QUO VADO?

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Quo Vado, il nuovo film di Checco Zalone, racconta la storia di Checco, un ragazzo che ha realizzato tutti i sogni della sua vita. Voleva vivere con i suoi genitori evitando così una costosa indipendenza e c’è riuscito, voleva essere eternamente fidanzato senza mai affrontare le responsabilità di un matrimonio con relativi figli e ce l’ha fatta, ma soprattutto, sognava da sempre un lavoro sicuro ed è riuscito a ottenere il massimo: un posto fisso nell’ufficio provinciale caccia e pesca. Con questa meravigliosa leggerezza Checco affronta una vita che fa invidia a tutti. Un giorno però tutto cambia. Il governo vara la riforma della pubblica amministrazione che decreta il taglio delle province. Convocato al ministero dalla spietata dirigente Sironi, Checco è messo di fronte a una scelta difficile: lasciare il posto fisso o essere trasferito lontano da casa. Per Checco il posto fisso è sacro e pur di mantenerlo accetta il trasferimento. Per metterlo nelle condizioni di dimettersi, la dottoressa Sironi lo fa girovagare in diverse località italiane a ricoprire i ruoli più improbabili e pericolosi ma Checco resiste eroicamente a tutto. La Sironi esausta rincara la dose e lo trasferisce al Polo Nord…

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RITENTA, SARAI PIU’ FORTUNATO! (su “Inside out” di Pete Docter)

Ipse dixit: <<Non credo stiano elevando il genere ad una forma d’arte. Penso che Batman resti un tizio che corre in giro con uno stupido mantello>>. Per quanto ci si possa sforzare, per quanto si possano avere i migliori propositi realizzativi, un buon regista deve pur sempre fare i conti con dei sanissimi e salvifici stereotipi cinematografici. E se ad illuminarci a riguardo è il miglior regista vivente, ossia David Cronenberg, l’opinione trova un precedente illustre. Il maestro canadese parlava in quella famosa intervista dei cosiddetti cinecomics, vale a dire film tratti da fumetti, smontando nel caso specifico ogni tesi che inneggi ai Batman di Nolan come fossero dei capolavori indiscussi, impregnati di una (solo presunta) nuova forma di autorialità. <<Son sempre fumetti!>>, chioserebbe dunque il dissacrante David.

E approfittiamo della disputa innescata da questa nobile considerazione per parlare oggi di una “pellicola” che tutto il mondo ha osannato, vale a dire Inside out. Piaciuto ai bambini perché disegnato e fotografato brillantemente, ai grandi perché molto più profondo di quegli odiosissimi e diseducativi pupazzi gialli che hanno invaso il mondo. Piaciuto, aggiungiamo noi, perché semplicemente originale. In un’epoca infatti di miserrimo e mediocre appiattimento monodimensionale in ogni ambito artistico, basta un’idea inusuale per stupire, indipendentemente da come essa venga poi strutturata e realizzata. E le aspettative su questo film d’animazione erano delle migliori: un film che indaghi la mente di una ragazzina in un’età delicata come quella prepuberale non è di certo robetta da poco! Ma come spesso accade, le grandi produzioni si cullano sugli allori di un soggetto da urlo per accontentarsi poi di sceneggiature aporetiche. Ed è il caso proprio di questo film, il quale, se dal canto suo propone un’elevazione a statuto analitico e psicologico della classica animazione, frana in delle voragini che inevitabilmente le alte pretese apportano. E se lo si considera come un’elevazione del genere (come si pretendeva che fossero i Batman di Nolan), allora rispetteremo questa etichetta e applicheremo un’analisi metodologica, strutturale e persino filosofica al film.

In primis. Ciò che più fa raggelare durante la visione anche solo superficiale di tale film è la scioltezza apparentemente disincantata nel presentare le varie funzioni cerebrali e le emozioni base come se fosse una descrizione sacrosanta. È come se il film insomma poggiasse sul trono dell’indiscussa verità suprema, solo perché ricco di riferimenti dedotti dalla scienza ufficiale. Inside out appare come una sorta di documentario scientifico romanzato e cartonato, per questo apprezzabile e intrattenente. Ogni sequenza, seppur stilizzata e limata per apparire gradevole o sorprendente, risulta essere una sorta di indottrinamento accademico e didascalico. Ricordate quella collana di videocassette che più di un decennio fa usciva periodicamente in edicola finalizzata ad illustrare come funzionasse il nostro corpo? Bene, Inside out sembra un’appendice di questa collezione, il cui scopo principale è celato sotto le mentite spoglie della formazione di una bambina che non è più tanto bambina. Il tutto imbellettato da una confettura dolcissima e patinata al punto giusto che solo la Pixar sa garantire.

