UN NATALE STUPEFACENTE

NATALE

Alla vigilia delle feste natalizie, zio Lillo e zio Greg sono improvvisamente costretti a prendersi cura del nipotino di 8 anni. I suoi genitori sono stati erroneamente arrestati per coltivazione di sostanze stupefacenti. I due zii sono molto diversi tra loro, e inadeguati a tale compito. Greg, single rockettaro, cercherà l’aiuto di Genny (Ambra Angiolini). Lillo, appena lasciato dalla moglie (Paola Minaccioni) e geloso del nuovo compagno di lei, un coatto tatuatore (Paolo Calabresi), approfitterà della situazione per riconquistarla. A complicare le cose, le visite a sorpresa di due zelanti ma bizzarri assistenti sociali (Francesco Montanari e Riccardo De Filippis) alla “strana famiglia”, per verificarne l’idoneità.

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ANDIAMO A QUEL PAESE

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Salvo e Valentino, sono due amici che rimasti disoccupati, abbandonano la grande città per rifugiarsi nel piccolo paese d’origine, Monteforte, dove la vita è meno cara ed è più facile tirare avanti. L’impatto con la nuova realtà non risulterà per nulla facile: i due si ritroveranno a vivere in un contesto diverso da quello che si erano immaginati: un paese pieno di anziani, da cui però è impossibile non poter trarne beneficio. Ogni anziano rappresenta una pensione, un bel bottino per i due disoccupati…

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LA RIVOLTA DI ABELE (su “Solo Dio perdona” di Refn)

A ritroso. Quasi dissacrando l’idea stessa di cinema. Ma almeno con molta poca ipocrisia conoscitiva. Perché è chiaro che in un’epoca di inflazione di offerta artistica, estetica, informativa, trovare qualcosa di reale valore è davvero arduo. Soprattutto per via dell’ammasso informe di monnezza che ci troviamo davanti. Ma a volte sembra ergersi, sul monte solitario chiamato “cinema d’autore”, qualche opera insolita per modalità propositiva, unica per realizzazione. E magari non si tratta che dell’ultima fatica di un regista di vero talento, da sviscerare, sventrare, prima di passare alle sue pellicole precedenti, ricostruendo un’intera poetica, persino a ritroso. Non lo si conosce di certo adesso, Refn, il regista di oggi. Che è riuscito a scuotere (se ancora ve ne fosse possibilità, in quest’epoca di surplus commerciale) chi non aspetta altro che essere scosso, stufo di assistere al Teatrino dei Pupi che il cinema è divenuto. Ma il suo film precedente, Drive, aveva lasciato l’amaro in bocca. Forse perché sconosciuto prima di allora (almeno a noi), il povero Refn. Invece Solo Dio perdona, la sua ultima pellicola, è riduttivo definirlo capolavoro. Lasciamo una volta per tutte queste accademiche categorie della critica minimalista a chi non abbia parole da spendere. Perché questo film ne merita, parecchie.

