“Roma non fu fatta di certo in un solo giorno”. Ma ciò che questo film lascia intendere è che basti un solo giorno, anzi una sola lugubre notte, per farla crollare in un informe cumulo di macerie. Si badi bene: Suburra, il film di cui stiamo parlando oggi, non può e non deve essere un argomento in più che possa corroborare le già fragili e demagogiche tesi di qualche partituccio nordista che inveisce quotidianamente contro Roma ladrona. Perché è un film che narra del tragico e indecoroso tonfo non tanto di Roma o dell’Italia tutta, ma dell’intero Occidente. Chiunque si voglia chiamare fuori dal turbinio di sensazioni, casuali coinvolgimenti, disonesti sgambetti, furie omicide e represse pulsioni animalesche di cui il film è pregno, lo faccia pure. Ma si ricordi che non ci si può chiamare fuori dalla squallida involuzione della società (in)civile, cui tutti apparteniamo, che questo film ci sbatte in faccia. Tonfo, fragoroso, si diceva. Che tuttavia non provoca, in chi vi assiste, biasimi di alcun genere. Ma tanta, troppa compassione.
Trama: una notte di novembre, una settimana circa prima delle dimissioni di papa Benedetto XVI e di Silvio Berlusconi, un politico corrotto si intrattiene con due escort, consumando una notte di sesso e droghe. Ma la morte di una delle due e il conseguente tentativo di celare l’accaduto da parte del politico, provocherà una spirale di violenza che coinvolgerà tutta la malavita romana e i suoi interessi. Suburra è un film spudoratamente storico, rivestito da quella salvifica membrana protettiva e permissiva che si chiama cinema di genere. Difatti, diversamente da quanto faccia un pur magnifico film come lo spagnolo La ballata dell’amore e dell’odio, in cui in simile fattura eventi realmente accaduti e storie romanzate risultano solute, qui il regista Stefano Sollima elabora un processo inverso: protagonista assoluta, a nostro avviso, è la storia ufficiale, quella italiana del novembre del 2011. Essa, che sembra fare da semplice cornice sussumente, in realtà condiziona incontrovertibilmente la sorte di tutti i protagonisti che un minimo ne sono all’interno. Non è un caso, infatti, che i più disgraziati e dannati del film, Viola “la tossica” e Sebastiano “il pr”, siano gli unici a farla franca, perché personaggi astorici, perché altrimenti facilmente dimenticabili (in questo ci troviamo invece sulla stessa scia de La ballata dell’amore e dell’odio, assistendo anche qui ad una furente ma ingloriosa rivalsa degli ultimi della classe). La storia ingabbia, assoggetta, devia il naturale corso degli eventi dei protagonisti, influenzandone gli esiti inevitabilmente apocalittici: il papa rinuncia al soglio pontificio e per tale motivo un cardinale è impossibilitato ad imbastire una trattativa con il “Samurai” che sembrava in dirittura d’arrivo; il governo Berlusconi frana e l’onorevole Malgradi vedrà sfumare il progetto che avrebbe cambiato il volto di Ostia, di tutta Roma e le sorti della sua opulenta fondazione. Ma Viola e Sebastiano non fanno parte di alcuna dinamica storica. Le loro personalità, dedotte dalla voce “anonimato”, evidenziano un cortocircuito narrativo che fa ergere i due personaggi a entità post-apocalittiche che non solo non fanno storia, ma la annichiliscono attraverso la cronaca nera. Come detto, tuttavia, la loro rappresenta una rivalsa ingloriosa (e non di certo manichea) che soddisfa semplicemente il fisiologico bisogno di capovolgere una comunque soterica dialettica schiavo-padrone, un’assodata gerarchia. Dopo… si prospetta il nulla!
Ma Suburra non si ferma qui. Se sotto certi aspetti, appena esaminati, risulta un film titanico nell’approccio alla realtà che racconta, rivela altresì una natura intima nel delineare i tratti dei protagonisti. Tutti meritevoli di lode i personaggi scritturati, tutti caratterizzati da un impedente e rallentante complesso di inferiorità nei confronti dei predecessori o dei padri: come afferma Paola Casella (MyMovies) Suburra racconta <<le avventure di un gruppo di uomini cui viene continuamente ripetuto di non essere all’altezza del proprio genitore>>. La stessa scrittrice, tuttavia, taccerà questo film di incompiutezza. Noi azzarderemo invece un parallelismo con un’indagine filosofica sull’Occidente elaborata da un pensatore contemporaneo italiano, vale a dire Massimo Recalcati, per dimostrare come Suburra sia molto più di quanto dia a vedere la sua trama apparentemente trita e ritrita.