Ma l’intento didascalico non avrebbe nulla di riprovevole dalla sua, se non la sua componente esclusivamente scientifica. O, potremmo aggiungere, positivistica! Perché le dinamiche interne alla mente della povera ragazzina sembrano non lasciare nulla al caso. Movimenti, azioni, parole e reazioni sono il frutto di combinazioni meramente algoritmiche (peraltro quasi mai chiarissime), come fossimo computer, macchine. Già, i rapporti meccanici sono i prediletti per regolare la combinazione di varie dinamiche organiche e le varie relazioni funzionali. Ciò che Cartesio, secoli fa, è riuscito (ahinoi!) ad inculcare nella già lacera cultura occidentale, è oggetto di (ri)valutazione da parte degli Studios americani. Ciò che si critica del film in questa sede non è dunque solamente la trama in sé o la sovrastruttura dettata dalla sceneggiatura, ma le fondamenta culturali, le impostazioni di base, l’orientamento deontologico del regista. In altre parole, come il filosofo francese nel XVII secolo guardava al corpo umano come ad una poco nobile accozzaglia di componenti tra loro strettamente connesse e regolate da rapporti di causa ed effetto, allo stesso modo Pete Docter esclude ogni possibilità di connessione teleologica (orientata cioè da e ai fini umani, in questo caso intellettivi) tra le parti, le emozioni. Ma una tale radicale presa di posizione è mitigata dalla fattura estetica delle emozioni base: esse difatti sono animate e hanno una coscienza, ma non perché si voglia dare un aspetto più intimo e meno dogmatico al film, quanto più perché è un film d’animazione, e i protagonisti devono necessariamente avere una forma, un nome, un verbo; devono essere personificati. Qualcuno obietterà alle nostre posizioni ribattendo che, in alcune sequenze, la ragazzina si emancipa da quell’involucro robotico di latta che sembra ingabbiarla per tutto il film. Ci riferiamo alle scene in cui Allegra e Tristezza vengono catapultate nella labirintica memoria a lungo termine e lì si perdono. Ma analizzando a fondo, anche in quei casi l’”androide” Riley non fa altro che attivarsi o disattivarsi ai comandi delle restanti emozioni base o proseguire nei suoi piani esclusivamente per inerzia, seguendo le istruzioni precedentemente datele.

In seconda battuta, proseguendo sulla falsa riga di quanto dedotto dalla prima analisi, passiamo ad una critica più strettamente extracinematografica. Senza assumere una visione dietrologica e complottistica, diciamo subito che è in corso una campagna mondiale di condizionamento ideologico che passa per il maggior medium di massa, nonché il più pericoloso, cioè Hollywood. Esso prevede di inculcare, sotto le mentite spoglie di generi apparentemente innocui (come i film d’animazione) o di generi nobilissimi (come la fantascienza), una avanguardistica, progressista ma essenzialmente fascista visione dell’uomo. Essa prescinde da ogni forma di provvidenzialismo fideistico, da ogni approccio religioso per approdare ad una (solo presunta) matura condizione superomistica. E il biglietto da visita per raggiungerla è di certo una sconfinata fiducia nella scienza che tutto vede e tutto può. Ciò insomma che per secoli ha rappresentato di volta in volta un infuocante pretesto per confutare ogni tesi di matrice religiosa, diviene oggi la quintessenza del bigottismo scientista, della ben più cieca presunzione dogmatica odierna. Non ci rendiamo conto insomma di parlare come computer programmati, convinti di possedere la verità tra le mani, ma in realtà influenzati e terribilmente condizionati dall’effusione di uno spirito tutt’altro che santo, mediaticamente indotto. L’anticonformismo razionalista diviene all’improvviso semplice divulgazione di massa, appiattito e uniforme. Merito di film apparentemente ininfluenti a livello ideologico, ma invece subdolamente attivissimi. E quale sarebbe il fine di film come questi? Dirigere le masse verso una concezione del corpo automatica, quasi tecnologizzata. Si inizia con l’influenzare tutti sul piano bioetico: se il corpo appare come una macchina, allora si può rimettere a nuovo e riparare come una macchina, sostituendo semplicemente un pezzo con un altro (sia essa chirurgia organica, sia essa chirurgia plastica), dimenticando che una delle proprietà primarie del nostro organismo è quella della relazione finale tra le parti; per arrivare poi alla considerazione finale, nociva: se il corpo funziona e si ripara come una macchina, allora può essere assimilato ad una macchina. Da qui uno spietato proselitismo a favore dell’intelligenza artificiale e della tecnologia in generale, che ne rappresenta l’anima. Immediatamente e quasi inconsciamente, tutto il mondo assume un punto di vista traviato, concependo questa congruenza tra mondo meccanico e mondo organico come un’inevitabile evoluzione dettata dai tempi. E riaffiora alla mente l’immagine del corrotto e manipolato corpo dei protagonisti di Crash, del già citato Cronenberg. E non rappresenta mica uno spocchioso delirio intellettualistico la nostra citazione! Perché film come Inside out, alla lunga, sono funzionali ad abbassare notevolmente la soglia dello stupore nel mondo di oggi. Così che nemmeno i protagonisti di quell’estremo e meraviglioso film del buon David possano più impressionarci o provocarci disgusto, dato l’ingresso a pieno titolo di quei “caratteri” nella cronaca di ogni giorno e nell’immaginario etico collettivo. Corpi perforati, meccanicizzati, lubrificati come giunture di un motore o rattoppati approssimativamente non destano più sconcerto oggigiorno. Perché, anziché essere scongiurato, tutto ciò è paradossalmente divenuto la nuova frontiera dell’esistenza. Tirata per lunghe, eccessivamente. Stirata oscenamente e spremuta come un limone. In quel mortifero connubio tra tecnologia protetica, fascinazione erotica meccanica e… decesso.

