“Peggiu dell’irricanuscenza c’è sulu ‘a ‘ppatenza” – Cultura popolare
Sembrano non sbagliare mai gli antichi. Manco la fame è così lacerante come l’ingratitudine. Perché per quanto qualcosa sia realizzata gratuitamente vale pur sempre la formula del “buon rendere”. Ma il cinema e la sua storia più o meno recente non possono rivendicare da sé, nei confronti di registi e produttori, una qualche riconoscenza. È obbligo morale di chi il cinema lo ha portato avanti per anni come fortunata professione sottoporre alla nostra attenzione una parte di storia che non c’è più. Non tanto impedendo che il progresso inarrestabile e già sceneggiato abbia compimento, quanto più prendendone coscientemente e pubblicamente atto e focalizzando su di esso maggiore acume critico. Dire grazie, insomma, alla pellicola. Nulla di scontato in tutto ciò! Perché in un mondo ormai senza storia recente, appiattito non nel presente ma in una continua rincorsa alle volte di un irraggiungibile futuro (Cronenberg docet in Cosmopolis), tutti ci abituiamo a svolte più o meno epocali come fossero banali cambi di stagione. E se nulla più ci sconvolge o impietosisce, la riconoscenza artistica di un maestro e autore contemporaneo come Quentin Tarantino, nei confronti del mondo che lo ha reso grande, vale il triplo di quanto dia a vedere. Si passa al digitale, e nel torpore letargico e assuefacente della latrina hollywoodiana sembra essersene accorto solo lui. Quanto analizzato in funzione “nostalgica” nel saggio che ha inaugurato la nostra rubrica Grandangolo (“Si scrive digitale e si legge capitale”) trova insomma un illustre portavoce e pioniere nell’industria cinematografica delle maxi produzioni, dello star-system imposto e degli Oscar barattati. Gratuito populismo mediatico, quello del regista? Può darsi, ma cosa importa! Ci interessa poco se Tarantino abbia concesso un’ultima dose di morfina ad un circuito in stato vegetativo e destinato ormai alla sepoltura quale quello delle pellicole e poi se ne sia lavato le mani senza il minimo scrupolo e con la coscienza a posto. Perché la gratitudine, quella sì che conta! Verso un mondo fatto di imperfezioni, di crepe, di sane e salvifiche aporie. E a questo rende omaggio il suo film del 2007, Grindhouse, A prova di morte. Prima che il mondo cioè venisse invaso da una pandemia di digitalizzazionite acuta, Tarantino ci consegnava un film magistrale e, paradossalmente, innovativo. È un omaggio a quel cinema anni ’60 appartenente alla cosiddetta serie b: film cioè a basso costo e con trame non impegnative (e Tarantino avrà modo di patrocinare e presentare una rassegna di b-movies italiani in occasione della 61ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia). E l’omaggio è evidente soprattutto negli espedienti tecnici adottati perché il riferimento a quel determinato cinema potesse rendere maggiormente: bruciature di sigarette, sgranature, fuori quadri, inquadrature sfocate e salti e tagli di pellicola. Il tutto, naturalmente, riproposto e ostentato continuamente, come mero gioco registico autoreferenziale forse, ma anche e soprattutto come preziosismo artistico che possiamo fare nostro in quanto rappresentazione di un universo rarefatto e ormai lontano e di una qualche componente di artigianalità e corporeità che la visione di un film ha ormai perso (tutto è HD). Una chicca insomma questo film. E non pensiamo mica che il buon Quentinone volesse ergersi a paladino delle ultime salette del mondo che non possono prescindere ancora oggi dall’impiego del supporto pellicola. Ma finisce, come detto, più o meno involontariamente, a incarnare l’immagine di un regista che, dopo aver scosso, destabilizzato e detto ormai tutto sull’epoca post-moderna del cinema, decretandone di fatto la fine, immola doverosamente la sua opera agli altari del (supporto) passato, quello buono, genuino della pellicola, forse perché unico, dai Lumiérès fino all’altro ieri.
