BISBETICI DOPATI VOL.3, COSMOPOLIS

Temerarietà, strafottenza, pugno duro. Quanti registi vorremmo avessero queste qualità! Senza mezzi termini, fustigatori e critici sino all’insofferenza. Tanto da divenire un peso sullo stomaco, da essere palesemente impopolari. Lo è Scorsese naturalmente, come già detto nel precedente capitolo. Tuttavia quest’ultimo riesce ad essere “pop” almeno nello stile, nella messinscena e nel linguaggio. Sceneggiature deliziose e sopra le righe corroborano regie magistrali. Ma esistono poi registi alieni, che comunicano ancor più criticamente, per codici e con una regia molto meno ammiccante. E non si sta parlando naturalmente di un cinema onirico, angosciante e indecifrabile alla Linch né di un ormai datato surrealismo felliniano, ma di un regista che, probabilmente come Kubrick, si comincerà a comprendere tra qualche decennio per la potenza dei suoi messaggi. Infatti non si vuol credere fideisticamente che Cronenberg abbia avuto da giovane rivelazioni misteriche da una qualche entità suprema. Ma il suo cinema ha un non so che di… mistico. E la sacralità in questione varca i confini strettamente tecnici del mezzo cinematografico. I suoi film non sono mai esteticamente esaltanti. Nessun movimento di macchina vertiginoso, nessun preziosismo fantasmagorico. Perché è l’immagine del perfetto regista che compie un assoggettamento del medium ai messaggi da veicolare, andando contro ogni umana logica del guadagno che l’industria cinematografica mondiale propone. Non si avverte quasi mai la pesantezza della camera da presa perché non cincischia mai con quel giocattolino che tanto diverte registucoli (a confronto) come Nolan e Sorrentino. Quasi come l’opera si facesse, immensa e grandiosa, da sé. Quest’impronta glaciale da cinema europeo gli ha permesso di trattare temi scomodi e irritanti, di un’attualità terribile. Fino all’ultima sua fatica, irrecensibile forse. Ma in un periodo nel quale Cronenberg è precipitato nel più profondo oblio, parlare del suo cinema è sempre e comunque propedeutico. Passiamo, dunque, al film del secolo.