Trama: Bangkok; un giustiziere della notte, ex poliziotto, fa uccidere uno spacciatore Americano che aveva scannato una prostituta. La madre e il fratello dell’Americano provano a vendicarne l’esecuzione, ma non faranno che alimentare un vortice infinito di violenza. Solo Dio perdona è un film di certo crudo. Non tanto per le comunque reiterate sequenze sanguinarie, al limite del realismo scenico. Quanto più per la capacità di condurci alle visioni ematiche orripilanti provocando lo spettatore già da prima. Snervandolo sino all’insofferente esasperazione per poi accontentarlo visivamente con ciò che si ostina a ritenere bruto, eccessivo, violento. Film insomma provocatorio e nel contempo lassista, irritante ma infine oftalmicamente tonificante. Ecco che allora a piani sequenza rallentati ed apparentemente troppo prolissi fanno da contraltare stupefacenti (almeno nella realizzazione e nei trucchi e negli espedienti cinematografici) immagini di carni, ossa, orbite cavate, bruciature. Lo spettatore è prima seviziato e poi lasciato libero, proprio sul filo di un rasoio. Ed è disarmante come la tortura visiva non corrisponda a quella narrativa, anzi. Lo spettatore è sollevato dinnanzi al sangue, quasi come fosse abituale oggetto di fruizione; indispettito di fronte ad ogni altra inquadratura. È la testimonianza di un paradosso estetico, di un naif che diviene inevitabilmente di buon gusto. Perché girato bene, per carità. Ma non solo per questo. Il dialogismo è pressoché assente, ma sono i visi a parlare. In ottemperanza ad una messa in scena che ha molto di leoniano (come anche il titolo del film lo è, diretto, senza fronzoli o intellettualismi vari), Refn riesce a far conversare semplici sguardi, combattere tra loro ghigni e musi lunghi. È la sceneggiatura dell’estetica, nella sua forma probabilmente più alta, tra carrelli ostentati sempre più (sulle facce solo in apparenza smorte) e primi piani agghiaccianti. Un’estetica, inoltre, immersa totalmente nel genere. E che genere! Ed è questo, difatti, lo scarto con l’ultimo Sorrentino, per esempio. Impegnato, quest’ultimo, a immolare la totale fase estetica del suo cinema agli altari di un’autorialità che sa molto di pedanteria, futile decoro intellettuale. Refn strumentalizza invece la sua abilissima camera per un secondo fine: mostrare il marcio di tutto l’animo umano e le conseguenze dello stesso. Con uno stile ora noir, ora orrorifico. Per intenderci: il cinema di Refn, ma in particolare Solo Dio perdona, è plasmato sull’ultimo Cronenberg (cosiddetto “noir”) ma con una regia più “pop” (alla Coen, con un pronunciato, come detto, uso del carrello e del rallenty) e una componente onirico-straniante che guarda a Lynch come modello. Certo, abbiamo nominato il non plus ultra, ma non è una semplice smania filologica, quanto più un’inevitabile ed evidente nota di comparazione. La messa in scena è molto accattivante, lontana anni luce dalle inquadrature volutamente glaciali e poco coinvolgenti e commerciali del maestro Cronenberg, ma alcuni espedienti visivi non possono che rimandare a lui. O almeno al Cronenberg ultimo, quello degli inserti macabri mantenuti nel più totale noir e di una fotografia plastica, quasi tirata a lucido (alla Suschitzky insomma, storico collaboratore del maestro canadese), che si serve di primi piani grandangolari per disorientare l’occhio dello spettatore. Combinare insomma tre ingredienti (i maggiori registi viventi, probabilmente) che apparentemente potrebbero apparire indigesti non è cosa da poco. Refn ci ha provato e, a nostro avviso, c’è riuscito. Realizzando un film massimalista, magniloquente, nonostante si parli una volta ogni venti minuti. Una coscienza del mezzo cinematografico che potremmo definire artigianale. Che fa del regista un mestierante a tutti gli effetti, perché capace di catturare e ubriacare, all’occorrenza, con ciò che più sa fare bene: filmare. Il tutto orchestrato da una colonna sonora ora quasi tribale, ora elettronica (che rappresenta lo stridore di differenti culture che entrano in rotta di collisione). Sia chiaro: chi si aspetta gratuiti “mezzogiorni di fuoco”, può pure evitare di vederlo. Perché il film non è per niente vicino all’ultimo Tarantino, per esempio, che con Django sembra aver accelerato così tanto da andare vistosamente fuori giri. Niente fumettistiche e cartonate sparatorie al limite della repellenza, niente irrisorie fontane di sangue. Refn sembra piuttosto prenderlo sul serio, il sangue. Perché trattato con intensa drammaticità. Perché mostrato sino alla fine.

