutto per via dell’ammasso informe di monnezza che ci troviamo davanti. Ma a volte sembra ergersi, sul monte solitario chiamato “cinema d’autore”, qualche opera insolita per modalità propositiva, unica per realizzazione. E magari non si tratta che dell’ultima fatica di un regista di vero talento, da sviscerare, sventrare, prima di passare alle sue pellicole precedenti, ricostruendo un’intera poetica, persino a ritroso. Non lo si conosce di certo adesso, Refn, il regista di oggi. Che è riuscito a scuotere (se ancora ve ne fosse possibilità, in quest’epoca di surplus commerciale) chi non aspetta altro che essere scosso, stufo di assistere al Teatrino dei Pupi che il cinema è divenuto. Ma il suo film precedente, Drive, aveva lasciato l’amaro in bocca. Forse perché sconosciuto prima di allora (almeno a noi), il povero Refn. Invece Solo Dio perdona, la sua ultima pellicola, è riduttivo definirlo capolavoro. Lasciamo una volta per tutte queste accademiche categorie della critica minimalista a chi non abbia parole da spendere. Perché questo film ne merita, parecchie.

Trama: Bangkok; un giustiziere della notte, ex poliziotto, fa uccidere uno spacciatore Americano che aveva scannato una prostituta. La madre e il fratello dell’Americano provano a vendicarne l’esecuzione, ma non faranno che alimentare un vortice infinito di violenza. Solo Dio perdona è un film di certo crudo. Non tanto per le comunque reiterate sequenze sanguinarie, al limite del realismo scenico. Quanto più per la capacità di condurci alle visioni ematiche orripilanti provocando lo spettatore già da prima. Snervandolo sino all’insofferente esasperazione per poi accontentarlo visivamente con ciò che si ostina a ritenere bruto, eccessivo, violento. Film insomma provocatorio e nel contempo lassista, irritante ma infine oftalmicamente tonificante. Ecco che allora a piani sequenza rallentati ed apparentemente troppo prolissi fanno da contraltare stupefacenti (almeno nella realizzazione e nei trucchi e negli espedienti cinematografici) immagini di carni, ossa, orbite cavate, bruciature. Lo spettatore è prima seviziato e poi lasciato libero, proprio sul filo di un rasoio. Ed è disarmante come la tortura visiva non corrisponda a quella narrativa, anzi. Lo spettatore è sollevato dinnanzi al sangue, quasi come fosse abituale oggetto di fruizione; indispettito di fronte ad ogni altra inquadratura. È la testimonianza di un paradosso estetico, di un naif che diviene inevitabilmente di buon gusto. Perché girato bene, per carità. Ma non solo per questo. Il dialogismo è pressoché assente, ma sono i visi a parlare. In ottemperanza ad una messa in scena che ha molto di leoniano (come anche il titolo del film lo è, diretto, senza fronzoli o intellettualismi vari), Refn riesce a far conversare semplici sguardi, combattere tra loro ghigni e musi lunghi. È la sceneggiatura dell’estetica, nella sua forma probabilmente più alta, tra carrelli ostentati sempre più (sulle facce solo in apparenza smorte) e primi piani agghiaccianti. Un’estetica, inoltre, immersa totalmente nel genere. E che genere! Ed è questo, difatti, lo scarto con l’ultimo Sorrentino, per esempio. Impegnato, quest’ultimo, a immolare la totale fase estetica del suo cinema agli altari di un’autorialità che sa molto di pedanteria, futile decoro intellettuale. Refn strumentalizza invece la sua abilissima camera per un secondo fine: mostrare il marcio di tutto l’animo umano e le conseguenze dello stesso. Con uno stile ora noir, ora orrorifico. Per intenderci: il cinema di Refn, ma in particolare Solo Dio perdona, è plasmato sull’ultimo Cronenberg (cosiddetto “noir”) ma con una regia più “pop” (alla Coen, con un pronunciato, come detto, uso del carrello e del rallenty) e una componente onirico-straniante che guarda a Lynch come modello. Certo, abbiamo nominato il non plus ultra, ma non è una semplice smania filologica, quanto più un’inevitabile ed evidente nota di comparazione. La messa in scena è molto accattivante, lontana anni luce dalle inquadrature volutamente glaciali e poco coinvolgenti e commerciali del maestro Cronenberg, ma alcuni espedienti visivi non possono che rimandare a lui. O almeno al Cronenberg ultimo, quello degli inserti macabri mantenuti nel più totale noir e di una fotografia plastica, quasi tirata a lucido (alla Suschitzky insomma, storico collaboratore del maestro canadese), che si serve di primi piani grandangolari per disorientare l’occhio dello spettatore. Combinare insomma tre ingredienti (i maggiori registi viventi, probabilmente) che apparentemente potrebbero apparire indigesti non è cosa da poco. Refn ci ha provato e, a nostro avviso, c’è riuscito. Realizzando un film massimalista, magniloquente, nonostante si parli una volta ogni venti minuti. Una coscienza del mezzo cinematografico che potremmo definire artigianale. Che fa del regista un mestierante a tutti gli effetti, perché capace di catturare e ubriacare, all’occorrenza, con ciò che più sa fare bene: filmare. Il tutto orchestrato da una colonna sonora ora quasi tribale, ora elettronica (che rappresenta lo stridore di differenti culture che entrano in rotta di collisione). Sia chiaro: chi si aspetta gratuiti “mezzogiorni di fuoco”, può pure evitare di vederlo. Perché il film non è per niente vicino all’ultimo Tarantino, per esempio, che con Django sembra aver accelerato così tanto da andare vistosamente fuori giri. Niente fumettistiche e cartonate sparatorie al limite della repellenza, niente irrisorie fontane di sangue. Refn sembra piuttosto prenderlo sul serio, il sangue. Perché trattato con intensa drammaticità. Perché mostrato sino alla fine.

