LA MOSSA DEL PINGUINO

 

LA MOSSA DEL PINGUINO

E’ il sogno olimpico di quattro uomini disagiati che scoprono per caso il gioco del curling e si convincono di poter partecipare alle Olimpiadi Invernali di Torino 2006 dove l’Italia, paese ospitante, avrà di diritto una squadra qualificata. S’ingegnano in allenamenti improbabili, trovano scappatoie alle regole, provocano gli avversari e finiscono per diventare campioni italiani, acquisendo così il diritto di partecipazione alle Olimpiadi. Per riuscirci dovranno però diventare uomini migliori. La loro è una storia di riscatto individuale e familiare, prima ancora che sociale.

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BISBETICI DOPATI VOL.3, COSMOPOLIS

Temerarietà, strafottenza, pugno duro. Quanti registi vorremmo avessero queste qualità! Senza mezzi termini, fustigatori e critici sino all’insofferenza. Tanto da divenire un peso sullo stomaco, da essere palesemente impopolari. Lo è Scorsese naturalmente, come già detto nel precedente capitolo. Tuttavia quest’ultimo riesce ad essere “pop” almeno nello stile, nella messinscena e nel linguaggio. Sceneggiature deliziose e sopra le righe corroborano regie magistrali. Ma esistono poi registi alieni, che comunicano ancor più criticamente, per codici e con una regia molto meno ammiccante. E non si sta parlando naturalmente di un cinema onirico, angosciante e indecifrabile alla Linch né di un ormai datato surrealismo felliniano, ma di un regista che, probabilmente come Kubrick, si comincerà a comprendere tra qualche decennio per la potenza dei suoi messaggi. Infatti non si vuol credere fideisticamente che Cronenberg abbia avuto da giovane rivelazioni misteriche da una qualche entità suprema. Ma il suo cinema ha un non so che di… mistico. E la sacralità in questione varca i confini strettamente tecnici del mezzo cinematografico. I suoi film non sono mai esteticamente esaltanti. Nessun movimento di macchina vertiginoso, nessun preziosismo fantasmagorico. Perché è l’immagine del perfetto regista che compie un assoggettamento del medium ai messaggi da veicolare, andando contro ogni umana logica del guadagno che l’industria cinematografica mondiale propone. Non si avverte quasi mai la pesantezza della camera da presa perché non cincischia mai con quel giocattolino che tanto diverte registucoli (a confronto) come Nolan e Sorrentino. Quasi come l’opera si facesse, immensa e grandiosa, da sé. Quest’impronta glaciale da cinema europeo gli ha permesso di trattare temi scomodi e irritanti, di un’attualità terribile. Fino all’ultima sua fatica, irrecensibile forse. Ma in un periodo nel quale Cronenberg è precipitato nel più profondo oblio, parlare del suo cinema è sempre e comunque propedeutico. Passiamo, dunque, al film del secolo.