Già, perché Cosmopolis descrive, destruttura e infine condanna senza tuttavia alcun patema la società contemporanea e i poteri che ne indirizzano il percorso. Il tutto con una messinscena parecchio, troppo autoriale. Di un’autorialità ostentata come mai è successo col regista canadese, ma funzionale alla causa. Perché il film deve risultare snervante e logorroico all’ennesima potenza, ambientato in luoghi angusti, resi tali non necessariamente dalla loro limitatezza dimensionale (si pensi all’auto in cui è girato gran parte del film) ma dalla ossessiva e seriale presentazione di identiche tematiche in ogni scena, affrontate da personaggi diversi. Diverse visioni del mondo che stridono e infine collidono irrimediabilmente. Il film è incentrato sulle vicende dell’uomo finanziariamente più potente al mondo, che, per raggiungere il suo parrucchiere di fiducia, deve attraversare tutta la città, bloccata da manifestanti, anarchici, da un funerale di stato e dalla visita del Presidente. Un viaggio metropolitano filtrato da un microcosmo, quello della limousine, e da una galleria di personaggi ora astuti, ora intelligenti, ora guardinghi, ora apatici, ora disperati e spregiudicati. Che disquisiscono di economia, sembrerebbe. Anche, ma non solamente. Ciò che a noi comuni mortali sembra dibattito finanziario non è altro che dibattito cyber-finanziario, dunque tecnologico. Alt, perché si necessita di più di cinque minuti di silenzio assoluto per comprendere la portata terribilmente tsunamica del dialogo tra il protagonista e la bionda esperta di storia e teoria economica a metà del film. A nostro avviso è il punto focale. Perché si parla di cyber capitale, innanzi tutto. Di soldi dunque (e qui si torna a The wolf of Wall Street) irreali per chi investe e reali per chi incassa. Ma si parla soprattutto di tempo, di progresso dunque. Di come cioè qualunque cittadino medio si ribelli al potere (il che fa già comunque notizia, almeno in Italia, in Sicilia, ad Agira soprattutto) non perché conscio della propria condizione sociale (la rivoluzione di marxiana memoria) ma perché impossibilitato a seguire le orme della falcata del progresso, troppo veloce, troppo disorientante. I cittadini rimangono indietro perché, paradossalmente, preferirebbero avere di meno (di quel superfluo tecnologico). Perché vorrebbero che si ricominciasse a marciare a passo d’uomo, come non si fa più da tempo. Perché vorrebbero sia tutto un po’ meno pianificato e scandito dai martellanti tempi che la tecnologia e la finanza, maledettamente abbinate, impongono. “Viviamo in un perenne futuro”. Così presente da divenire il nuovo presente, perdendo quello autentico. Siamo proiettati, ci suggerisce Cronenberg, verso una destinazione che sembra non avvistarsi mai. Verso un mito da raggiungere cui cercheranno di approdare anche i nostri figli e figli dei nostri figli e così via senza sosta e soluzione. Viviamo per il futuro in un presente inesistente. Una corsa contro il tempo insomma! Non una rivolta per rivendicare diritti in campo lavorativo o sociale, ma per riportare il tempo al suo naturale e non coercitivo corso, strappandolo dallo statuto di “bene aziendale”. E questa forbice che vede da una parte i potenti e dall’altra insoddisfatte mine vaganti è ben rappresentata dalla netta frattura tra due piani del film: uno che potremmo definire inside (il contesto all’interno della limousine) e uno outside (all’esterno). E l’intuizione geniale di Cronenberg sta proprio nell’aver reso cyber-punk non l’ambientazione outside, ma l’interno della limousine e di aver dunque fatto attecchire l’atmosfera futuribile in un microcosmo asfissiante e aver invece ridotto (o semplicemente lasciato) all’osso il mondo circostante, quasi come se le scene outside fossero ambientate ai giorni nostri. La limousine è chiaramente l’habitat dei poteri forti, tecnologizzata e confortevole, ma l’esterno è atemporale, un mondo in balia di continui sovvertimenti, che non gode affatto del progresso perché ne viene fagocitato. E mentre il mondo scappa dal tempo e dal futuro, l’imperturbabile Pattinson non sente che qualche scossone o urto a quell’astronave che ha come veicolo, quasi come a lasciar intendere che il potere, a qualunque livello si trovi, non risente minimamente dei trambusti socio-economici (quando non è addirittura esso stesso ad orchestrarli). Anche la categoria dello spazio insomma tende a estraniare alcuni personaggi rispetto ad altri, ma elemento per nulla scontato è che ad essere rappresentato come emarginato e reietto non è il popolo, ma il potere. Con questa esplicito allontanamento del potere dall’outside, Cronenberg, a nostro avviso, avrebbe mostrato due aspetti distinti del mondo contemporaneo: da una parte si intuisce come la tecnologia abbia quasi lo scopo di costringere gli individui ad una rincorsa alla totale semplificazione e al totale annullamento di ogni sistema relazionale col mondo circostante, assimilabile persino ad un così piccolo ma così “completo” involucro come può essere una limousine (basti pensare alla stanza di ciascuno di noi, divenuta a causa di quella latrina di Facebook un apparentemente immenso universo); dall’altra Cronenberg ci mostra la disfatta dell’uomo moderno partendo però da una disillusa fiducia nei confronti di chi il potere, sia esso scientifico, sia esso finanziario, come in questo caso, lo incarna. Se insomma Scorsese provoca conati di vomito a coloro ai quali è indirizzata la sua critica, Cronenberg parla all’uomo. All’uomo dell’alta finanza, all’uomo di potere, ma innanzi tutto all’uomo, che è consapevole di essere ad un passo dal precipizio, nonostante sia troppo tardi. Un essere che inglobato in un mondo tutto suo decide, non senza remore, delle sorti del mondo (non solamente finanziario) senza averne un minimo contatto e di fronte ad un semplice monitor. Ma