Funzionalità! Questa è la parola d’ordine, nel cinema. Funzionale deve essere la visione di un film. La saletta dove si fruisce. Il genere adoperato. Ma a cosa? Funzionale innanzi tutto ad un impegno, che sia culturale, intellettuale, sociale, anche solo antropologico. E il fallimento del Parnassianesimo, corrente poetica ottocentesca propugnatrice della mancanza di utilità nell’arte, risiede proprio in questo ambito. L’arte deve essere atta ad una visione della società da veicolare. Anche pure ideologica, da confutare o approvare. Ma un film deve sempre prendere una netta posizione, consegnando più domande che risposte, magari. Ma mai rimanendo nel salvifico ma aberrante involucro dell’ignavia. E questo film di personalità ne ha da vendere. Il messaggio consegnato allo spettatore, nel finale, è quanto più di straziante ma attuale vi possa essere: giù le mani dalle terre altrui! Con ciò stiamo ad indicare ogni forma di colonialismo, sia esso modaiolo, culturale, propriamente territoriale. E Refn ci sussurra questo imperativo approfittando della terribile e spietata figura del protagonista assoluto del film, che risulta essere, diversamente da quanto si possa pensare a primo acchito, proprio l’”angelo della vendetta”, l’ex poliziotto, Chang. Lo si sente parlare poco, quasi mai, ma agire tanto, anche troppo per un debole di cuore. Sotto la grandezza di una fissità espressiva senza precedenti nella storia del cinema, si cela una pluralità di espressioni etiche. Sotto la crudeltà (o sarebbe meglio definirla crudezza) si cela il calcolo razionale, il genio, “limpido, cristallino, puro”, direbbe il colonnello Kurtz di Apocalypse now. Ed è lampante il parallelismo con quest’ultimo capolavoro di Coppola, perché se lì era il popolo vietnamita a rappresentare una sistematica ed organizzata (al limite del possibile!) resistenza all’esercito straniero, in Solo Dio perdona non si parla di guerre, di embarghi o di qualunque altra infamia americana in tema di politica estera. Si parla solamente di preventivo e giustamente pregiudiziale ostruzionismo nei confronti di culture, consuetudini e indebite ingerenze che tentano di corrompere l’ordine costituito. E il film risulta essere una reazione alla politica americana da sempre anche solo economicamente e diplomaticamente interventista in Thailandia (seppur sia stata storicamente pacifica). E a compromettere l’equilibrio sociale, a determinare il kaos, è proprio uno straniero, ingordo di sesso e denaro, stupratore e spacciatore. Lì scatta la vendetta-giustizia (binomio solo apparentemente ossimorico, vista le labilità del confine tra i due termini in un paese in cui vige ancora la pena di morte). E scatta con una dedizione, una lucida freddezza e un’apparente mancanza di coinvolgimento emotivo tali da raggiungere l’obiettivo tanto agognato: ristabilire il kosmos, l’ordine. Ed è la stessa storia a legittimare sempre più l’inviolabilità del Sud-Est asiatico (e dell’Oriente tutto) a fronte di un modello di vita non omologato alle tendenze globalizzate, appiattite, occidentali, troppo occidentali. Un film seducente, mistico, mai cromaticamente variegato se non nel buio più totale. Un film rituale, in cui rituali sono gli omicidi di Chang, corroborati da gestualità e mimiche teatrali, solenni. E proprio come il maestro Cronenberg ne La promessa dell’assassino, il delitto efferato pertiene ad una legislazione altra, che un comune mortale non può comprendere, giudicare, biasimare. Perché motivato, questa volta. Perché quasi giustificato.