Già, perché Cosmopolis descrive, destruttura e infine condanna senza tuttavia alcun patema la società contemporanea e i poteri che ne indirizzano il percorso. Il tutto con una messinscena parecchio, troppo autoriale. Di un’autorialità ostentata come mai è successo col regista canadese, ma funzionale alla causa. Perché il film deve risultare snervante e logorroico all’ennesima potenza, ambientato in luoghi angusti, resi tali non necessariamente dalla loro limitatezza dimensionale (si pensi all’auto in cui è girato gran parte del film) ma dalla ossessiva e seriale presentazione di identiche tematiche in ogni scena, affrontate da personaggi diversi. Diverse visioni del mondo che stridono e infine collidono irrimediabilmente. Il film è incentrato sulle vicende dell’uomo finanziariamente più potente al mondo, che, per raggiungere il suo parrucchiere di fiducia, deve attraversare tutta la città, bloccata da manifestanti, anarchici, da un funerale di stato e dalla visita del Presidente. Un viaggio metropolitano filtrato da un microcosmo, quello della limousine, e da una galleria di personaggi ora astuti, ora intelligenti, ora guardinghi, ora apatici, ora disperati e spregiudicati. Che disquisiscono di economia, sembrerebbe. Anche, ma non solamente. Ciò che a noi comuni mortali sembra dibattito finanziario non è altro che dibattito cyber-finanziario, dunque tecnologico. Alt, perché si necessita di più di cinque minuti di silenzio assoluto per comprendere la portata terribilmente tsunamica del dialogo tra il protagonista e la bionda esperta di storia e teoria economica a metà del film. A nostro avviso è il punto focale. Perché si parla di cyber capitale, innanzi tutto. Di soldi dunque (e qui si torna a The wolf of Wall Street) irreali per chi investe e reali per chi incassa. Ma si parla soprattutto di tempo, di progresso dunque. Di come cioè qualunque cittadino medio si ribelli al potere (il che fa già comunque notizia, almeno in Italia, in Sicilia, ad Agira soprattutto) non perché conscio della propria condizione sociale (la rivoluzione di marxiana memoria) ma perché impossibilitato a seguire le orme della falcata del progresso, troppo veloce, troppo disorientante. I cittadini rimangono indietro perché, paradossalmente, preferirebbero avere di meno (di quel superfluo tecnologico). Perché vorrebbero che si ricominciasse a marciare a passo d’uomo, come non si fa più da tempo. Perché vorrebbero sia tutto un po’ meno pianificato e scandito dai martellanti tempi che la tecnologia e la finanza, maledettamente abbinate, impongono. “Viviamo in un perenne futuro”. Così presente da divenire il nuovo presente, perdendo quello autentico. Siamo proiettati, ci suggerisce Cronenberg, verso una destinazione che sembra non avvistarsi mai. Verso un mito da raggiungere cui cercheranno di approdare anche i nostri figli e figli dei nostri figli e così via senza sosta e soluzione. Viviamo per il futuro in un presente inesistente. Una corsa contro il tempo insomma! Non una rivolta per rivendicare diritti in campo lavorativo o sociale, ma per riportare il tempo al suo naturale e non coercitivo corso, strappandolo dallo statuto di “bene aziendale”. E questa forbice che vede da una parte i potenti e dall’altra insoddisfatte mine vaganti è ben rappresentata dalla netta frattura tra due piani del film: uno che potremmo definire inside (il contesto all’interno della limousine) e uno outside (all’esterno). E l’intuizione geniale di Cronenberg sta proprio nell’aver reso cyber-punk non l’ambientazione outside, ma l’interno della limousine e di aver dunque fatto attecchire l’atmosfera futuribile in un microcosmo asfissiante e aver invece ridotto (o semplicemente lasciato) all’osso il mondo circostante, quasi come se le scene outside fossero ambientate ai giorni nostri. La limousine è chiaramente l’habitat dei poteri forti, tecnologizzata e confortevole, ma l’esterno è atemporale, un mondo in balia di continui sovvertimenti, che non gode affatto del progresso perché ne viene fagocitato. E mentre il mondo scappa dal tempo e dal futuro, l’imperturbabile Pattinson non sente che qualche scossone o urto a quell’astronave che ha come veicolo, quasi come a lasciar intendere che il potere, a qualunque livello si trovi, non risente minimamente dei trambusti socio-economici (quando non è addirittura esso stesso ad orchestrarli). Anche la categoria dello spazio insomma tende a estraniare alcuni personaggi rispetto ad altri, ma elemento per nulla scontato è che ad essere rappresentato come emarginato e reietto non è il popolo, ma il potere. Con questa esplicito allontanamento del potere dall’outside, Cronenberg, a nostro avviso, avrebbe mostrato due aspetti distinti del mondo contemporaneo: da una parte si intuisce come la tecnologia abbia quasi lo scopo di costringere gli individui ad una rincorsa alla totale semplificazione e al totale annullamento di ogni sistema relazionale col mondo circostante, assimilabile persino ad un così piccolo ma così “completo” involucro come può essere una limousine (basti pensare alla stanza di ciascuno di noi, divenuta a causa di quella latrina di Facebook un apparentemente immenso universo); dall’altra Cronenberg ci mostra la disfatta dell’uomo moderno partendo però da una disillusa fiducia nei confronti di chi il potere, sia esso scientifico, sia esso finanziario, come in questo caso, lo incarna. Se insomma Scorsese provoca conati di vomito a coloro ai quali è indirizzata la sua critica, Cronenberg parla all’uomo. All’uomo dell’alta finanza, all’uomo di potere, ma innanzi tutto all’uomo, che è consapevole di essere ad un passo dal precipizio, nonostante sia troppo tardi. Un essere che inglobato in un mondo tutto suo decide, non senza remore, delle sorti del mondo (non solamente finanziario) senza averne un minimo contatto e di fronte ad un semplice monitor. Ma