ci sono sequenze in cui il monitor si stacca e il protagonista deve per forza maggiore relazionarsi con l’outside. E a cosa mai può dedicarsi un uomo che sta segregato tutto il giorno in un’auto, dopo essere stato a contatto con tabelle informative, indici, percentuali e numeri da capogiro? S E S S O! Rincorrendo per esempio sua moglie, una donzella insopportabile e fastidiosamente indecifrabile e chiedendole di continuo di poter far l’amore, credendo che sia il modo migliore per consolidare il loro insolito e comunque sfasato rapporto. Oppure andando a letto con una sensuale componente della sua guardia del corpo. Nel momento cioè di massimo livello di capacità tecnologico-finanziarie raggiunto dall’umanità, l’uomo più potente del mondo ha un solo hobby extra lavorativo, il sesso. Come a voler dire che la reazione dell’uomo (stressato dal peso del potere e svuotato di ogni umanità) ad una vita da cani è liberarsi di ogni sovrastruttura e scatenare gli istinti primordiali, che diventano, paradossalmente, le reali e più genuine esigenze nonché le uniche, perché non finanziarie o virtuali. Anche la limousine è teatro di desideri sessuali, ma se nel primo caso è per lui un’esperienza insipida con una flaubertiana Juliette Binoche, è spontanea e irrefrenabile la “tensione sessuale”, come lo stesso Pattinson la definisce, che coglie una sua consulente che lo va a trovare in auto. Tensione sessuale che svela la reale natura umana, nascosta tra un pallottoliere di Wall Street, una disquisizione sul saliscendi del valore della moneta e una bottiglia sgretolata che funge da antistress. Il tutto durante un check-up che il protagonista è solito fare ossessivamente ogni giorno, in una sequenza tra le più memorabili della storia del cinema. Ipocondria pura mentre fuori regna l’anarchia. Ma tutto paradossalmente quasi senza malizia, perché il film rappresenta la degenerazione di un potere, quello finanziario o tecnologico, che sembrava aver illuso tutti con aspettative fuori dalla portata dell’uomo (lo dimostra il fatto stesso che Pattinson non si fidi delle macchine e ogni giorno cerchi di scongiurare l’avvento di gravi malattie). E come in molti suoi film, per esempio in Rabid, anche qui il carnefice è anche la vittima sconsolata del sistema da lui stesso creato, che gli si ritorce contro. In quel film era stato il medico che aveva osato sfidare le conoscenze fino a quel momento acquisite, adesso è l’introduzione di questi capitali cibernetici e di questi esasperati e irrefrenabili liberi mercati virtuali a costare la vita a Pattinson. È se alla fine riesce a raggiungere il parrucchiere (emblema dell’insoddisfazione esistenziale e malinconica delle vecchie generazioni – stordite, palesemente presuntuose e sorde – di fronte alla catastrofe imminente) è solo per arrivare puntuale alla sua “resa dei conti”. In questo film infatti, come detto, vi è un’apocalittica consapevolezza da parte dell’ormai navigato uomo d’affari: il prossimo ad essere sacrificato sarà lui, perché è chiaro che ormai l’asse del potere si è spostato dall’ambito politico a quello finanziario se non addirittura tecnologico (“Ancora ammazzano i presidenti?”, chiede sarcasticamente il protagonista al suo agente). La tanto vituperata politica ha in realtà perso il suo scettro, divenendo però una copertura, un diversivo per chi ancora crede come noi che il problema sia questo o quel politico nazionale. Il problema, semmai, sarebbe per chi lavora questo o quel politico nazionale, a quale Mangiafuoco finanziario deve rendere conto. È il fallimento dello Stato come istituzione, si diceva nello scorso capitolo. E si ripete nuovamente, perché se il mondo ha deciso di affidarsi, sembra tuonare Cronenberg, a uomini di finanza, è perché reali cambiamenti e ribaltoni la politica non ne ha mai realmente conosciuti. Dunque è sì un film che mette al patibolo il mondo finanziario, ma che molto intelligentemente mostra come al potere economico non ci sia alternativa e la politica, nel film, non esiste affatto. Vi si può leggere persino un fallimento della nozione di democrazia, “regime” da sempre illusorio e forfaittario, che si serve di espedienti balordi (per esempio le invenzioni tecnologiche, per rimanere in tema) che facciano da contentino per un popolo che crede ancora a Babbo Natale. E se il cinema è l’universale che allude ad un particolare allora non è necessario andare troppo lontano. Perché non si parla qui solamente di poteri nazionali o sovranazionali. Basta osservare Agira! Il nostro paesino è il manifesto del fallimento di una politica appiccicaticcia, condotta per vent’anni circa da individui inspiegabilmente (data la loro incompetenza intellettuale) millantatori quanto mai. Essi, a differenza del protagonista di Cosmopolis, per esempio, il quale, in conflitto con se stesso, sa di meritare la morte, crederanno a fine mandato di aver portato a termine un buon lavoro, poiché mai ostacolati da nessuno. Tutti i rappresentanti politici del nostro paese dovrebbero pertanto sorbirsi questo film, perché servirebbe a sedarli, sconvolgerli, terrorizzarli (ammesso che almeno Cronenberg riesca a farlo, anche se dubitiamo di ciò). Perché è un film che tiene basse le aspettative del potere, minacciandolo non di un’eventuale rivalsa della coscienza di classe, ma della follia di singoli individui, depressi ed esanimi. E l’inaffidabilità della politica permette che il potere si sposti verso l’asse economico, che la gente cioè si affidi a realtà nuove e “straniere”, a grossi imprenditori cioè che creano sì necessari posti di lavoro in grossi centri commerciali ma che smembrano e delocalizzano l’universo cittadino neanche fosse un’industria automobilistica, smantellando ogni realtà artigianale. Ancora una volta si guardi Agira. È un progresso che non è affatto modernità. È l’eutanasia di cui ci accontentiamo.