In uno dei suoi maggiori saggi, Cosa resta del padre?, lo psicoanalista Recalcati abbozza una prima teorizzazione del cosiddetto “complesso di Telemaco”. A suo avviso, all’approccio al padre da sempre sbraitato dagli altari dell’ignominioso Occidente, vale a dire quello dettato dal conflitto edipico, va affiancata una seconda tipologia di complesso, sempre di matrice classica. Essa fa riferimento, per l’appunto, al povero figlio di Ulisse, che aspetta per troppo tempo che una nave venga dal mare e gli riporti il padre che non ha mai conosciuto. Tutti, in quest’epoca di “evaporazione del padre” (come la definì Lacan), siamo un po’ come Telemaco: aspettiamo un segno da un orizzonte troppo lontano e muto; aspettiamo un cenno dal padre, sia esso biologico, sia esso civile o spirituale (l’immagine emblematica, a tal riguardo, è quella del frame della nostra copertina, in cui uno spaesato Elio Germano ricerca il padre tra le acque del Tevere). Dunque l’Occidente non guarda al padre solamente come ad un ostacolo al piacere incestuoso (Edipo) o all’autoaffermazione da incallito maschio alfa (di cui parla Freud in Totem e tabù), ma anche come ad un appiglio da ricercare, anche se invano, e a cui tendere. E il film mostra inquietanti esempi di tal genere. Se da una parte Sebastiano ha un rapporto nauseabondo col povero padre (troppo umile per entrare a far parte della sua viscida vita da comprimario sanguisuga della mondanità e che si toglierà la vita per i troppi debiti) e se “numero 8” sbrocca come un cavallo imbizzarrito ogni qual volta gli si nomini il padre (a detta di tutti, molto più competente e posato rispetto a lui), l’intera civiltà, dall’altra, assiste inerte all’imbiasimabile abiura dei nostri padri universali, rimpiangendoli. Di coloro insomma che, seppur nella più totale baraonda e con le dovute differenze, hanno per parecchio tempo saputo tenere a freno le derive apocalittiche. Nel film, queste figure paterne sono rappresentate dal “Samurai” in ambito malavitoso, dal papa in campo spirituale e da Berlusconi in quello civile. Esse scompaiono nella pioggia di un diluvio universale in cui Dio, questa volta, sembra non aver incaricato nessuno di preservare la specie (anche in questo caso, il padre non risponde). Suburra dunque non è un classico film di mafia. Protagonisti non sono il semplice sicario, il terribile killer, questa o quella vittima, ma protagonista è chi non si vede. Il papa e Berlusconi su tutti, i quali dettano i vettori per indirizzare un’intera civiltà, smorta e avvilita per la loro rinuncia. Ciò che a loro sopravvivrà, non importa. Non ci importa di papi che svenderanno in seguito la spiritualità a 50 centesimi, sulle figurine, in edicola e la concedono gratuitamente sui social networks; e non ci importa nemmeno del processo di privatizzazione dei servizi primari sbandierato da un premier che di sinistra ha solo il braccio sinistro. Non ci importa perché siamo già nell’apocalisse da un paio di anni. Tutto ci scorre addosso, come la pioggia incessante di Suburra.