ci sono sequenze in cui il monitor si stacca e il protagonista deve per forza maggiore relazionarsi con l’outside. E a cosa mai può dedicarsi un uomo che sta segregato tutto il giorno in un’auto, dopo essere stato a contatto con tabelle informative, indici, percentuali e numeri da capogiro? S E S S O! Rincorrendo per esempio sua moglie, una donzella insopportabile e fastidiosamente indecifrabile e chiedendole di continuo di poter far l’amore, credendo che sia il modo migliore per consolidare il loro insolito e comunque sfasato rapporto. Oppure andando a letto con una sensuale componente della sua guardia del corpo. Nel momento cioè di massimo livello di capacità tecnologico-finanziarie raggiunto dall’umanità, l’uomo più potente del mondo ha un solo hobby extra lavorativo, il sesso. Come a voler dire che la reazione dell’uomo (stressato dal peso del potere e svuotato di ogni umanità) ad una vita da cani è liberarsi di ogni sovrastruttura e scatenare gli istinti primordiali, che diventano, paradossalmente, le reali e più genuine esigenze nonché le uniche, perché non finanziarie o virtuali. Anche la limousine è teatro di desideri sessuali, ma se nel primo caso è per lui un’esperienza insipida con una flaubertiana Juliette Binoche, è spontanea e irrefrenabile la “tensione sessuale”, come lo stesso Pattinson la definisce, che coglie una sua consulente che lo va a trovare in auto. Tensione sessuale che svela la reale natura umana, nascosta tra un pallottoliere di Wall Street, una disquisizione sul saliscendi del valore della moneta e una bottiglia sgretolata che funge da antistress. Il tutto durante un check-up che il protagonista è solito fare ossessivamente ogni giorno, in una sequenza tra le più memorabili della storia del cinema. Ipocondria pura mentre fuori regna l’anarchia. Ma tutto paradossalmente quasi senza malizia, perché il film rappresenta la degenerazione di un potere, quello finanziario o tecnologico, che sembrava aver illuso tutti con aspettative fuori dalla portata dell’uomo (lo dimostra il fatto stesso che Pattinson non si fidi delle macchine e ogni giorno cerchi di scongiurare l’avvento di gravi malattie). E come in molti suoi film, per esempio in Rabid, anche qui il carnefice è anche la vittima sconsolata del sistema da lui stesso creato, che gli si ritorce contro. In quel film era stato il medico che aveva osato sfidare le conoscenze fino a quel momento acquisite, adesso è l’introduzione di questi capitali cibernetici e di questi esasperati e irrefrenabili liberi mercati virtuali a costare la vita a Pattinson. È se alla fine riesce a raggiungere il parrucchiere (emblema dell’insoddisfazione esistenziale e malinconica delle vecchie generazioni – stordite, palesemente presuntuose e sorde – di fronte alla catastrofe imminente) è solo per arrivare puntuale alla sua “resa dei conti”. In questo film infatti, come detto, vi è un’apocalittica consapevolezza da parte dell’ormai navigato uomo d’affari: il prossimo ad essere sacrificato sarà lui, perché è chiaro che ormai l’asse del potere si è spostato dall’ambito politico a quello finanziario se non addirittura tecnologico (“Ancora ammazzano i presidenti?”, chiede sarcasticamente il protagonista al suo agente). La tanto vituperata politica ha in realtà perso il suo scettro, divenendo però una copertura, un diversivo per chi ancora crede come noi che il problema sia questo o quel politico nazionale. Il problema, semmai, sarebbe per chi lavora questo o quel politico nazionale, a quale Mangiafuoco finanziario deve rendere conto. È il fallimento dello Stato come istituzione, si diceva nello scorso capitolo. E si ripete nuovamente, perché se il mondo ha deciso di affidarsi, sembra tuonare Cronenberg, a uomini di finanza, è perché reali cambiamenti e ribaltoni la politica non ne ha mai realmente conosciuti. Dunque è sì un film che mette al patibolo il mondo finanziario, ma che molto intelligentemente mostra come al potere economico non ci sia alternativa e la politica, nel film, non esiste affatto. Vi si può leggere persino un fallimento della nozione di democrazia, “regime” da sempre illusorio e forfaittario, che si serve di espedienti balordi (per esempio le invenzioni tecnologiche, per rimanere in tema) che facciano da contentino per un popolo che crede ancora a Babbo Natale. E se il cinema è l’universale che allude ad un particolare allora non è necessario andare troppo lontano. Perché non si parla qui solamente di poteri nazionali o sovranazionali. Basta osservare Agira! Il nostro paesino è il manifesto del fallimento di una politica appiccicaticcia, condotta per vent’anni circa da individui inspiegabilmente (data la loro incompetenza intellettuale) millantatori quanto mai. Essi, a differenza del protagonista di Cosmopolis, per esempio, il quale, in conflitto con se stesso, sa di meritare la morte, crederanno a fine mandato di aver portato a termine un buon lavoro, poiché mai ostacolati da nessuno. Tutti i rappresentanti politici del nostro paese dovrebbero pertanto sorbirsi questo film, perché servirebbe a sedarli, sconvolgerli, terrorizzarli (ammesso che almeno Cronenberg riesca a farlo, anche se dubitiamo di ciò). Perché è un film che tiene basse le aspettative del potere, minacciandolo non di un’eventuale rivalsa della coscienza di classe, ma della follia di singoli individui, depressi ed esanimi. E l’inaffidabilità della politica permette che il potere si sposti verso l’asse economico, che la gente cioè si affidi a realtà nuove e “straniere”, a grossi imprenditori cioè che creano sì necessari posti di lavoro in grossi centri commerciali ma che smembrano e delocalizzano l’universo cittadino neanche fosse un’industria automobilistica, smantellando ogni realtà artigianale. Ancora una volta si guardi Agira. È un progresso che non è affatto modernità. È l’eutanasia di cui ci accontentiamo.