Funzionalità! Questa è la parola d’ordine, nel cinema. Funzionale deve essere la visione di un film. La saletta dove si fruisce. Il genere adoperato. Ma a cosa? Funzionale innanzi tutto ad un impegno, che sia culturale, intellettuale, sociale, anche solo antropologico. E il fallimento del Parnassianesimo, corrente poetica ottocentesca propugnatrice della mancanza di utilità nell’arte, risiede proprio in questo ambito. L’arte deve essere atta ad una visione della società da veicolare. Anche pure ideologica, da confutare o approvare. Ma un film deve sempre prendere una netta posizione, consegnando più domande che risposte, magari. Ma mai rimanendo nel salvifico ma aberrante involucro dell’ignavia. E questo film di personalità ne ha da vendere. Il messaggio consegnato allo spettatore, nel finale, è quanto più di straziante ma attuale vi possa essere: giù le mani dalle terre altrui! Con ciò stiamo ad indicare ogni forma di colonialismo, sia esso modaiolo, culturale, propriamente territoriale. E Refn ci sussurra questo imperativo approfittando della terribile e spietata figura del protagonista assoluto del film, che risulta essere, diversamente da quanto si possa pensare a primo acchito, proprio l’”angelo della vendetta”, l’ex poliziotto, Chang. Lo si sente parlare poco, quasi mai, ma agire tanto, anche troppo per un debole di cuore. Sotto la grandezza di una fissità espressiva senza precedenti nella storia del cinema, si cela una pluralità di espressioni etiche. Sotto la crudeltà (o sarebbe meglio definirla crudezza) si cela il calcolo razionale, il genio, “limpido, cristallino, puro”, direbbe il colonnello Kurtz di Apocalypse now. Ed è lampante il parallelismo con quest’ultimo capolavoro di Coppola, perché se lì era il popolo vietnamita a rappresentare una sistematica ed organizzata (al limite del possibile!) resistenza all’esercito straniero, in Solo Dio perdona non si parla di guerre, di embarghi o di qualunque altra infamia americana in tema di politica estera. Si parla solamente di preventivo e giustamente pregiudiziale ostruzionismo nei confronti di culture, consuetudini e indebite ingerenze che tentano di corrompere l’ordine costituito. E il film risulta essere una reazione alla politica americana da sempre anche solo economicamente e diplomaticamente interventista in Thailandia (seppur sia stata storicamente pacifica). E a compromettere l’equilibrio sociale, a determinare il kaos, è proprio uno straniero, ingordo di sesso e denaro, stupratore e spacciatore. Lì scatta la vendetta-giustizia (binomio solo apparentemente ossimorico, vista le labilità del confine tra i due termini in un paese in cui vige ancora la pena di morte). E scatta con una dedizione, una lucida freddezza e un’apparente mancanza di coinvolgimento emotivo tali da raggiungere l’obiettivo tanto agognato: ristabilire il kosmos, l’ordine. Ed è la stessa storia a legittimare sempre più l’inviolabilità del Sud-Est asiatico (e dell’Oriente tutto) a fronte di un modello di vita non omologato alle tendenze globalizzate, appiattite, occidentali, troppo occidentali. Un film seducente, mistico, mai cromaticamente variegato se non nel buio più totale. Un film rituale, in cui rituali sono gli omicidi di Chang, corroborati da gestualità e mimiche teatrali, solenni. E proprio come il maestro Cronenberg ne La promessa dell’assassino, il delitto efferato pertiene ad una legislazione altra, che un comune mortale non può comprendere, giudicare, biasimare. Perché motivato, questa volta. Perché quasi giustificato.

