ANCORA TU, MA NON DOVEVAMO VEDERCI PIU’? (Su “Dunkirk” di Nolan)

“Vizi di forma”, parte seconda. Qualche tempo fa ci arrogammo il diritto di sbeffeggiare Sir Christopher Nolan, mettendo alla berlina il suo presuntuosissimo Interstellar. Adesso, uscendo dalla sala dopo aver visto Dunkirk, ci ritroviamo meno intellettualmente minati. Rimane tuttavia ostacolata un’eventuale valutazione assolutamente positiva del film. Ostacolata da una sinistra tendenza, dal parte di Nolan, all’eccesso. Divenuta proverbiale ormai, almeno tra i detrattori del regista.

Dunkirk non è un brutto film, sia chiaro. Già la dotta citazione della prima sequenza, ispirata ad una storica scena di un film dell’ungherese Bela Tarr, conferisce una maggiore connotazione artistica al film. E anzi, spingendoci oltre, ci sentiamo di definire i primi 40 minuti un vero capolavoro del genere.  La messinscena è inoltre senz’altro gradevole, ottemperando ai dettami di quella tanto allettante e proficua ondata di cinema cosiddetto “iperrealistico” che sta coinvolgendo il mondo (la denominazione categorica è quanto mai arbitraria). Ma, se da una parte i vari Garrone e Inaritu si mantengono ancora entro i margini che tale scelta cinematografica impone, c’è chi, dall’altra, non riesce a tenere a freno il proprio piglio virtuosistico. La semplice ostentazione registica diviene, con Nolan, vera e propria smania di eruzioni audio-visive. Vanesio diviene Vesuvio, per intenderci. Ma cosa fa davvero di Nolan Christopher Nolan? La sua peculiarità, spacciata per capacità dell’universo cinema di reinventarsi continuamente, è in realtà degenerazione, scadenza, totale stucchevolezza. Partiamo dal montaggio: in Dunkirk risulta ben lontano dalla maestria mostrata in Memento, dallo stile incalzante e quasi rocambolesco, seppur ancora gradevole, di The Prestige e dei Batman. Nella sua ultima fatica riesce persino a confondere le idee sovrapponendo piani temporali, gettandoli alla rinfusa nella straniante centrifuga temporale che emerge dal film. Potrebbe pure aver un senso contaminare il genere bellico con una conduzione temporale inusuale e originale. Ma in tal caso l’originale si tramuta in totale frastornamento. Lo spettatore, perdendo a fine film ogni cognizione spazio-temporale, non riesce a comprendere cosa nel film avvenga prima e cosa dopo. Le lunghe sequenze e i richiami analettici decentrati richiamano alla mente illustri predecessori, da Lumet a Tarantino. Ma se in questi ultimi casi la visione risulta piacevolissima e la scelta di montaggio appare funzionale alla narrazione, nel caso di Nolan il tutto appare affettato. Forse, verrebbe da pensare, è proprio il genere bellico a non permettere eccessive manipolazioni estetiche e stilistiche. La grammatica cinematografica presenta delle restrizioni, a volte persino marziali, che non consentono estreme libertà di realizzazione. La guerra non può essere trattata con dinamiche thrilleristico-americanistoidi da film ad effetto e aprioristicamente in corsa per l’oscar.

A proposito di quest’ultimo aspetto, verrebbe da applicare un solo aggettivo a questo film: sgrammaticato. Abbiamo analizzato il montaggio, ma non il metodo strettamente narrativo che Nolan decide di portar avanti. E proprio un determinato aspetto di esso determina la nostra negativa valutazione: la colonna sonora. Già, una colonna, che sembra crollare sotto i colpi delle armi da fuoco e dei bombardamenti e seppellirci definitivamente. A memoria d’uomo, infatti, non sovviene un film più inutilmente chiassoso di Dunkirk. Nessuno si permetterebbe di gettare in tal modo benzina sul fuoco, ma Nolan, da marpione qual è, lo fa con la nonchalance tipica dello studente capace ma insolente. Il suo collaboratore musicale prediletto, Hans Zimmer, sembra trovare pane per i propri denti caricando a salve l’intero film, che risulta musicato dalla prima all’ultima scena (non è una considerazione iperbolica, ma la pura realtà: dalla prima all’ultima!). Come abbiamo più volte ribadito in questa sede, Nolan ignora le salvifiche norme del buon cinema e le disattende in modo integrale. Il consueto sviluppo narrativo che caratterizza un film “grammaticato” prevede una graduale scalata verso l’apice narrativo, verso l’acmé, non una rincorsa contro il tempo. Il film preme perennemente sull’acceleratore, inflazionando e svalutando l’idea stessa di azione scenica, che diviene in realtà banale routine. È insomma un continuo svolgimento, senza un cauto esordio o un finale narrativamente risolutivo. Da questo punto di vista il cinema di Nolan sembra rappresentare l’alter ego manierato (ma nemmeno troppo) di un Bay o uno Snyder. Dei peggiori registi del pianeta, per intenderci.