Gabriele Santoro

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UN MATRIMONIO DA FAVOLA

 

UN MATRIMONIO DA FAVOLA

Cinque compagni di liceo, inseparabili a scuola, si ritrovano vent’anni dopo la maturità. Daniele (Ricky Memphis), l’unico ad aver fatto carriera, invita tutti al suo matrimonio a Zurigo con Barbara (Andrea Osvart), la figlia del noto banchiere svizzero per cui lavora. Gli ex compagni accettano entusiasti: è l’occasione per una rimpatriata, anche se per loro la vita non è stata altrettanto generosa, ognuno aveva mete e sogni ma nessuno è riuscito a realizzarli. Rivedendosi i cinque amici ritrovano il calore e la complicità di un tempo ma si trovano anche a rimettere in gioco le loro vite e le loro aspirazioni. Durante quel lungo week end in Svizzera avranno modo di raddrizzare i loro destini, in una girandola di equivoci, situazioni comiche e rocamboleschi colpi di scena in cui i cinque faranno saltare i loro precari equilibri ed ognuno finalmente troverà il coraggio di esprimere la sua vera natura. Il matrimonio di Daniele non sarà esattamente “da favola”, ma i cinque ex compagni si ritroveranno dopo vent’anni come il giorno della maturità, pronti a ricominciare le loro vite.