Capitolo a parte merita il personaggio interpretato da Ryan Gosling, che veste i panni del fratello dell’Americano morto. Premesso che Gosling è uno dei pochi eredi di quella classe di attori hollywoodiani che, come si suol dire, hanno un viso che sfonda lo schermo, la sua faccia non può che stare dove sta in questo film. Drammaticamente vuoto, quasi sempre. Provato e tragicamente espressivo, all’occorrenza. Un ruolo segnato dall’azione, ancor più di quello di Chang. Perché essa smentisce e dissacra la sua aria da duro e tenebroso. Perché essa non riesce a travalicare le continue ingiurie della madre. Un personaggio, quello di Gosling, continuamente stretto nella morsa dell’inerzia, dell’accidia. O della violenza gratuita, nella scena per esempio in cui due Thailandesi importunano appena la sua donna. Gelosia morbosa, repressa, la sua. Ma sarà l’unico ad accorgersi sin dall’inizio del pericolo corso mettendosi contro tutta Bangkok. E sarà l’unico, paradossalmente, a sacrificarsi per ripristinare le gerarchie. Un eroe intellettuale, in un mondo manesco e di ben altro metro di valutazione. Cui cerca comunque di adeguarsi, per complesso di inferiorità nei confronti del fratello morto e per profondo amore passionale nei confronti della madre. E quest’ultimo risulta essere un personaggio gretto, agli antipodi rispetto all’ideale di genitrice perfetta, portavoce di un assetto familiare ormai alla deriva, sin troppo progressista e matriarcale. Che non ama a dovere il secondogenito perché meno sessualmente dotato del primo, perché meno sessualmente virile. Secondogenito di cui sfrutta, tuttavia, l’iniziale mancanza di personalità, conducendolo ad uccidere il marito. E la maturità di Refn risiede proprio nell’aver proposto il complesso edipico in maniera completamente diversa e insolita. Infatti in questo film esso non si serve di un modesto erotismo per venir fuori, ma di una vera e propria mai celata ed estrema tensione sessuale tra madre e figli. Ma quando la madre (interpretata da una superba Scott Thomas) morirà per mano di Chang, il figlio dovrà rendere conto ad una divinità superiore e accantonare l’idea (già in lui fragile) di vendicare, a sua volta, la vendetta. Ed ecco allora la scena più potente e struggente del film, la quale, se esistesse un cinema un tantino più meritocratico, diventerebbe cult: Julian, il personaggio interpretato da Gosling, porge le sue mani perché Chang ne faccia ciò che vuole, affinché gli vengano mozzate. La violenza catartica è il prezzo per la libertà. Perché capace di proliferare omogeneamente la giustizia. E a farne le spese sono una parte del corpo emblema della nostra presunta libertà di agire, dimenarci, lottare. Per intenderci: quelle mani gli servivano ben poco, perché impossibilitate, già dal principio del film, a far godere l’uomo, mortificate nella loro essenza. Da annali, a riguardo, la scena in cui la giovane Thailandese si masturba davanti agli occhi di Gosling senza che questo possa reagire con altrettanta foga sessuale, perché con le mani legate alla sedia. Le mani dunque. Perennemente da Refn inquadrate, che divengono strumento dell’ira abortita ed implosa; simbolo di peccato, illusione e conseguente disillusione, inerzia, fallacia, impotenza, frustrazione, perdizione.