C’è poi un piano politico cui rimanda il film. Alla luce di quanto detto sul “complesso di Telemaco”, lo stesso Recalcati, già parecchi anni fa, rimproverava tra le righe Berlusconi, indicandolo come il maggiore responsabile e fautore di un nuovo indirizzo esistenziale che tenga conto dell’assenza della figura paterna e pratichi una scissione tra libertà morale e responsabilità. Facendosi carico, egli stesso, di assurgere a figura paterna sostitutiva. E di questa scissione parla naturalmente il film, nella figura del parlamentare, ora discreto ed equilibrato, tra i banchi del Parlamento, ora erculeo e onnipotente, in preda a estasi orgiastiche, durante la notte. Un personaggio che ricorda il protagonista di American Psyco. Ma se in quel caso gli efferati omicidi erano dettati da una certosina e razionale elaborazione, anche senza assunzione di droghe, qui il peccato è indirizzato dalla condotta mondana, rivelandoci un personaggio in realtà debolissimo che si pavoneggia tra i fasti della politica ufficiale ma costretto a fare continuamente i conti con imprevisti contingenti. Il denominatore comune tra i due film è comunque la necessità di dover assecondare selvaggi istinti che il colletto bianco, di giorno, deve necessariamente sovrastrutturare. Il che fa dell’illuso onorevole il personaggio più disgraziato. Anche lui all’inseguimento di un padre (questa volta di partito) che, con una bellissima auto blu, nel concitato finale del film, sembra fuggire a gambe levate senza tuttavia designare un vero erede. Se 1894 anni prima, il più grande imperatore della storia dell’umanità, Traiano, designava un degno, anche se più moderato, continuatore della sua politica, vale a dire Adriano, la Roma caput mundi di adesso crolla perché senza alcun caput. Il vuoto!
Ma se sofisticamente dovessimo trovare dei difettucci in questo film, parleremmo senz’altro della prova non entusiasmante di Amendola, il quale, se non avesse proferito parola, avrebbe pure potuto ricevere un Oscar. Avremmo infatti preferito, al suo posto, un Fassari, comunque presente nel film, o un Zingaretti, volendo fantasticare (come ha ipotizzato l’esperto di noir Cortelletti). A livello stilistico, non ci sono falle evidenti. Il film ha un ottimo ritmo, un buon montaggio, cala di tono a dovere e si innalza quando è necessario (la scena dell’inseguimento all’interno del centro commerciale farebbe pensare infatti ad un involuzione della seconda parte del film verso l’americanata pura, ma da subito il film torna ad essere, cinematograficamente parlando, italiota).È forse, in certi frangenti, troppo a lungo sospeso, magniloquente e musicato,ma la colonna sonora, con la punta di diamante ravvisabile nel brano Outro, è davvero potente e gradevole. Unica recriminazione andrebbe fatta relativamente alla conduzione della camera da presa, troppo spesso a spalla, che sa molto di serie tv (ma perdoniamo Sollima, dal momento che la sua è una fallace deformazione professionale). Un plauso va invece al grande Favino, il quale sembra cambiare timbro vocale in ogni film (in questo caso citofonata ma calibratissima), dimostrando una sublime arte attoriale, e al giovane Borghi (che avevamo già conosciuto nell’intimo, toccante e spietato Non essere cattivo del grande Caligari), l’interprete del “numero 8”, ancora acerbo nella dizione ma supremo nel ruolo dello spietato e neonato boss.
In questa recensione abbiamo scomodato un po’ tutto e tutti, perché le pretese stesse del film erano alte. Ciò che tuttavia rimane indiscutibile è il senso di smarrimento che il finale incute. Chi lo ha definito un film troppo tetro, ha di certo colto il meglio. Perché, come è stato spesso ribadito in questa sede, solo realizzando un film privo di barlumi di luce e di ogni senso morale un regista concede la possibilità, allo spettatore, di redimersi. Di riplasmare il film, di renderlo altro da sé. E se le conclusioni tratte da Sollima non apportano alcuna speranza per le nuove generazioni, su cui il film sembra calcare pesantemente la mano, proprio noi giovani dobbiamo prefiggerci di tornare ai nostri padri e far capire loro che non tutto è perduto, affinché riprendano a guidarci. Per dimostrare a tutti che non siamo figli bastardi di un dio minore peraltro dimenticatosi di noi. Per risorgere dall’oblio storico e generazionale cui Viola e Sebastiano, giovani come noi, sembrano essere caduti, tentando invano e violentemente di ergersi contro i titani di sempre. Per tornare a Dio, ancor più che alla politica, restaurando il vecchio indirizzo morale. E se Ulisse non torna, be’… almeno ci abbiamo provato.
Gabriele Santoro
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