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BISBETICI DOPATI VOL.2, THE WOLF OF WALL STREET

Approcci. Il cinema è solo questione di prospettive e approcci. E magari, dunque, svariate visioni del mondo. Tutto il resto non è costituito da altro se non da implicazioni successive. Non tanto ciò che si vuol comunicare quanto piuttosto come la si comunica rappresenta la discriminante tra le varie opere cinematografiche che trattano identiche tematiche. E il Male, si sa, è molto più arduo descriverlo. Perché è così lucidamente sfaccettato, così razionalmente ricco di spigolature che merita ed esige differenti approcci narrativi per tentare di svelarne almeno una parte. Si è confabulato nel primo volume di questa disquisizione sul mondo economico (visto dal basso della nostra esperienza da ignari comuni mortali) de Il capitale umano di Virzì. Si è evidenziato come il regista italiano abbia abiurato volontariamente ogni tentativo di addentrarsi completamente nel diabolico mondo dell’alta finanza e di raccontare la storia dal punto di vista dell’inavvicinabile personaggio di Gifuni, nonostante il film dimostri comunque un notevole tasso di impegno socio-civile che si arresta in quel solco segnato per un pubblico non troppo pretenzioso ma neppure lassista. Ma ci sono registi che per storia e tradizione hanno una missione: guardare da vicino. E l’oggetto dell’indagine è in questo caso un’America così tronfia e incondizionatamente orgogliosa di sé da non accorgersi di essere claudicante dalla nascita. L’asse si sposta insomma da un’Italia già troppo vituperata e maledetta di suo ad un’America mai paga di adulazioni fuori luogo e degna di una perpetrata invettiva. E il nuovo approccio narrativo, come detto più analitico e pignolo, che non teme nulla e non ostenta paure tematiche reverenziali ma che, sprezzante e politicamente scorretto, esplicita l’inesplicabile, è quello di Martin Scorsese.