Giù queste mani da Caino, verrebbe da dire allora. Ma Caino è chi crede di poter applicare un certo stile di vita presso un altro popolo, non considerando le conseguenze che questo strafottente meccanismo ha in serbo. Anche nefaste, apparentemente disumane, ma necessarie, affinché il corpo estraneo venga estromesso da un organismo ad esso allergico. E l’Oriente risulta essere profondamente intollerante a noi Occidentali. Facciamocene una ragione! Anche e soprattutto ora, periodo in cui è in corso l’ennesimo intervento dei macellai statunitensi in Medioriente (che assume sempre più le fattezze di Chang). E tra un delirio di onnipotenza e la somministrazione quotidiana per endovena di una certa dose di esterofobia (solamente verso tizi con barba pronunciata, sottotitolati, molto sommariamente, Isis), chiediamoci pure il perché di questo rigetto. Altrimenti l’America e l’Occidente tutto rischiano di collassare vestendo i panni degli eroi indiscussi. Sarebbe ingiusto, immeritato.

Gabriele Santoro

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LA GENTE CHE STA BENE

LA GENTE CHE STA BENE

La gente che sta bene è una commedia caustica e brillante, ambientata in una Milano canicolare, popolata da un’umanità alla ricerca disperata di un modo per stare a galla – o quantomeno di un parcheggio vicino al ristorante – che racconta con spietata ironia il ghigno di un uomo che, giorno dopo giorno, ha sempre meno motivi per ridere. Nel film, Claudio Bisio interpreta “Giuseppe Sobreroni, un avvocato d’affari tra Milano e Londra – racconta Claudio Bisio – un narcisista, un mezzo bastardo che sguazza nel carrierismo più spinto ma finisce in crisi, preda delle sue fragilità. Una bella parte.”

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LA DIMORA DEL GENERE

Si dia al cinema quel che è del cinema. Senza fronzoli o sperequazioni varie. Perché, tacciata com’è di essere la forma di arte più infima che ci sia (e ammesso che sia arte, onestamente), per lo meno le si consegni ciò che più rientra nel suo diretto dominio. Migliaia di volte sentiamo dire (e non si necessita di attestati di un qualche centro sperimentale di cinematografia per capirlo) che certi film vanno visti al cinema, solo lì, per apprezzarne la totale integrità formale. Niente di più vero. Poi c’è altro, c’è del cinema che, dall’alto della sua potenza contenutistica ma anche estetica, riesce ad impressionare anche su un 12 pollici. Ma questa è un’altra storia. La nostra disquisizione di oggi verte su quel calderone che approssimativamente ma coerentemente coi contenuti chiamiamo spesso “cinema di genere”. È chiaro dunque che più che in ogni altro caso proprio il genere risulta congruente con il ragionamento sopra esposto. E se vi sono registi che partendo dal genere se ne discostano sempre più rendendolo funzionale ad una suprema autorialità (Cronenberg, Carpenter, Scorsese), esistono pure addetti ai lavori che un certo leitmotiv della propria cinematografia lo mantengono sempre all’interno del genere stesso di appartenenza. Sperimentando sfumature diverse magari, ma senza mai davvero sconfinare in campi altri. È il caso del regista del giorno, punta di diamante del cinema di genere italiano nel mondo. Riconoscente verso i mostri sacri del cinema passato e per questo a sua volta riconosciuto come mostro sacro dai posteri. Stiamo parlando di Sergio Leone. Di lui si è detto tanto, troppo forse. Proviamo a dire qualcosa, senza troppe pretese, pure noi.

