Ho fatto un sogno. In esso ero al cospetto del gagliardissimo Barach Obama e gli chiedevo, febbricitante, di fare una foto con lui. Ma non facevo un autoscatto. Preferivo incaricare qualcuno di scattare la foto, affinché il flash colpisse lo sguardo dell’ex presidente, del gagliardissimo presidente. Il perché è chiaro: prima di andare a letto e fare questo inequivocabile sogno, avevo goduto della visione di un film meraviglioso, Get out, di Jordan Peele. Non un film sul razzismo, come più volte è stato etichettato. Un film sulla razza nera, raccontata nel suo microcosmo e dagli stessi fratelli afroamericani.
Premettiamo che la parola “razza” non è ancora stata estirpata dal nostro vocabolario e che la nostra lingua non può essere oggetto di strumentalizzazione ideologico-politica (che si tratti di partiti destrorsi o che, ancora peggio, si tratti di beceri partiti mancini) e di una tale deriva semantica che ne stigmatizzi l’uso, manco fosse una bestemmia. Tale parola è al centro, nel film, di un revisionismo culturale che pone fine ad ogni retorico collateralismo di intellettualini, di borghesi piccoli piccoli, relativo alla causa abbracciata dal pensiero unico, monolitico e livellato al più sinistro progressismo. Abbandoniamo dunque ogni orpello buonista che addobba questo densissimo tema per approdare ad un’analisi critica, fredda del fenomeno.
Il film narra le vicende di un ragazzo di colore che si appresta a fare un lungo viaggio in auto per conoscere i genitori della fidanzata. Conoscerà dunque una famiglia bianca alto-borghese dallo spirito apparentemente tollerante e di mentalità aperta. Quest’apertura però si rivelerà ben altro: il ragazzo noterà strani atteggiamenti assunti sia dai suoceri (e dai loro amici) che dal cognato che dalla servitù (è proprio il caso di chiamarla così!) di colore che lavora nella villa in cui è ospite; arriverà dunque a comprendere giusto in tempo che si tratta di un complotto nei suoi riguardi da parte di una famiglia che da anni recluta gente nera (col pretesto della frequentazione con la figlia, anch’ella complice) per ipnotizzarla, lobotomizzarla e fare di essa carne da macello e oggetto di esperimenti scientifici (trapianto di cervelli eterorganici nei corpi di queste inconsapevoli vittime). Trametta banale, se non fosse accompagnata da una messinscena da film di culto, con sequenze magistrali che rimangono subito impresse e che potrebbero tra qualche anno entrare a buon diritto nell’immaginario collettivo, e da una sceneggiatura ben scritta e mai fuori contesto o sopra le righe.
Cominciamo con un’analisi meramente estetica del film. E iniziamo col dire che il film non presenta incredibili colpi di scena, né dunque un soggetto che risponda ai topoi narrativi tanto in voga in questo periodo (topoi di cui Nolan, per esempio, si fa pioniere, senza esserlo, ormai da decenni). Il film scorre via con risvolti il più delle volte prevedibili. Ma cosa fa di un film un buon film? Il fatto che debba stupirci con il soggetto? No, è la sceneggiatura che afferisce al campo dell’estetica, non il soggetto, e solo l’estetica di un film è autorizzata a sconvolgere, scuotere, provocare. Ricordiamo a proposito che i maggiori capolavori di drammaturgia greco-antica (siano esse tragedie o commedie), che rappresentano il repertorio artistico, letterario e culturale dell’Occidente (quello sano), erano basati su storie che lo spettatore magari conosceva già (lo stesso discorso vale per i capolavori di musica lirica). Eppure la magnificenza di un’opera sembra prescindere da quest’aspetto. Il bello propriamente detto, inteso esclusivamente in modo oggettivo, travalica i confini della semplice lettura “fabulistica”. L’antica Grecia, detentrice, essa sì, dell’estetica e delle sue origini, della grammatica che la governa e delle dinamiche che la compongono, aveva già rivelato al mondo (e al mondo del cinema che verrà, giusto due millenni e mezzo più tardi) i segreti più reconditi, ma facilmente rintracciabili, della comunicazione audiovisiva e dell’arte che ne deriva. Per intenderci: riesce a stupire maggiormente un finale previsto anche dallo spettatore più sprovveduto ma esteticamente appagante (perché sceneggiato bene, recitato egregiamente o girato e diretto a dovere) piuttosto che un mirabolante congedo che faccia rimanere a bocca aperta, ma a cervello ermeticamente chiuso. L’estetica afferisce dunque alla sfera dei concetti cui un’inquadratura, una battuta o una mimica facciale dell’attante possono far riferimento. Un finale da fulmen in clausula, apparentemente modernissimo nella sua realizzazione e così tremendamente modaiolo, risulta, secondo l’analisi da noi intrapresa, anacronistico, scaduto. E tornando allo schema tipicamente classico della drammaturgia di ogni tempo, cruciali risultano, nello svolgimento del film, le sequenze inerenti all’agnizione (“riconoscimento”, letteralmente), vale a dire la graduale presa di