Capitolo a parte merita il personaggio interpretato da Ryan Gosling, che veste i panni del fratello dell’Americano morto. Premesso che Gosling è uno dei pochi eredi di quella classe di attori hollywoodiani che, come si suol dire, hanno un viso che sfonda lo schermo, la sua faccia non può che stare dove sta in questo film. Drammaticamente vuoto, quasi sempre. Provato e tragicamente espressivo, all’occorrenza. Un ruolo segnato dall’azione, ancor più di quello di Chang. Perché essa smentisce e dissacra la sua aria da duro e tenebroso. Perché essa non riesce a travalicare le continue ingiurie della madre. Un personaggio, quello di Gosling, continuamente stretto nella morsa dell’inerzia, dell’accidia. O della violenza gratuita, nella scena per esempio in cui due Thailandesi importunano appena la sua donna. Gelosia morbosa, repressa, la sua. Ma sarà l’unico ad accorgersi sin dall’inizio del pericolo corso mettendosi contro tutta Bangkok. E sarà l’unico, paradossalmente, a sacrificarsi per ripristinare le gerarchie. Un eroe intellettuale, in un mondo manesco e di ben altro metro di valutazione. Cui cerca comunque di adeguarsi, per complesso di inferiorità nei confronti del fratello morto e per profondo amore passionale nei confronti della madre. E quest’ultimo risulta essere un personaggio gretto, agli antipodi rispetto all’ideale di genitrice perfetta, portavoce di un assetto familiare ormai alla deriva, sin troppo progressista e matriarcale. Che non ama a dovere il secondogenito perché meno sessualmente dotato del primo, perché meno sessualmente virile. Secondogenito di cui sfrutta, tuttavia, l’iniziale mancanza di personalità, conducendolo ad uccidere il marito. E la maturità di Refn risiede proprio nell’aver proposto il complesso edipico in maniera completamente diversa e insolita. Infatti in questo film esso non si serve di un modesto erotismo per venir fuori, ma di una vera e propria mai celata ed estrema tensione sessuale tra madre e figli. Ma quando la madre (interpretata da una superba Scott Thomas) morirà per mano di Chang, il figlio dovrà rendere conto ad una divinità superiore e accantonare l’idea (già in lui fragile) di vendicare, a sua volta, la vendetta. Ed ecco allora la scena più potente e struggente del film, la quale, se esistesse un cinema un tantino più meritocratico, diventerebbe cult: Julian, il personaggio interpretato da Gosling, porge le sue mani perché Chang ne faccia ciò che vuole, affinché gli vengano mozzate. La violenza catartica è il prezzo per la libertà. Perché capace di proliferare omogeneamente la giustizia. E a farne le spese sono una parte del corpo emblema della nostra presunta libertà di agire, dimenarci, lottare. Per intenderci: quelle mani gli servivano ben poco, perché impossibilitate, già dal principio del film, a far godere l’uomo, mortificate nella loro essenza. Da annali, a riguardo, la scena in cui la giovane Thailandese si masturba davanti agli occhi di Gosling senza che questo possa reagire con altrettanta foga sessuale, perché con le mani legate alla sedia. Le mani dunque. Perennemente da Refn inquadrate, che divengono strumento dell’ira abortita ed implosa; simbolo di peccato, illusione e conseguente disillusione, inerzia, fallacia, impotenza, frustrazione, perdizione.

Giù queste mani da Caino, verrebbe da dire allora. Ma Caino è chi crede di poter applicare un certo stile di vita presso un altro popolo, non considerando le conseguenze che questo strafottente meccanismo ha in serbo. Anche nefaste, apparentemente disumane, ma necessarie, affinché il corpo estraneo venga estromesso da un organismo ad esso allergico. E l’Oriente risulta essere profondamente intollerante a noi Occidentali. Facciamocene una ragione! Anche e soprattutto ora, periodo in cui è in corso l’ennesimo intervento dei macellai statunitensi in Medioriente (che assume sempre più le fattezze di Chang). E tra un delirio di onnipotenza e la somministrazione quotidiana per endovena di una certa dose di esterofobia (solamente verso tizi con barba pronunciata, sottotitolati, molto sommariamente, Isis), chiediamoci pure il perché di questo rigetto. Altrimenti l’America e l’Occidente tutto rischiano di collassare vestendo i panni degli eroi indiscussi. Sarebbe ingiusto, immeritato.

Gabriele Santoro

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LA GENTE CHE STA BENE

LA GENTE CHE STA BENE

La gente che sta bene è una commedia caustica e brillante, ambientata in una Milano canicolare, popolata da un’umanità alla ricerca disperata di un modo per stare a galla – o quantomeno di un parcheggio vicino al ristorante – che racconta con spietata ironia il ghigno di un uomo che, giorno dopo giorno, ha sempre meno motivi per ridere. Nel film, Claudio Bisio interpreta “Giuseppe Sobreroni, un avvocato d’affari tra Milano e Londra – racconta Claudio Bisio – un narcisista, un mezzo bastardo che sguazza nel carrierismo più spinto ma finisce in crisi, preda delle sue fragilità. Una bella parte.”