“Bello, ma…” e “va bene, però…” sono state le principali e più quotate parole incipitarie di ogni recensione più o meno accreditata. Ma ogni condanna incondizionata nei confronti dell’ultima fatica di Scorsese, The wolf of wall street, è punibile con la fustigazione, poiché l’oggetto delle critiche è quasi sempre corrispondente proprio a ciò che rende grande l’opera. Per carità, soffre anch’essa di lacune (per via, per esempio, di cincischiamenti eccessivi sugli effetti speciali, come nella sequenza della tempesta a mare) ma, piuttosto, le si attribuiscono i difetti più strampalati, quali la presunta durata eccessiva o il fatto che per tre ore il buon vecchio Martin rigiri la stessa minestra nauseabonda. Ma premettendo (come fosse il Verbo, l’ineluttabile e fondamentale testimonianza di fede cinematografica) che non è scritto in nessun codice civile che si debba realizzare un film della durata massima di novanta minuti, deduciamo che la critica cinematografica deve saper contestualizzare e comprendere l’approccio di un regista sui temi trattati. Quest’ultimo aspetto è il più rilevante in quanto l’apparente simpatia nutrita da Scorsese nei confronti del personaggio interpretato da Di Caprio farebbe erroneamente pensare, se non ad un film apologetico, comunque ad un film “ammiccante” riguardo la mostruosità dell’alta finanza. Ma è proprio la durata, con la sua estenuante presentazione di identiche situazioni in ogni scena, a far (s)cadere il personaggio agli occhi dello spettatore. Se fosse dunque durato un’ora e mezza saremmo stati compiaciuti del sistema su cui si indaga nel film. Ma non è questa la sensazione finale che riesce a descrivere un mondo deludente e illusorio, pur mantenendo la narrazione sopra le righe, nient’affatto melensa né tantomeno pateticamente ribaltatasi nel finale. Eh già, nulla sembra cambiare né stupefacentemente sconvolgersi nel mondo selvaggio e cannibalesco della finanza. Nessuno si redime insomma, perché quella sarebbe magari la vera contraddizione, il reale paradosso. Ecco prendere forma l’imperscrutabile e tremendo buco nero (se ne parlava nel primo capitolo) in cui il protagonista entra da broker per vendere prima azioni spicciole a persone spicciole, poi azioni più o meno spicciole a persone più o meno grandi (il che rende la sua attività, come vedremo, antropologicamente più accettabile). Chi vi entra non ne esce più, almeno non completamente. La forza di attrazione che il denaro esercita (magari verso tutto il mondo fatiscente rappresentato, non necessariamente dal punto di vista strettamente pecuniario) sembra surclassare persino le dinamiche e le leggi della gravitazione universale. Certo, qualcuno potrebbe leggere in ciò un’evidente contraddizione visti i 100 milioni di budget di cui il film disponeva. Parlare di speculazioni azionarie con una produzione del genere potrebbe apparire un po’ come inveire contro l’estinzione del cervo rosso il giorno dell’apertura della caccia con un fucile a doppia canna in mano. Ma il cinema di Scorsese va inserito in quell’ambito di codominio tra il cinema di genere (spesso ormai di maxiproduzione) e il cinema autoriale. Convivenza molto più tradizionale e assodata nel cinema americano che non in quello italiano e per noi dunque inaccettabile e incomprensibile. Ma c’è comunque modo e modo di gestire un alto budget e sicuramente Scorsese lo sa fare come pochi, investendo tutto quel denaro per i più nobili dei propositi. Perché è “relativamente facile” attaccare il sistema finanziario di Wall Street dall’esterno, magari dal mondo della cinematografia indipendente. Ma l’audace ostinazione è propria di chi, malgrado lo possa fare, dopo anni e anni di carriera, non prostituisce i propri ideali di impegno cinematografico e riesce a far implodere dall’interno lo stesso sistema che critica, pur godendo dei vantaggi che esso offre. In puro stile americanissimo (dalla sua solita “lucida e geniale frenesia” nelle riprese, nel montaggio e nei dialoghi serratissimi, il tutto sempre ad un ritmo elevato e quasi convulso, fino a quelle interpretazioni così perfette da sembrare paurosamente e maledettamente reali) Scorsese sembra scimmiottare l’America stessa, rendendola una macchietta che brama per ogni tipo di droga(-ossessione): il denaro, che introduce al mondo delle sostanze stupefacenti che introducono al mondo della ninfomania maniacalmente compulsiva. Le miriadi di dollari sbattuti in faccia allo spettatore in ogni sequenza non sono fini a sé stessi, bensì rappresentano un diapason che dà il “la” ad un altro mondo che il denaro è riuscito ad acquistare facilmente. Ma questo nuovo stile di vita (che è un vezzeggiativo definire dissipato), barattato per mezzo del denaro con quello precedente, è, questa volta sì, fine a sé stesso. Oltre il sesso sfrenato, le belle auto e la sperimentazione sui propri corpi-cavia di tanto bizzarre quanto sconclusionate droghe non c’è nulla. Non vi è timore di un collasso economico se non apocalittico (Cosmopolis, di cui tratteremo nel prossimo capitolo) comunque nazionale (Il capitale umano). Tutto è piuttosto filtrato da occhi disincantati, sfrenati, babbioni anche se furbastri, infine fessi, anche se ricchi. E nella sua insensatezza di fondo, nella sua infunzionalità narrativa, questo film svela che proprio tali sono le peculiarità dello stesso mondo descritto, insensatezza e infunzionalità. L’economia nera dei porci grossi dimostra di essere abbordabile persino da semplici arrivisti medio-borghesi da strapazzo, i quali giochicchiano promettendo ai clienti soldi che non esistono se non virtualmente (lo spiega benissimo McConaughey nel fantastico dialogo con un ancora ingenuo Di Caprio), per poi agguantare, loro sì, soldi reali. Ma a tratti sembra trapelare nel film una sorta di relazione empatica verso quel povero broker rimbecillito da un mondo che gli sta un tantino grande. Si arriva dunque a pensare che il personaggio di Di Caprio sia il vero sconfitto (inter pares) del film, al di là del tradimento finale dell’amico. Forse perché il suo personaggio subisce un’evoluzione, per così dire, “socialistica”, tramutandosi da lupo sbranatutti a una sorta di Robin Wood della finanza moderna. Il suo atteggiamento insolente, forgiato su quello del suo mentore interpretato da McConaughey, sembra sfumare a favore dei piccoli risparmiatori e accanirsi contro quegli individui economicamente davvero influenti. Ma tutti i personaggi dimostrano però in maniera indistinta come qualunque persona si voglia arricchire riesca a farlo eludendo il controllo statale. Non perché facilmente eludibile. Non perché fittizio. Perché assente! La vera causa di ogni collasso economico dell’Occidente, sembra tuonare Scorsese, è il fallimento, istituzionalmente parlando, della nozione di Stato, dal momento che prima che quest’ultimo si renda conto della degenerazione acuta provocata da agenzie private o speculazioni varie, la frittata è già bella che servita. Lo spietato laissez-faire mostra di essere andato alla deriva già da tempo in un circuito di “spennamenti” più o meno legittimi ma spesso paradossalmente legali. E si sfiora il paradosso allorquando la beneamata patria permette di spolparsi pure gli ossicini dei poveri risparmiatori e interviene solamente con accuse molto pretestuose di frode fiscale quando si toccano gli intoccabili. E se ne Il capitale umano Gifuni investiva sul tracollo delle azioni, il ruolo dei protagonisti di questo film è venderle. Vendere monnezza insomma. Azioni cioè talmente al ribasso da meritare una dote oratoria degna del miglior logografo dell’antica Grecia al fine di far credere agli investitori che siano invece foriere di proficui guadagni. Ricordate Wanna Marchi, la tizia che raggirava quei poveri disgraziati in tv facendo loro credere di essere marziani sulla Terra? Bene, tutti i brokers del film sono delle Wanna Marchi, delle defecazioni incondizionate, che molto “sofisticamente”, per così dire, convincono povere vittime a fare ciò che non dovrebbero logicamente fare. Persino Di Caprio, dunque, in quest’ottica, merita la dannazione eterna perché consigliere fraudolento e traditore del prossimo, fine dei giochi. Ricco o povero che sia, senza alcuno scrupolo di coscienza. Ecco l’America! “This is the way”, sembra cantare il protagonista del film. “The american way”, diremmo noi. Tutto il resto è solo contorno di radicchio. Dal popper alla mescalina, dalle anfetamine a farmaci psicotropi e paralisiferi, dalla cocaina al “wild sex” (fino ad approdare al “wild sex” con annessa cocaina, che è il massimo!). Tutto atto ad offuscare la madre di tutti i problemi: quella nebulosa che si chiama stato. E nel film l’unica presenza politico-statale è quella fumettistica e caricaturale bandiera a stelle e strisce che il buon Martin è solito ostentare in ogni suo film in funzione naturalmente antifrastica (da quella dell’atavica e già sanguinaria America di Gangs of New York a quella delle metropoli solitarie e schizoidi di Taxi driver). E anche in questo film i personaggi agiscono, si arricchiscono, si strafanno, si tradiscono reciprocamente “in the name of the USA”.