E stilisticamente parlando, questo film non si fa mancare assolutamente nulla. La messinscena è perfetta e, con quel giocattolino tra le mani, Tarantino sembra decollare, pur rimanendo ancorato ad un certo classicismo. E ciò che gli permette di ottenere uno scarto a suo vantaggio nei confronti di registi ormai incauti come Nolan o Sorrentino è la capacità di bilanciare azione e stasi nelle riprese. Che questa sanità si sia parzialmente persa nel recente Django… quella è un’altra storia. Perché A prova di morte sa amalgamare benissimo carrelli evidenti a camere fisse, “action” a dialoghi cervellotici e prolissi (i quali, forse, hanno permesso che molti lo etichettassero, negligentemente, come il peggior film del regista). E Quentinone, da gran burlone qual è, sa divertire, ma soprattutto divertirsi. In questo film difatti si prende gioco di quei suoi fans affetti da “nerdismo acuto” da una parte, dall’altra di coloro i quali disprezzano incondizionatamente tutto quanto fuoriesca dal cinema hollywoodiano. In occasione dell’uscita del film, chi si aspettava molto sangue fu deluso. Lo fu pure chi desiderava una trama molto più congeniata. Piacque tanto alle donne, che videro nella pellicola il perfetto epilogo di quel cinema tarantiniano femministoide ad esse tributato (da Jackie Brown a Kill Bill), con protagoniste capaci di frenare il “macello di carni” del folle stuntman. È vero, il film è spudoratamente dalla parte delle donne e non vi è quell’”Aufhebung” finale che scavalchi la accademica divisione tra Bene e Male. Se in Kill Bill infatti l’uomo rivela alla fine la vera natura omicida di lei, la quale se ne rende conto ma non può non portare a termine la sua vendetta, in A prova di morte le donne che uccidono sono il Bene, lo stuntman è il Male, fine della storia (anche se è condannato un certo stile di vita femminile – delle prime protagoniste, che si “espongono” a tal punto da trovare la morte). Ma tutte queste sono chiacchiere da bar. Il film, come detto, non ha difatti alcuna pretesa, in quanto “b-movie”. Piuttosto nessuno parlò nel 2007 della valenza estetica, storica, artigianale del film. Perché il pubblico, vedendolo, correva subito dall’operatore in cabina lamentandosi della bassa qualità della pellicola. E Tarantino, per via di questa sorta di provocazione formale, avrà goduto parecchio, proponendo a tutti un modo di far cinema antipopolare, sfrontato e menefreghista. Infatti, agli albori della “primavera digitalizzante”, mentre il mondo si preparava all’evento 3D del secolo (Avatar, di qualche anno dopo), nessuno avrebbe mai potuto immaginare che vi fosse un regista al mondo così pazzo da realizzare un film appositamente “rovinato”. Se vi è dunque un testamento artistico di Tarantino, quello è A prova di morte, realizzato sì con apparecchiature altamente tecnologiche (nella seconda parte Tarantino fa infatti tutto ciò che gli frulla per la testa e che i mezzi gli consentono di fare, passando addirittura per un magnifico e “nitido” bianco e nero), ma utilizzate per ricostruire tecnicamente un mondo che quasi non esiste più. Un film che ci consegna un’incontrovertibile verità: non si può far cinema senza guardare come lo si è già fatto. Sia relativamente ai mezzi (il supporto pellicola) che per quanto riguarda il piano artistico e culturale (l’importanza dei classici, anche e soprattutto se al fine di rinnegarli), è necessaria dunque una conoscenza di fondo.