coscienza del nostro protagonista relativa alla sua condizione (in questo caso, di vittima di un tremendo complotto). Ci riferiamo, nello specifico, alla scena in cui un uomo della servitù domestica, a notte fonda, corre contro il protagonista, quasi come a volerlo assalire, per poi deviare verso altra direzione, una volta arrivato ad un palmo dal suo naso (si scoprirà essere chirurgicamente “posseduto” dalla coscienza del nonno della ragazza); o ai meravigliosi primi piani (similmente realizzati da Shyamalan in Split, per esempio) grandangolari e mai a linea di sguardo sull’affilato e lacrimante viso della cameriera, peculiare già di suo, che sembra esprimere pienamente il carico emotivo di una coscienza insabbiata, occultata ma pronta ad esplodere se risvegliata; o, ancora, alla lunga sequenza del pranzo “ritualistico” nella villa dei suoceri, in cui la vividezza dei colori (predomina il giallo), in una meravigliosa giornata soleggiata, collide ossimoricamente con la crescente angoscia dettata dalla presa di coscienza, da parte del nostro protagonista, di essere completamente solo, tra bianchi criminali e neri manovrati. E l’agnizione, lo squarciamento del velo di Maya, avviene in un semplice scatto. Quando il nostro protagonista, durante il suddetto pranzo, “ruba” una foto ad un fratello afroamericano, vestito ignobilmente da bianco, succede l’imponderabile: il flash rivolto verso il viso del ragazzo provoca una reazione incontrollata che lo porta a sbraitare al protagonista di scappare da quella villa. Il flash, dunque, provoca il rinsavimento e il risveglio della coscienza assopita dell’uomo nero, condizionato, plagiato e stordito dall’uomo bianco. Un medium, quello fotografico, che sembra riscrivere la realtà, reinterpretarla e addirittura riplasmarla sul calco della giustizia e della verità. Un po’ come noi spettatori che sin da subito, godendo della visione del film, comprendiamo attraverso lo schermo la stranezza degli eventi, dei personaggi, perché tutto filtrato dal medium cinematografico (ci piace immaginare che questo parallelismo sia alla base anche del pensiero del regista).
La critica al benpensante medio americano è atroce quanto mai: quello che si rivelerà essere un nucleo familiare, anzi, un’intera comunità bianca dedita al massacro pianificato e ideologizzato di Afroamericani è anche quella fetta di popolazione americana e occidentale che davanti ai riflettori sociali (oltre che mediatici) ostenta ogni sorta di atteggiamento incondizionatamente tollerante nei confronti di ciò che essi stessi, in primis, considerano alieno. Già, perché tolleranza e solidarietà si palesano sempre in presenza di un oggetto, mai un soggetto, verso cui manifestarle. Guardando il tutto da un’altra prospettiva, potremmo a buon diritto affermare che la necessità, tanto vituperata nel film, di dover necessariamente sbandierare la propria fratellanza nei confronti della gente di colore è direttamente proporzionale, se non al disprezzo nei loro confronti da occultare ad ogni costo, secondo un contrappasso non scritto, almeno ad una latente e ignobile volontà di primeggiare, geneticamente e antropologicamente, e ad una presunzione di superiorità tutta occidentale. Il tutto dettato da un diritto auto-arrogatosi alla valutazione morale, che è sempre pregiudiziale, anche se commiserante. Il vero razzismo è questo, sembra tuonare il film: l’impellente, smaniosa, quasi fisiologica tendenza a crearsi un alibi per non apparire razzista. E questo succede al padre della ragazza non appena conosce il suo futuro genero: <<Se ne avessi avuto la possibilità, io avrei votato Obama per il suo terzo mandato>>. Excusatio non petita, accusatio manifesta, direbbero opportunamente quei maliziosi dei latini. E, alla luce di quanto successo alla fine del film, questa sembra rivelarsi una bruciante verità che ci invita ad un ulteriore quesito: quanto c’è stato di davvero afroamericano nelle politiche di Obama? Quanto è davvero riuscito a dar voce ai suoi fratelli e all’intera comunità nera degli Stati Uniti d’America, al netto delle mistificazioni storiche, delle strumentalizzazioni (sempre positive, una sorta di razzismo rovesciato) relative al suo colore della pelle che sembravano depistare aprioristicamente ogni pur lecito dubbio inerente alle sue politiche belliche, se non addirittura guerrafondaie? Un nero è geneticamente impossibilitato a concepire ed eseguire una politica crudele, è questo che si pensa a primo acchito. E allora il paradosso filmico sorge spontaneo: e se Obama non fosse nero? Se fosse stato anche lui lobotomizzato e in lui risiedesse un’anima crudele, emersa dai bassifondi neoconservatori, in continuità con ogni politica americana che si possa definire tale? La nostra è solo una sciocca provocazione, naturalmente, come del resto lo sono il sogno raccontato all’inizio e il desiderio di rivolgere un flash contro il viso gagliardissimo del gagliardissimo