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IL RISVEGLIO DEI DANNATI (su “La ballata dell’amore e dell’odio” di De La Iglesia)

Can che abbaia non morde, è vero. Ma mai svegliare il can che dorme, e questo è ancor più sacrosanto. No, state sereni, non è la solita pubblicità progresso che punta sulla sensibilizzazione cinofila. È solo… una metafora. E persino il cinema ci ha mostrato, per via dei suoi precedenti tematici e narrativi, che è da incoscienti scherzare col fuoco apparentemente spento con atteggiamento oltranzista. Abusare dell’apparente predisposizione di un individuo al patimento è quanto mai pericoloso insomma. Niente di nuovo sotto il sole, per carità. Ma è drammaticamente e sconvolgentemente nuova la modalità in cui ce lo mostra un film spagnolo del 2010, sconosciuto ai più, vincitore del Leone d’argento a Venezia (molto più affidabile di Los Angeles), ossia Balada triste de trompeta (La ballata dell’amore e dell’odio). Facendo tuttavia astrazione da premi più o meno arbitrari e da limitativi atteggiamenti più o meno pregiudiziali dovuti alla nazionalità del film, bisogna ammettere che, probabilmente, è uno dei migliori prodotti degli ultimi anni. Premettendo che è un film non facilmente metabolizzabile e che appare a primo acchito eccessivamente tronfio, scenograficamente parlando, e pompato all’esasperazione a livello di sceneggiatura, man mano che lo si assimila si smussa in tutte le sue spigolature. Il film narra le vicende di Javier, pagliaccio triste di una compagnia circense, il quale eredita la passione per il circo dal padre. Quest’ultimo era stato a sua volta un pagliaccio allegro e aveva combattuto al fianco del fronte antinazionalista e antifranchista ai tempi della guerra civile per poi essere condannato ai lavori forzati sotto il regime di Franco. Javier è innamorato della donna del pagliaccio allegro, uomo gretto e violento, e la sua opposizione al rapporto tra i due provoca un’escalation di violenza che culminerà con la morte della donna e l’arresto dei due. Al di là della trama, apparentemente banale e melodrammatica, è un film che sedimenta, alla stregua di Cronenberg, ma che, diversamente dai film di quest’ultimo, presenta un’ingorda fame scenica con un’acme finale, in occasione dello scontro frontale tra i due, trionfalmente e baroccamente esibito che nel regista canadese, per esempio (e per ovvie ragioni), non troviamo. Già, ragguagliamo il sommo regista all’autore di questo film, Alex de la Iglesia, non per manie di blasfemia, ma a buon diritto, dato che, in un certo qual modo, anche oggi parleremo di mutazione. Tema più spartanamente trattato, non inerente al piano fisiognomico, tanto caro al primo Cronenberg, ma a quello caratteriale, psicologico, mentale. Umano insomma, immerso totalmente in un mare di azioni, situazioni, sconvolgimenti e cause da cui prende avvio. E, paradossalmente, continuando su questo versante, de la Iglesia sembra mischiare coscientemente le carte, rendendo tra loro vicendevolmente implicativi livello genetico e livello psicologico dei personaggi, del loro dramma. Ma vediamo perché.