Quella che segue, in fondo alla pagina, è la scena più emblematica del film e in essa è racchiusa tutta l’idea di cinema tarantiniano. Un paio di minuti nei quali una delle protagoniste si esibisce in una lap-dance per “stuntman Mike“, magistralmente interpretato da Kurt Russell. Bene… questa scena è quello che gli Americani, a volte maldestramente, definiscono cult. E ha tutte le carte in regola per esserlo: una ragazza bellissima, di una bellezza non classica ma carnale e morbosa (anche la sua prorompente fisicità tutt’altro che comune al cinema e alla televisione lo dimostrano); un attore che non potrebbe che essere lui; una location caratteristica (un pub “on the road”); infine una musica straordinaria, la canzone Down in Mexico. È girata, naturalmente, come solo Tarantino sa fare: primissimi piani su dettagli, quali per esempio il piede di lei che incautamente si posa vicino al cavallo dei pantaloni di lui, il ginocchio al teso torace o i due visi che si sfiorano, a testimonianza della forte e repressa tensione sessuale di tutta la sequenza; e poi quel carrello circolare, mai pacchiano e opportunamente inserito quando la canzone improvvisamente cambia ritmo così come cambiano le movenze di lei. Ma ciò che realmente attribuisce l’immortalità a questa scena è la fase finale, il passaggio alla scena successiva. Infatti quella della lap-dance è una scena fortissima per impatto visivo, tanto da non potervi trovare una degna conclusione. Ed ecco ergersi il genio di Tarantino, che cala l’asso e, inaspettatamente, al minuto 3:36 del video, “taglia la pellicola”, la fa saltare senza mostrare la fine della lap-dance, quasi come se mancassero parecchi fotogrammi, smorzando così le aspettative di tutti e riabbassando terribilmente il ritmo. Un lapsus del mezzo cinematografico diventa per la prima e ultima volta nella storia del cinema una voluta scelta stilistica e narrativa. Tarantino dunque, non di certo inconsapevolmente, conferisce all’imperfezione del supporto analogico della pellicola uno statuto artistico, che sa molto di addio, di eutanasia. E proprio questo espediente ci consente di intraprendere una riflessione teorica sul mondo della pellicola. L’analogico è costituito da un segnale che si definisce continuo, perché, anche interrompendosi per qualche attimo a causa della presenza di fotogrammi corrotti, esso passa ai fotogrammi successivi, consentendo la visione. Il digitale, invece, è costituito da componenti discrete (perché il film non è “impressionato” su alcuna pellicola) che non consentono la fruizione continua se non compromettendo intere scene o sequenze. Per semplificare in modo estremo: se un dvd si inceppa, lo possiamo gettare; se è un vhs (e soprattutto una pellicola) a danneggiarsi, si può rimediare tagliando quei determinati fotogrammi. Per non parlare poi dei guasti in cui incorre il segnale digitale, che spesso, come notiamo dai nostri televisori, non arriva per periodi più o meno lunghi.
Insomma, dietro una semplice scelta di montaggio e in un film che è stato considerato un flop, si cela tutto il mondo del cinema: quello della cabina dell’operatore, il quale ripara ancora pellicole usurate o spezzatesi per il troppo cumulo nelle bobine; quella della monosala di paese, che ancora può conoscere questa realtà incontaminata.
E rivedendo adesso questo film, sette anni dopo, mentre l’organigramma del tanto scongiurato “nuovo ordine digitale” si è costituito, fa ancora maggiore effetto. Forse solamente per noi, che il cinema lo amiamo, prima ancora che come strumento culturale (ebbene sì!), come luogo di una certa artigianalità, repressa all’ombra della piattaforma virtuale su banda larga. Perché “la cultura forse passa, ma le tradizioni devono rimanere”. L’omologazione ci è (stata) imposta da un’ondata di ammiccante progresso, il quale non è tuttavia modernità. Tutti a compiacerci dunque di fronte alla discretezza e alla conseguente interruzione del segnale digitale, a dispetto della “continuità analogica”. Perché il bello della pellicola, in fondo, è sempre stata la sua componente di esclusiva rimediabilità del supporto. Anche se corrotto, bruciato, imperfetto. Gagliarda per questo, la pellicola; metafora di tutto. Basta tagliare e ricucire. E si riparte.
Gabriele Santoro
Fonte: UniversoTarantino