Gabriele Santoro

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UN MATRIMONIO DA FAVOLA

 

UN MATRIMONIO DA FAVOLA

Cinque compagni di liceo, inseparabili a scuola, si ritrovano vent’anni dopo la maturità. Daniele (Ricky Memphis), l’unico ad aver fatto carriera, invita tutti al suo matrimonio a Zurigo con Barbara (Andrea Osvart), la figlia del noto banchiere svizzero per cui lavora. Gli ex compagni accettano entusiasti: è l’occasione per una rimpatriata, anche se per loro la vita non è stata altrettanto generosa, ognuno aveva mete e sogni ma nessuno è riuscito a realizzarli. Rivedendosi i cinque amici ritrovano il calore e la complicità di un tempo ma si trovano anche a rimettere in gioco le loro vite e le loro aspirazioni. Durante quel lungo week end in Svizzera avranno modo di raddrizzare i loro destini, in una girandola di equivoci, situazioni comiche e rocamboleschi colpi di scena in cui i cinque faranno saltare i loro precari equilibri ed ognuno finalmente troverà il coraggio di esprimere la sua vera natura. Il matrimonio di Daniele non sarà esattamente “da favola”, ma i cinque ex compagni si ritroveranno dopo vent’anni come il giorno della maturità, pronti a ricominciare le loro vite.

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ALLACCIATE LE CINTURE

 

ALLACCIATE LE CINTURE

 

Gli amori e il tempo. Ma non sono amori qualunque. Quello di Elena (Kasia Smutniak) per Antonio (Francesco Arca) è una passione improvvisa, travolgente e corrisposta. Ma è una passione proibita: Elena sta con Giorgio (Francesco Scianna) mentre Antonio è il nuovo ragazzo della sua migliore amica Silvia (Carolina Crescentini), e in più tra i due sembra non esserci alcuna affinità, né tantomeno stima. Ma l’attrazione tra Elena e Antonio esplode ugualmente, irrazionale, bruciante e contro ogni regola anche a scapito di scompigliare le vite di tutti, amici e parenti. Sono trascorsi 13 anni, Elena è sposata con Antonio, ha due figli e nel frattempo insieme al suo migliore amico Fabio (Filippo Scicchitano) ha realizzato il suo sogno di aprire un locale di successo. Le vite di tutti sembrano realizzate e le antiche turbolenze scomparse. Il nuovo equilibrio subisce però una scossa…

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BELLE & SEBASTIEN

 

BELLE & SEBASTIEN

 

Durante la seconda guerra mondiale, il piccolo orfano Sebastien trova l’amicizia di Belle, una grande femmina di cane dei Pirenei che abita nei boschi attorno al paese e che dovrà difendere da chi la ritiene un feroce e pericoloso predatore. Belle e Sebastian riusciranno infine a dimostrare tutto il loro valore portando in salvo al di là delle montagne una famiglia di fuggitivi inseguiti dai militari tedeschi.