Già, abbiamo parlato di dramma. Con cognizione di causa. Non nell’accezione claudicante e fallace del “gergo” (perché di questo si tratta!) giornalistico, il quale lo identifica col termine “tragedia”, ma in un’accezione… etimologica. Perché questo film ha un non so che di teatrale. Drammatico, per l’appunto, prima ancora che tragico. E questa componente risalta agli occhi allorquando il film si apre come una voragine (nell’ultima mezzora per intenderci) e sembra fagocitare tutti i personaggi, spedendoli in una dimensione altra, quasi caricaturale, fumettistica, senza dubbio scenica. Le vicissitudini dei personaggi piombano in un immaginario teatro e lì sembrano risolversi acremente. Dal basso della nostra umile posizione di spettatori, sembriamo assistere ad una storia convulsa, confusa, accelerata vertiginosamente nel finale. Ma proprio il cambio di scenografia e ambientazione, divenuto proprio nel finale volutamente monumentale ed esagerato, rende paradossalmente credibile l’epilogo. Tutto viene elevato sopra le righe e sembra assistere al finale di una tragedia (questa volta sì) greca. Ma diversamente da quest’ultimo termine di paragone, non vi è alcun messo che ci racconti cosa sia successo fuori dalla scena. Il tutto è ripreso, o, per rimanere in tema, portato in scena. E ha anche una spiegazione l’ambientazione dell’ultima sequenza, vale a dire l’apice della croce che si erge sulla monumentale Valle dei Caduti. Lì infatti ebbero inizio per Javier tutte le tribolazioni familiari, col padre costretto da Franco a lavorare alla costruzione dell’opera. Lì deve verosimilmente finire tutto. O ricominciare forse, nella più desolante amarezza e tristezza. Senza una donna, senza la donna. Tremendamente misogino, a tratti, il film. Di una misoginia istintiva e non ideologica, naturale e innata, verrebbe da dire. Logica, insomma. Perché come una sorta di novella Elena, la protagonista del film, donna avvenente, spontanea e prorompente, rappresenta un cliché del genere femminile. Quello della belloccia media e fondamentalmente ingenuotta, che, pur nella totale (forse) buona fede, provoca la più inimmaginabile baraonda sentimentale, civile, umana. Ne rimane compromessa questa volta non una città di mitologico retaggio ma l’animo dei due protagonisti. Scissi sino all’esasperazione da una binomica visione della faccenda, ora tentativo di far valere il vero amore per una donna, ora pretesto per scatenare semplicemente una rabbia repressa secolarmente. Ed è questo il fulcro del film. Chi dei due amava realmente la ragazza? Di sicuro non il pagliaccio felice, verrebbe da dire. Ma non siamo neppure tanto certi che la risposta giusta sia l’opposta. Ebbene sì, la maschilistoide sentenza che andrebbe tirata fuori da questo calderone è che sicuramente la contesa tra maschi alfa concerne più il campo dell’odio che quello dell’amore o addirittura dell’onore. Come ha osservato Andrea Rapisarda, “questa commistione di violenza della guerra e violenza dell’amore che Javier è costretto a subire lo plasma in un stile caricaturale molto alla Taxi Driver”. Niente di più vero. Javier non è semplicemente un pazzo schizoide ridotto allo stato semibrado, ma neppure un eroe (si badi bene), come non lo era Travis nel film di Scorsese. Entrambi semplici vasi traboccati per via di un’insofferente esasperazione. Apparentemente risorti dalle loro macerie di inamovibilità sociale, ma in realtà ancora più sconfitti di prima. E il titolo italiano del film sembra calzare perfettamente. In questa ballata triste cui il film allude anche (ma non solo) metaforicamente, rinveniamo una variopinta sfilata di personaggi al limite del verosimile. Carnefici, vittime, o soprattutto entrambi contemporaneamente. Ma tutti pagliacci. Tutti concorrenti di uno spettacolo circense (che sa molto di farsa assurda) chiamata vita sociale. E in questa visione che solo eufemisticamente definiremmo hobbesiana, violenze e continue usurpazioni sembrano minacciare chiunque, dal poveraccio come Javier al potente per antonomasia (Francisco Franco). L’”homo homini lupus” di plautiana memoria diviene “homo homini hyaena”. E come tale al delirio umano segue il ghigno beffardo e atroce, sanguinario e iracondo, come nel caso dell’agghiacciante scena finale, che vede i due protagonisti rispettivamente ridere amaramente e piangere dopo il loro ultimo scontro. E il finale che potrebbe apparire alla Michael Bay o James Cameroon, diviene paradossalmente l’unico da poter presentare. Lo scontro sulla croce della Valle dei Caduti rappresenta niente meno che la detronizzazione della storia, dei suoi miti di sempre. Una rivalutazione antiaccademica che sa molto di rivalsa dell’uomo inteso come singolo, prescindente da tutto l’apparato storico che i libri di scuola, su un versante o un altro, ci hanno sempre propinato. Le botte tra miserrimi e minuti pagliacci (neppure uomini) divengono uno scontro tra titani, epico, degno di un novero tra gli annali. Un simbolo degli ipocriti, blasfemi, populisti e roboanti fasti della dittatura franchista (o della dittatura in senso lato) usato beffardamente come semplice teatro di contesa personale, personalissima.