In quest’ottica, dunque, fatta di pugnalate alle spalle e miserrimi sciacallaggi, di spregiudicata lotta per la sopraffazione (enonomica e non solo) e continue competizioni al fine di appurare chi ce l’abbia più lungo, Di Caprio sembra quasi giustificato nell’impiegare parte del suo prezioso tempo in puerili e folli scorribande. Semplicemente si gode come può il denaro che ha strappato di tasca a qualche modesto risparmiatore (secondo legge) o a qualche titano (a questo punto in modo fraudolento). Non fa altro che infliggere all’America continui colpi che questo stato merita e che la sua economia nazionale consente di fare, fine della storia. Ed è giustificato proprio dall’immane quantità di denaro che lo circonda. Perché una volta che lo si ha, sembra volerci dire Scorsese, questa è l’unica opzione che si prende in considerazione: spararseli come fossero birra fresca d’estate. Converrebbe non averli? Sicuramente non averne troppi, se sempre si riuscisse a non divenire schiavi delle lusinghiere sirene dell’universo pecuniario (basterebbe per prima cosa riattaccare il telefono quando un broker qualunque dovesse tentare di propinarci questa o quell’altra azione). Perché il denaro è un treno da prendere in corsa, solo andata. Destinazione buco nero.

Gabriele Santoro

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ALLACCIATE LE CINTURE

 

ALLACCIATE LE CINTURE

 

Gli amori e il tempo. Ma non sono amori qualunque. Quello di Elena (Kasia Smutniak) per Antonio (Francesco Arca) è una passione improvvisa, travolgente e corrisposta. Ma è una passione proibita: Elena sta con Giorgio (Francesco Scianna) mentre Antonio è il nuovo ragazzo della sua migliore amica Silvia (Carolina Crescentini), e in più tra i due sembra non esserci alcuna affinità, né tantomeno stima. Ma l’attrazione tra Elena e Antonio esplode ugualmente, irrazionale, bruciante e contro ogni regola anche a scapito di scompigliare le vite di tutti, amici e parenti. Sono trascorsi 13 anni, Elena è sposata con Antonio, ha due figli e nel frattempo insieme al suo migliore amico Fabio (Filippo Scicchitano) ha realizzato il suo sogno di aprire un locale di successo. Le vite di tutti sembrano realizzate e le antiche turbolenze scomparse. Il nuovo equilibrio subisce però una scossa…

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