Ogni generazione di cinefili ha la sua condanna, una pena da scontare. Che sia quella di vivere nell’epoca delle “americanate” più americane del solito, pregne di colori sgargianti e sovraesposti ed effetti speciali zoticoni o che sia quello di non aver potuto vedere al cinema i film di genere del passato, spolpati e rispolpati tuttavia in videocassetta. Ma, per chi non se ne fosse accorto, viviamo nell’epoca della semplificazione estrema, dell’annichilimento dei vincoli (necessari!) temporali e del rilancio di qualche moda vintage che sa più di accattivante e ruffiano servilismo nei confronti delle masse che di spontaneo ritorno ad un passato genuino. Allora ecco che il supporto digitale si erge incautamente a garante dei desideri della nostra generazione, catapultandoci in una dimensione passata e forse già scaduta, che sarebbe piuttosto opportuno lasciare riposare in pace al fine di non dissacrarla. Detto questo, però, alla notizia che vi fosse nuovamente al cinema un cult come Per qualche dollaro in più non ho saputo resistere e sono corso a vederlo. Se non fosse stato riproposto, sia chiaro, avrei continuato a mangiare serenamente pane e cipolla come sempre e c’avrei dormito su lo stesso, magari invidiando mio padre che lo aveva visto al cinema, ma nulla di più. Ma il cinema è cinema! E sentire quella colonna sonora fischiettata, arguta, rockeggiante e beffarda in una sala cinematografica ha tutto un altro gusto. Tutto sembra molto più coinvolgente, avvolgente, persino credibile. Il cinema assume insomma dei tratti onirici, nel senso che al suo interno decade ogni logica precostituita e sembrano vigere regole altrimenti aliene. In questo contesto si inserisce naturalmente la Trilogia del Dollaro. Costituita da film innovativi nello stile, nella messinscena, nel racconto. E naturalmente nell’impostazione di base dello stesso genere di appartenenza, il Western. Ma film pure, per certi versi, assurdi, terribilmente sopra le righe se non addirittura grotteschi. Film che forse peserebbero ad un amante del realismo spietato nel cinema, perché spesso caricati, prolissi sino all’esasperazione, inverosimili. È vero, gli abiti, il trucco, la scenografia e le stesse inquadrature rimandano ad un realismo estetico opportunamente esibito, che attenua le apparenti spigolature della sceneggiatura. Ma viene comunque difficile credere che vi siano persone al mondo, soprattutto nel “lontano” West, che per spappolarsi le budella aspettino la fine della musica di un orologio da taschino. Che spendano la maggior parte delle giornate a dimostrare quanto bene sappiano sparare puntando i cappelli altrui. Che indispettiscano un fuorilegge accendendo sulla sua gobba un fiammifero. Che abbiano sempre, ma proprio sempre pronta una battuta perfettamente incastrata a mo’ di sentenza biblica. È chiaro che il genere non possa prescindere dalla visione sorda, “buia”, insudiciata ma discreta in una sala cinematografica. Visione altrimenti imbarazzante, persino superflua. Ma questo vale per il genere in senso stretto, naturalmente. Quando esso infatti sconfina, come anticipato, in campi limitrofi e si sublima al fine di veicolare un messaggio diverso, magari socialmente impegnato, il cinema tende a perdere la sua portata estetica ed estetizzante e diviene semplice ma nobilissimo medium. Ma vi è un film di Leone che riesce a conciliare entrambe le concezioni di cinema. Doppio indizio: si parla di un treno da costruire e c’è una proverbialmente perfetta Claudia Cardinale. Perché C’era una volta il West è il capolavoro assoluto di Leone, stando al criterio sopra esposto. Estetica ed etica, per così dire, perfettamente miscelati a creare un ritratto commovente, dunque sublime (non solo bello!) di un Occidente proiettato al progresso ma dimentico di un passato occulto e occultato, di sangue, infamia e oppressioni. Anche qui la sala cinematografica riesce a consegnarci un film che la tv di casa renderebbe forse sottotono ai più, ma nello stesso tempo Leone si serve di una messinscena perfetta e “di genere” per realizzare questa volta il film forse più politico (insieme a Giù la testa), per certi versi agli antipodi rispetto alla Trilogia precedente. Infatti, nonostante lo stile, i movimenti di camera e gli espedienti narrativi siano simili a quelli dei film con Eastwood (dai voluti cali di tono per poi improvvisamente far schizzare il film ai frequenti flashback dei protagonisti che svelano il loro misterioso passato), le musiche, le atmosfere e i personaggi sono molto più spossati, sgonfi, meno posticci, sofferenti e malinconici quanto mai. Il genere western comincia ufficialmente ad acquisire un senso. Solamente adesso.