Un piccolo accenno, poi, al finale. Tronfio, terribilmente anglico (e di certo non sassone: il nemico tedesco non si vedrà mai nel film, se non nel finale e fuori fuoco; scelta azzardata, ma, questa sì, particolarmente originale). Per una volta, tuttavia, siamo un tantino lieti di assistere alla lode, seppure sperticata, nei confronti di una vera patria come l’Inghilterra, biasimevole o meno che sia, ma autentica civiltà (in contrapposizione alle apologie filmiche del surrogato culturale a stelle e strisce).

Da quanto detto finora sorge una nostra ultima e forse estrema considerazione: il cinema così tanto osannato di Nolan è lo specchio dei nostri tribolati tempi. In cui ci si avventura in una sfiancante rincorsa all’originalità, in cui il normale è alieno perché banale, e l’alieno diviene originale, ma tremendamente modaiolo. Una regia posata e ligia alle norme grammaticali di cui sopra non può più avere spazio nel cinema contemporaneo, come nella letteratura e nella musica. Ma forse per un’unica ragione: non c’è più nulla da aggiungere all’arte. E proprio per questo ogni postilla va sbraitata, altrimenti non viene recepita affatto. Ma ciò che non si comprende è la vanità di tale operazione: ogni eccesso stilistico (a meno che non si tratti di sinceri tentativi di scuotere lo spettatore) finirà nel dimenticatoio, persino quello. Tanto rumore per nulla, verrebbe da dire.

Gabriele Santoro

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IT

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Adattamento dell’omonimo romanzo di Stephen King, IT si incentra sulla prima parte del racconto, ambientata negli anni 80. Il palloncino rosso che galleggia a mezz’aria è il biglietto da visita di una misteriosa entità demoniaca che tormenta i ragazzini di Derry, attirandoli in una trappola mortale senza vie di scampo. Nell’immaginaria cittadina del Maine dove la gente scompare senza motivo, l’ennesima vittima è un bambino di sette anni di nome George, risucchiato in un tombino durante un temporale. Un gruppo di ragazzini perseguitati dai bulli per diverse ragioni, si riunisce sotto la denominazione di Club dei Perdenti per indagare sul mistero della morte di George e degli altri ragazzi scomparsi. Leader dei Perdenti è il giovane Bill Denbrough (Jaeden Lieberher), fratello maggiore dell’ultima vittima, attanagliato dai sensi di colpa per non aver impedito il brutale assassinio. Al suo fianco, bersagli naturali dei prepotenti per indole, aspetto o condizioni economiche, ci sono il grassoccio Ben (Jeremy Ray Taylor), l’impulsivo Richie (Finn Wolfhard), il pragamatico Stan (Wyatt Oleff), l’appassionato di storia Mike (Chosen Jacobs), l’ipocondriaco Eddie (Jack Dylan Grazer) e l’unica ragazza della banda Beverly (Sophia Lillis). Quando la ricerca li conduce a un clown sadico e maligno chiamato Pennywise (Bill Skarsgård), ciascuno dei coraggiosi componenti del neonato Club si rende conto di averlo già incontrato prima.

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Il film, ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, racconta la drammatica evacuazione verso la Gran Bretagna di centinaia di migliaia di soldati alleati dalla spiaggia di Dunkerque sotto la minaccia dell’esercito tedesco.

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