Lo storico Polibio rimproverava a Teopompo di aver incentrato le sue Filippiche eminentemente sulla figura di Filippo il Macedone e aver fatto della storia di tutto un popolo una misera cornice per le imprese del suo eroe. Ma non sempre piantare le vicende di un individuo in una storia già conosciuta appare di cattivo gusto. Perché, prima di tutto, in questo caso non si narra di un eroe, ma di vicende (almeno inizialmente) profondamente intime. È vero, film come Forrest Gump hanno fatto di questa impostazione narrativa un superfluo trastullo di sceneggiatura. De la Iglesia invece sceglie di parlare di un individuo che con la storia c’azzecca poco o niente, ma che la storia, quella dei padroni che la scrivono, la subisce o tenta di schivarla. Per inseguire ciò che realmente conta per lui, per imporre titanicamente la sua di storia, la sua di guerra. Per una donna forse. O semplicemente per una rivalsa personale, per far riaffiorare un’ira senza precedenti, che rischierebbe, altrimenti, di implodere. A proposito di guerra. Il tema è trattato con una maturità eccezionale. Mai di parte (il che non significa politicamente corretto), perché il regista sembra volerci dire che non esiste una resistenza pacifica, senza (gratuiti) spargimenti di sangue. In una storia scritta abbastanza manicheisticamente, ogni opposizione al potere è sempre vista benevolmente, anche qualora il prezzo della libertà sia un’efferatezza disumana. Ma il film va oltre. Ed è il caso delle sequenze iniziali del film. Il padre di Javier, pagliaccio allegro, sembra combattere da esperto mercenario, con una brutalità che sa più di repressa tendenza omicida innata che di patriottico livore libertario. Tutti coloro che impugnano un coltello, nazionalisti o meno, franchisti o meno, sembrano essere dei pagliacci, non solo chi vi è travestito. “Quando hai una pistola in mano, qual è la differenza?”, chiedeva Jack Nicholson in The Departed. Ed è proprio questo il punto. Non c’è un bene o un male, nemmeno se al cospetto di una resistenza socio-politica ad una dittatura come quella di Franco. Il film esprime il vero volto della violenza, nuda e cruda. Allo stato grezzo, non lavorato. Che non conosce bandiere, emblemi ideologici, politici, nazionalità o stato sociale. L’ira è una tendenza naturale, un’inclinazione universale e tutti, ma proprio tutti sono capaci di calare l’asso della violenza furibonda. Un monito dunque per i padroni, che da gente come Javier, vilipeso e reietto, un vero poveraccio, non si aspetterebbe mai una simile reazione alla vita. E la verità sembra detenerla un unico personaggio nel film. Si tratta del primo pagliaccio triste, spalla del padre di Javier. Nell’episodio in questione, alla insistente e reazionaria recluta del fronte antifranchista, impegnato nella resistenza, il pagliaccio, “dall’alto della sua umiltà”, rivendica la sua volontà e il suo bisogno di continuare a lavorare anziché combattere. Naturalmente verrà abbattuto come un cavallo malato e non si vedrà più. È come se il miglior personaggio non abbia possibilità di vita in quella Spagna adesso troppo presa da ostilità che sanno più di scontri tra quartieri allo sbaraglio. E allora, al fine di sopravvivere, il padre di Javier diviene all’occorrenza un criminale. Come farà, anni più tardi, il povero figliolo.