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BORN IN THE U.S.A. (su “300″ di Snyder)

Eccessivo relativismo etico-morale. Lassismo bello e buono. Gratuita indulgenza. Ecco il trittico della rovina del mondo della critica cinematografica. Certo, è pur sempre vero che ci sono livelli e livelli di critica. Ma molto spesso si sottovalutano situazioni che andrebbero maggiormente e più criticamente studiate. Sospendiamone il giudizio perlomeno. Perché film che sembrano non essere minimamente “impegnati” non vengono sufficientemente sezionati e analizzati, così da permettere addirittura che serpeggino all’interno di quella giungla che si chiama cultismo. E cult, ahimè, è divenuta pure la defecazione hollywoodiana del secolo, la più “danzante e galleggiante merda” che la cinematografia statunitense abbia prodotto negli ultimi anni, l’apoteosi dell’inimmaginabile vuotezza che il cinema può spesso raggiungere: 300. Saltate pure dalla sedia! Perché questo film è davvero entrato nell’immaginario cinematografico dell’ultima generazione. Inamovibile e gagliardo, sta lì, mai criticabile e forte di un cospicuo successo al botteghino. Allora perché inveirvi contro? Perché dobbiamo cestinare per un attimo ogni forma di relativismo e tornare a definire male ciò che è male e bene ciò che è bene. Almeno cinematograficamente parlando. E cestiniamo pure ogni forma di moralismo, affinché ciascuno possa comunque esser libero di seguire il male, a riguardo. Ma, ripeto, consapevolmente! Essendo preventivamente consci, cioè, che ciò cui assistiamo non è cinema, ma spettacolo circense. Perchè sottovalutare qualcosa di mediocre, in epoca post-moderna, significa elevarla a rango di elegante intrattenimento e nobile disimpegno. Si diffidi dunque da chiunque proponga questo (come molti altri) film come un piacevole action-movie. Il che dovrebbe già far dubitare della sua valenza, essendo esso un film di “guerra”. È vero, è tratto da un fumetto, ma di un episodio bellico pur sempre si tratta e la guerra nel cinema (e non solo) non dovrebbe intrattenere. E tale genere ha un’atavica condanna (o più un rischio) che lo rende difficile da avvicinare: la componente retorica. Ad essa è infatti molto incline aprioristicamente ogni film di marchio statunitense che tratti di guerra. Perché ne è un po’ il distintivo nazionale, il naturale scenario d’azione. Ma da sempre alcuni cauti registi (da Kubrick a Scorsese, da Cimino a Coppola) hanno saputo, seppur Americani (senza offesa!), a consegnare al mondo i più grandi capolavori di tale genere. Perché i panni sporchi si lavano in casa, si sa. E solo chi vi abita ne conosce le magagne. Non è un caso, dunque, che i più grandi autori abbiano parlato d’America da Americani e in stile americanissimo (chi più chi meno), ma in funzione antiamericana. “Sì ma andiamoci piano, sono piani diversi, qui non si vuole paragonare 300 a grandi capolavori”, qualcuno potrebbe ribattere. “Lassismo bello e buono e gratuita indulgenza”, ripetiamo ancora una volta noi. Perché non chiamiamo in causa solo le scelte stilistiche di Zach Snyder, il regista di questo polpettone, ma l’impostazione di fondo del film, prima di tutto. È difatti un film non tanto “americano” quanto fastidiosamente “americanista”. Ma che c’azzecca l’episodio delle Termopili del 480 a.C. con le vicende contemporanee degli Stati Uniti? Naturalmente nulla, se non indirettamente. E come si è più volte sbraitato in questa sede, la propaganda si serve del cancro democratico-mediatico per penetrare indisturbata anche nelle sale cinematografiche. Ma i tempi son cambiati. E risulta essere una propaganda blanda, fuori luogo e anacronistica, seppur presente. Dunque ancor di più oggetto di critiche incondizionate. Ma vediamo perché.