Sospensione del giudizio. Epochè, la chiamavano i Greci. Sottoporre a rianalisi critica i grandi classici o in generale il sapere già acquisito e apparentemente inamovibile ed eventualmente rivalutarlo è dovere intellettuale di tutti. Il rischio per chi non lo fa è quello di assimilare passivamente ma inconsapevolmente un tipo di cultura. In campo cinematografico ciò è quanto mai vero. Perché se Leone è un genio, un talento indiscusso, bisogna almeno sapere perché lo sia, ammesso che lo sia. Lo è, senza dubbio. Ma, come detto, il vero Leone, libero da vincoli di mercato e botteghino, libero dalla schiavitù del compiacimento delle masse e dalle prerogative insuperabili che il genere a volte impone, è quello post – Trilogia. Un mio amico, alla notizia del restauro digitale dei tre film, saggiamente mi disse su questi ultimi: “Niente di più americano”. Già, perché, a parte qualche personaggio (Tuco o il terribile Indio), vi sono poche impronte, per così dire, “progressiste” in questi film. Anzi, come qualsiasi altro discreto western, almeno relativamente al soggetto, notiamo carenza di contenuti. Viene senza dubbio rappresentato un mondo di violenza e compiacenza della stessa, che comprende che per raggirare l’ipocrisia deve per lo meno fare di necessità virtù e rendersi avvezzi al sangue anche per lavoro, attraverso i cacciatori di taglie (l’America fondata sugli stermini operati dai cosiddetti pionieri ha portato già a termine il suo mandato e c’ha pure preso gusto). Ma niente di più. A livello contenutistico questa già di per sé sfumata critica ad una neonata nazione diviene ancora più labile allorquando entra in gioco una straniante e ambigua ironia tra le gesta di Eastwood, Volonté, Wallac, Van Cleef, Rabal e compagni. Straniante perché rende quasi legittimi i “mezzogiorni di fuoco”, tutti i superflui spari e le stragi di uomini fatti fuori come fossero noccioline, creando una sorta di disorientante ammiccamento nei confronti del pubblico verso tutto quel sangue sparso gratuitamente. Il tutto portando un’ironia di fondo facilmente fraintendibile e una musica non di certo struggente proprio dalla parte di pistoleri da strapazzo. Potremmo azzardarci a dire insomma che Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto e il cattivo (anche se in minor parte) sono quasi interamente “puro genere”, con una netta tendenza a mostrare disumanità tra i protagonisti, dipingendoli ciononostante in modo positivo. Ma allora questa trilogia non serve a nulla? Assolutamente no, altrimenti non si sarebbe definita, sin dall’inizio, cult. La sua è una schiacciante portata estetica. La valenza cinematografica di questi tre western sta infatti nella totale rivoluzione tecnica e stilistica del genere. Ai vecchi visi, imbellettati, puliti, sempre tirati a lucido e poco spontanei di reazionari alla John Wayne fanno da contraltari quelli naif, malconci, sudaticci, luridi e orripilanti della nuova generazione western (è un po’ lo stesso lavoro intrapreso da Pasolini quando realizzò Il vangelo secondo Matteo, stando giustamente ai canoni di bellezza di duemila anni fa). Se la sceneggiatura sembra apparentemente, come detto, un po’ troppo su di giri, la regia è quanto meno perfetta. Senza minimamente strafare, Leone sfoggia virtuosismi di camera e chicche di montaggio che elevano il genere a mestiere da vero e talentuoso artigiano (e artista) del cinema. A doverosi momenti di stallo fanno da contraltare sequenze di bellezza registica mai barocca che rasenta il delirio estatico (tra tutte quella del duello finale tra Volonté e Van Cleef in Per qualche dollaro in più, con un montaggio frenetico e riprese di dettagli al fulmicotone, presenti anche nel triello finale de Il buono, il brutto e il cattivo). L’immenso genio di Leone si erge anche quando, in fin dei conti, inserisce episodi e situazioni all’interno della sceneggiatura che non rendano affatto sgradevole la pellicola, di per sé già pericolante in potenza. Un esempio tra tanti quello della foga che Van Cleef mostra nel voler uccidere a tutti i costi Volonté, reo quest’ultimo di aver ucciso sua sorella anni prima. La vendetta diventa l’unico e, paradossalmente, indiscusso movente dell’uccisione dell’Indio, personaggio sì sgradevole, ma combattuto e scisso, che non merita, al di là del delitto di cui si era macchiato, trattamenti peggiori rispetto agli altri personaggi del film, tra cui lo stesso Eastwood, il più ingordo di denaro. Il West e l’America tutta della trilogia (come il West per antonomasia in realtà) è un eterno “luogo del delitto”, in cui il Male diabolicamente inteso perpetra la sua immagine dalle origini sino ai nostri giorni, i giorni di un’ennesima e quanto mai tragica e stucchevole guerra dichiarata all’Iraq. E tra le righe Leone sembra voler far intendere come l’Eastwood di Per qualche dollaro in più sia il prototipo dell’Americano medio che sarà, pronto a elargire generosamente proiettili per appena trenta denari. Odioso e presuntuoso quanto mai, se si assiste alle sue vicissitudini da un televisore di casa, senza poter apprezzare in toto il piano tecnico del film, si rischia di farsi piacere la sua etica comportamentale, ridendo magari ad una sua battuta. C’è un Leone dunque critico e solenne (C’era una volta il West) e uno critico ma immerso nel genere e in una compiacente ironia.