Non c’è alcun dubbio sul fatto che de la Iglesia conosca benissimo il cinema europeo. Il suo risulta essere un film innovativo nella messa in scena, ma che affonda le sue radici in un cinema classico, mai di cattivo gusto. Pur corroborando l’estetica del film con trovate considerabili eccessive, pur realizzando un film a volte sopra le righe, tutto rientra negli argini e non risulta essere indigesto. L’influenza di Fellini è evidente, soprattutto per l’ambientazione circense (che fa pensare immediatamente a ) e per le conseguenti pretenziosità e magniloquenza delle riprese. Ma i movimenti di camera non sono quelli nauseabondi dell’ultimo Sorrentino (o dello stesso Fellini), ma trovano nell’equilibrio il loro punto di forza. E nemmeno nel miglior Fellini potremmo trovare un’immagine così esteticamente impattante, destinata a divenire cult, come quella della grottesca e atrocemente satirica donna pagliaccio (da cui è travestito il padre di Javier durante gli scontri) che uccide a colpi di machete e versa sangue a bizzeffe, prendendoci gusto. Per non parlare della fotografia, nitidamente chiaroscurale, contrastata ma al punto giusto, affidata a Kiko de la Rica, che sembra ricordare Tom Stern, lo storico direttore della fotografia nei film di Eastwood. E come già annunciato nell’incipit, de la Iglesia sembra essersi spolpato tutto Cronenberg. O almeno la sua seconda fase, quello di A history of violence. Non a caso citiamo proprio questo film del maestro canadese perché, per certi versi, sembra collimare, tematicamente parlando, con La ballata dell’amore e dell’odio. In entrambi i film assistiamo al risveglio di una coscienza non politica, non di classe, ma antropologica, sociale. E se nel film di Cronenberg Viggo Mortensen era già stato un omicida (come, per intenderci, Clint Eastwood nel suo capolavoro Gli Spietati), Javier scopre di esserlo progressivamente, insieme allo spettatore, che si sconvolge, al cospetto di cotanta logica sanguinaria, inaspettata, ma nello stesso tempo prevedibile. Qui dunque si parla di una mutazione propriamente detta, poiché l’involuzione (o evoluzione, dipende dai punti di vista) viene narrata in tempo reale e lo spettatore vi assiste autopticamente. Le turbe psichiche degenerano ogni istante di più fino a raggiungere l’apice; credibile, perché frutto di una quasi estatica scalata graduale verso la pura follia. Ma il terribile messaggio veicolato dal regista sembra riguardare la natura genetica dell’ira. Proprio come un tumore, questo sentimento può anche covare per anni e anni, ma, se si è ad esso programmati e predisposti, non si attende altro che una scintilla che faccia scoppiare questa polveriera. Cosicché non ci si possa stupire se persino un individuo apparentemente fesso e indefesso esplode irrimediabilmente. E un plauso va, naturalmente, ad un attore straordinario che interpreta Javier, vale a dire Carlos Areces. Sconosciuto ai più (noi compresi), che dà una lezione di recitazione al mondo intero riuscendo a trasformarsi, trasfigurarsi ed effettivamente raggiungere l’estremo delirio con una strepitosa mimica facciale.

Un film essenzialmente socialista. Che esplica una rivoluzione degli ultimi che non attendono il Regno dei Cieli; dei reietti. Tali perché goffi, antiestetici, poco accattivanti o poco violenti. Che si riscoprono tuttavia capaci di diventarlo e surclassare tutto e tutti. Per ottenere nulla tuttavia (e qui risiede la sconfitta definitiva dell’uomo). Un film impossibile, per certi versi, da decifrare. Ora noir, ora commedia amara, ora horror, ora gautieriano (la trama del film, eccetto il finale, è molto simile a quella del romanzo Capitan Fracassa di Gautier), ora action, ora tragedia. Con quel finale estremamente gotico, che suggella la fine di una donna presentataci come un angelo caduto dal cielo e morta, invece, da demone seminatore di discordia cacciato via dall’aldilà. Incapace di provare vero amore; che pagherà caro, con la propria vita. Ennesimo film pseudo-apocalittico, per certi versi, che recensiamo. Perché, in fondo, solo non dispensando gratuite speranze, in finali lieti, il cinema può davvero consegnarne alcune.

Gabriele Santoro

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