300 soffre di una sindrome a stelle e strisce che potremmo definire del “war-revenge-movie”. Per intenderci: tutto quanto possa rappresentare filmicamente una rivalsa bellica post-Vietnam fa brodo nel calderone chiamato Hollywood. Il tutto rinnovato da una dimensione post-11 settembre. E qual è il miglior modo per inneggiare nazionalsocialisticamente o anche solo patriotticamente ad una certa (vana)gloria statale se non rappresentando un mondo addirittura a.C., antesignano in tutto e per tutto dei valori militari americani e delle millenarie lotte contro l’Oriente? Cercare nel più remoto passato un’autolegittimazione è però un percorso tanto furbastro quanto balordo. “Ma cosa importa”, direbbe qualcuno. E allora ecco servito il mezzo polpettone, apprezzato in tutto il mondo, Italia compresa, Sicilia compresa, Agira compresa. Chi non ricorda la foga di noi ragazzi appena usciti dal cinema, galvanizzati fino all’esasperazione o persino commossi alla sola idea che un’esigua falange potesse frenare l’avanzata di un esercito potenzialmente infinito qual era quello persiano, che da loro sia dipeso il primo tentativo di difesa dell’autonomia proto europea, ecc ecc ecc. Balle! Potremmo replicare. Volendo fare, comunque a buon diritto, i puritani, diremmo che “in guerra non ci sono buono o cattivo, tanto meno vincitori o vinti, ma solo fratelli che si scannano”. Ma più semplicemente diciamo, come ormai è chiaro, che quella battaglia ha rappresentato i prodromi della Guerra del Peloponneso scoppiata cinquant’anni dopo. La si può leggere, infatti, come un episodio di contrasti egemoniali tra Atene e Sparta, di lotte intestine e sgarbi reciproci (alle Termopili difatti non c’erano gli Ateniesi, per “obblighi” religiosi, come a Maratona dieci anni prima non c’erano stati gli Spartani per le stesse ragioni; ripicca?). Da questo punto di vista l’episodio si può piuttosto interpretare come uno dei primi esempi di acuta scissione e rottura tra potenze europee e di come sia pressoché impossibile creare una lega interstatale se non subordinando una di esse a qualche altra. Di come sia impossibile (e ingiusto?), potremmo aggiungere in ultima istanza, creare un’unione interstatale, e basta. E, con un po’ di onestà, non sarebbe male ammettere che, storicamente, i comunque esigui fallimenti dell’esercito spartano erano dettati dal deficit numerico che lo caratterizzava (peggio per loro, quasi quasi!), dal momento che erano ammessi nell’esercito i soli Spartiati. E mettiamo pure che fosse un sacrificio, quello spartano alle Termopili, degno di gloria. Sicuramente, tuttavia, non sarebbe una vittoria di tutto l’Occidente sul barbaro Oriente. Men che meno una vittoria americana, è chiaro! Ma sembra esserlo allorquando ci addentriamo nell’ambito delle esilaranti scelte stilistiche fatte dal regista. Roba da accapponare la pelle.