E naturalmente questi due versanti hanno costituito nel tempo due filoni completamente diversi del genere. L’Eastwood regista, per esempio, ha optato da sempre per un western molto più autoriale e discreto, mai sopra le righe, introspettivo e realista. Da Il cavaliere pallido fino a Gli spietati ha sempre messo in scena personaggi combattuti e intrisi di una certa po-etica, non di certo epici e magniloquenti come il capolavoro di Leone, ma non per questo ad esso inferiori. Proprio Gli spietati rappresenta, probabilmente, il più struggente e poetico western della storia, ed è un peccato che la nostra generazione non lo conosca e abbia invece apprezzato Django di Tarantino. A proposito, quest’ultimo rappresenta invece la “caricatura pop” (dalla potenza visiva indiscutibile ma un tantino troppo barocca) del filone leoniano immerso totalmente nel genere. Non è un caso che abbondino citazioni stilistiche, di sceneggiatura e sonore, ma risulta essere un western che sconfina pericolosamente nel post-post-moderno (sia chiaro, post-moderni erano, in fin dei conti, già i western leoniani), con musiche a volte improponibili e anacronistiche. Ad un finale pirotecnico che sembra promuovere Django a unico eroe del film (anziché relegarlo, insieme al resto dei personaggi, ad una massa uniforme di antieroi, assassini e fuorilegge) si oppone un finale ne Gli spietati in cui la vendetta sembra condannare il protagonista alla vita, nuovamente monotona, in un’ancora più spiazzante solitudine. E lo scatto che distingue un western piacevole come quello di Tarantino dal capolavoro di Eastwood è proprio la totale assenza della componente grottesca del secondo rispetto al primo. L’ironia ne Gli spietati (come del resto in C’era una volta il West) è solo interna ai personaggi, qualora la si trovi, non è scritturata o sceneggiata, non è espressa dai toni colloquiali e non pesa affatto. L’ironia in Django (come del resto quella di Per qualche dollaro in più, per esempio) appartiene invece al genere e rende tutta la pellicola molto grottesca e fumettistica (il sangue “pulp” e sovraesposto e i voli esorbitanti dei personaggi bersagliati da Django ne sono una conferma). Puro genere in Tarantino e omaggio ad esso contro autorialità nel genere in Eastwood. Stesso padre, Leone. Figli diversi.

Ciò che si consiglia in questa sede è di vedere tutti i film di genere (ma proprio tutti, da Tarantino a quella latrina di Bay) in una sala cinematografica, il suo habitat naturale insomma. Perché snobbare il cinema inteso come luogo deputato alla visione significa mandare al diavolo la tradizione prediletta dai nostri padri, e dai nostri nonni prima di loro. E significa, soprattutto, vanificare ogni tentativo di legittimazione artistica del cinema messo in atto da maestri come Sergio Leone. E Agira ha ancora una saletta. Notizia non così scontata, vista la chiusura di migliaia di cinema negli ultimi anni. Ce l’ha, in pieno centro storico. Così, giusto per ricordarlo.

Gabriele Santoro

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