presidente, per appurare che in lui non risiedano recondite coscienze. Spunti, tuttavia, che dovrebbero aiutarci a comprendere che una stessa parte di comunità afroamericana (e afroccidentale in generale) ha tradito la sua stessa gente. Un Obama o un qualsiasi altro uomo di colore che si atteggi a uomo bianco (un po’ come fa il ragazzo, poi in preda alla crisi sopracitata, che nel film è vestito da gangster anni 30 e accompagna una vecchia signora imbellettata) non fanno altro che disattendere le speranze della comunità cui appartengono: speranze di affrancamento dall’uomo bianco, che non può essere un fratello e mai lo sarà. Mischiare anche solo culturalmente le razze (sì, le razze) crea un cortocircuito irreversibile, per cui si rimane contagiati dall’imperialistica disfunzione erettile cui è spesso in preda l’uomo bianco, convinto di poter fottere tutto il mondo e ingravidarlo, nonostante la sua impotenza civile. Il seme della suprema cultura innestato persino in organismi biologicamente non compatibili al nostro modus vivendi, ma che, anziché creare rigetto, crea organismi nuovi, intaccati geneticamente: una sorta di mostro di Frankestein che mantiene i tratti fisiognomici del buon fratello nero, inattaccabile perché tale, ma in cui cova una coscienza bruta da generale Custer. A tal proposito citiamo un altro film che affronta, probabilmente come nessun altro riesce a fare, l’ambiguità del tema dell’emancipazione dei neri in America. Parliamo del famigerato Django, di Quentin Trantino. In esso l’antagonista per eccellenza, il cattivone dei cattivoni, non è rappresentato da monsieur Candy (nel film Leonardo Di Caprio), come verrebbe da pensare, ma da Stephen, il governante della sua tenuta, interpretato da Samuel L. Jackson. Egli è l’emblema più alto e allo stesso tempo miserrimo dell’affrancamento dell’uomo nero, della sua rivalsa sociale. Ma quest’ultima avviene, esattamente come nel nostro Get out, sotto lauto pagamento: la completa concessione della propria coscienza da uomo nero. E il film gioca molto, nell’ultima parte, sulla quasi surreale ostilità di Stephen nei confronti di un altro uomo che, a dirla tutta, è anche meno nero di lui. Siete mai stati nei sobborghi Americani? Nemmeno noi, ma crediamo vivamente che esista un razzismo nero contro la gente bianca, per un atavico e legittimo risentimento dovuto a secoli di soprusi che vengono tuttora perpetrati da noi uomini candidi e profumati, intenti a deportazioni di massa che ricordano, queste sì, i più efferati crimini del passato. Crimini che si risemantizzano nella misura in cui questa misera gente non è più funzionale, oggi, a rinfoltire la manodopera schiavile propriamente detta, una fetta della società dunque dedita alla produzione, seppur abusata; è piuttosto funzionale a creare da una parte una classe sociale che, almeno in area mediterranea, mai riuscirà a integrarsi (zombiesmo sociale) perché ibernata in una fase di limbo perenne, dall’altra una comunità oscura sfruttata in qualunque deplorevole ambito in cui l’uomo bianco non vuole più sporcarsi le mani. E crediamo che questo risentimento di certe comunità di colore provenga dall’operato di gente che, come il nostro Stephen in Django, hanno voltato le spalle alla propria comunità. Oppure, senza lasciarsi andare a troppe elucubrazioni mentali, queste ostilità non denotano altro che le imbarazzanti falle nel sistema del contratto sociale che i buoni Locke e Hobbes hanno tentato di descrivere. Contratto che deve fare i conti con l’inconscia (ma non troppo) e biologica eterocromofobia di cui gli stessi adorabili ed ecumenici progressisti sono le prime vittime, volendolo tuttavia nascondere.
Invitiamo dunque alla visione di questo capolavoro cinematografico e, soprattutto, alla cautela mediatica quando si parla di razzismo. Invitiamo altresì tutti i chierichetti – che indirizzano il pensiero in quella fiera dell’ovvio che sono i social network e che possono farlo solo perché gli argomenti della controparte sono alquanto vacanti – a scrivere in un foglio bianco la parola razza, almeno una cinquantina di volte. Parola che esiste, che conoscono benissimo anche i fratelli neri. Parola che crea un solco profondissimo, bilateralmente influente, tra due comunità umane; l’una intenta a censurare la definizione di razza al solo fine di sopraffare quella aliena; l’altra alle prese con un’opprimente coltre di eterne ingerenze politico-civili di cui tenta invano di liberarsi, divenuta apolide oggetto, meramente numerico, di alienazione e straniamento antropologico.
Ps: Il film rivolge una critica pungente al mondo della spregiudicata e mondialista medicina del terzo millennio, deregolamentata e sprovvista di ogni eventuale argine bioetico. Sia un monito per chi crede ancora che questo mondo tecnocratico, in cui l’unica cultura ammessa e valida è quella scientifica stricto sensu, sia la forma più alta di civiltà.
Gabriele Santoro