Premettendo che non credo fosse necessaria una parodia come Treciento per riderci un po’ su ma che 300 è già la riuscitissima parodia di sé stesso, la ridicolizzazione del cinema inteso come medium raggiunge esiti inaspettati. La sublimazione del carnascialesco che si prende tuttavia sul serio (ed è questo il terribile ed inquietante problema), con quei costumi da martedì grasso con annesse tute color pelle che riproducono un fisico aitante e scolpito, non restituisce nulla di fumettistico, ma molto… simpsoniano. Uno spettatore insomma un tantino più “retrò” (o semplicemente non così tanto impantanato in questo nauseabondo cinema esclusivamente computerizzato), alla visione di questo lungometraggio, non saprebbe se ridere o chiamare il caro Snyderone per dargli un consiglio su come trascorrere le giornate qualora scegliesse preventivamente di abbandonare il mondo del cinema. E motivi per ridere ne troviamo a bizzeffe. Partiamo dagli espedienti meramente tecnici. Tra questi ve ne è uno che, non so a voi, creerebbe acute repellenza e insofferenza anche ad un bradipo: il rallenty. Cala il sipario. Ebbene sì, perché si può considerare la più retorica tra le tecniche cinematografiche e usarlo significa rischiare, sempre, di cadere nel pacchiano (il primissimo Sorrentino, per intenderci, lo usava poco o niente). Se ti chiami Anderson, naturalmente, cali deliziosamente l’asso del rallenty in Magnolia, nel fantastico piano sequenza del bar. Ma ti chiami Snyder e lo usi persino quando gli Spartani smussano gli scudi trafitti da frecce, quando infliggono colpi partiti (il colmo!) a velocità naturale, quando subiscono il primo impatto con l’esercito si Serse, quando trascinano epopeicamente un semplice piede nella polvere sottostante o quando un soldato trafigge da lontano un rinoceronte attendendo impassibile che la bestia cada a terra. Ma esperimento che tutti dovremmo fare prima di esalare l’ultimo respiro è tentare di riprodurre 300 interamente a velocità naturale. Il risultato? Un cortometraggio forse. O comunque la sua durata sarebbe di gran lunga ridotta. La morte insomma della componente narrativa di un film. Una mega masturbazione, fatta pure male. Il rallenty, in 300 come in altri film, è un po’ come Montolivo nel Milan, tanta tecnica (solo apparente) ma nessuna efficacia. Ma il paradosso prende forma, tuttavia, solo quando a siffatte scelte si accosta una sceneggiatura che rivela falle imbarazzanti proprio perché in essa si abiura ogni componente retorica che a quanto pare non può essere presente nell’austero mondo Spartiata: “Non c’è spazio per la tenerezza a Sparta”, sentenzia la più stucchevole e quanto mai patetica voce narrante della storia del cinema mondiale. Sì certo, come no, ce ne eravamo accorti. E ci siamo pure accorti, come detto, di quanto la figura dello spartano modello sia plasmata a immagine e somiglianza di quella dell’americano doc. Di quanto il più rappresentativo condottiero nonché re, l’odioso (almeno nel film) Leonida, sia perfettamente assimilabile a qualunque presidente americano dedito alla guerra, democratico o repubblicano. L’autoerotica frase “Solo le donne spartane partoriscono veri uomini” sembra sottendere la possibilità di sostituire la quarta parola con “americane”. E l’orrore prende vita allorquando, vedendo il film in lingua originale, gli Spartani parlano magicamente americano. Snyder e tutti gli sceneggiatori avranno naturalmente pensato (ci mancherebbe!) di non tediare troppo i destinatari del film e spendere tutti i denari e il tempo a disposizione in effetti speciali e computer-grafica, anziché magari spremere un po’ più le meningi e far parlare i protagonisti del film in greco antico (Clint Eastwood docet in Flags of our fathers e Lettere da Iwo Jima con la lingua giapponese), operazione eventualmente apprezzabile. Macché, quell’americanazzo di Leonida sta ritto e tronfio nel cuore della notte, tutto ignudo come un bronzone di Riace, a contare le stelle. Che scena atrocemente straziante! E pateticamente tronfio risulta anche essere il tifo da stadio su note rockeggianti in occasione del naufragio iniziale delle navi nemiche. Fascistite acuta. E lo spettatore non può non parteggiare per tale stile di vita sin dall’inizio. Da quando si illustra la misantropa pratica dell’agoghè (il duro addestramento dall’età di otto anni) a quando gli ambasciatori di Serse si imbattono per la prima (e ultima) volta in Leonida mentre quest’ultimo è intento, guarda caso, a impartire un’inopportuna lezione di sano combattimento al figlio. E il nemico dei Greci diventa nostro nemico. Il nemico degli Americani diventa nostro nemico. Guarda un po’… proveniente dall’Oriente. Vietnam e soprattutto Medioriente (per ovvia ambientazione) sono dunque più che semplici fantasmi.

E nei giorni dell’uscita del sequel-midquel che narra della battaglia di Capo Artemisio, anch’essa del 480, due potrebbero essere gli antidoti all’effetto collaterale: o lo si fruisce con la totale consapevolezza (ma profonda questa volta!) che si tratta di anticinema o non lo si guarda affatto. Premettendo che per ben comprendere come si faccia cinema va sempre vista anche la monnezza, così da rendersi conto, parallelamente, di come il cinema non lo si debba fare, annulliamo subito la seconda alternativa. Ma non restiamo imbrigliati nella morsa della tarantola americana, perché è chiaro il messaggio: l’America avrebbe colto il meglio da ciascuna delle antiche civiltà greche. La sintesi insomma, tra un film e l’altro, del valore delle armi spartano, che si innalza solo per una giusta e onorevole causa contro ogni forma barbara di (in)civiltà, e dei valori social-democratici di Atene e del suo impero (se di tali valori si può sempre parlare, in quanto solo luoghi comuni). E come Reagan qualche decennio fa fraintese (volontariamente?) il messaggio di una nota canzone di Bruce Spriengsteen strumentalizzandola e usandola per la sua campagna elettorale, allo stesso modo noi guardiamo 300 come un film adrenalinico, sul sacrificio umano o sulla forza di volontà che trascende le possibilità umane e bla bla bla. Non è nient’altro che un film stupidamente reazionario, che ci propone falsi miti o idoli storici. Basta dunque col cinema apologetico! O almeno non così sfacciatamente tale.

Gabriele Santoro

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