L’unica cosa che ci auspichiamo succeda è che nel sequel si parli un tantino di più della povera bambina, anziché delle sue ignobili e “impersonali” funzioni. Si spera dunque che le delicatissime trame della fase puberale cui Riley è approdata siano trattate più umanamente, senza franarci sopra con onnisciente smania dogmatica, e che lo sviluppo delle vicende non sia affidato solamente a comandi incontrovertibili ma anche a dinamiche non rispondenti a logiche stringenti e non così facilmente delucidabili. Si riparta, per realizzare un buon sequel, dall’unica vera nota positiva del film, vale a dire il personaggio di Tristezza, intesa come l’unica reale fonte di ispirazione, di rilancio, di reazione alla balorda vita. Da essa scaturisce il dolore che ci permette, ancor più dell’incondizionata e per questo odiosissima e intollerabile Gioia, di affrontare con determinazione le difficoltà. Da essa scaturiscono persino cultura, acuta intelligenza, dominio di sé e la migliore delle qualità, l’umiltà. Si riparta persino da Rabbia, identificata saggiamente come un surrogato trasfigurato dell’orgoglio. Si riveda, invece, l’emozione base della Paura, troppo approssimativamente ritratta (che rimanda più all’immagine della Codardia).  Sospendiamo dunque, per il momento, il giudizio sul film e il regista, attendendo notizie sulla seconda parte e augurandoci che, ritentando, Pete Docter possa essere più fortunato. Altrimenti ci arrabbiamo!

Detto ciò, voi direte: <<Ma perché accanirsi così tanto e così pedantemente su questo film? È pur sempre un cartone!>>. Esatto, è qui che vi volevo: son sempre cartoni! Ma solo dal punto di vista strettamente artistico. Perché celano in verità (e più di quanto diano a vedere) messaggi massimalisti. Che nemmeno il buon Cronenberg, questa volta, dovrebbe sottovalutare.

Gabriele Santoro

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CARATTERISTI ANONIMI (omaggio a Philip Seymour Hoffman)

Storie dentro altre storie. Storie dietro altre storie. E questo sembra fare il cinema. Raccontare qualcosa e adombrare realtà altre e stranianti, a volte inaspettate. Scatole cinesi insomma, scrutabili fino ad un certo punto e tanto atroci e sconcertanti da non poter essere sfiorate per paura che qualcosa sia svelato sotto il segno dello scalpore. È il tormento del cinema. Ma ne è pure l’estasi, perché sottacere certi aspetti della vita privata di un attore è l’unico modo per credere realmente che quegli individui che interpretano personaggi vari siano solo sagome sfocate e senza personalità alcuna, che si attivano e animano solo dopo un ciak. E noi ci crediamo, crediamo a questa sindrome “bartoniana” alla Bruce Wayne che affligge uomini comuni tanto esanimi e insignificanti da divenire fenomeni da baraccone solo dopo aver indossato una maschera. Ci crediamo, ma fino a prova contraria. Quando la sacrilega cronaca nera, più o meno menzognera, perfora il tessuto artificioso del mondo altrettanto fallace del cinema e si mostra nuda a noi, qualcosa si rompe. Il cortocircuito determinato dai due livelli, fittizio (narrativo e cinematografico) e reale (di vita vissuta), che si sovrappongono più o meno congruentemente, creano un disorientamento di fondo. E chi, sentendo della morte per overdose di Philip Saymour Hoffman, non ha subito pensato al protagonista di quel bel film di Sidney Lumet, Onora il padre e la madre, e a quello di Truman Capote di Bennett Miller, da lui stesso magistralmente interpretati? Realtà e rappresentazione invadono pericolosamente i reciproci domini. “Oltre il giardino” sembra esserci ancora mondo insomma e oltre il cinema Hoffman sembrava avere un’esistenza sorprendentemente troppo simile a quelle di alcune sue indimenticabili interpretazioni. E adesso che siamo entrati ignobilmente nel suo privato, alcuni suoi film si sostituiscono alla realtà per potercene mostrare una che prima non avremmo mai (o quasi) pensato di accostare alla sua persona, così apparentemente esente da vizi più o meno criticabili. L’eroina e l’alcool nella vita di ogni giorno ma anche in quella professionale, in quei film sopra citati. Un metodo Stanislavskij, potremmo azzardarci a dire, a tal punto profondamente e beffardamente applicato. Ma l’informazione non può denigrare l’operato artistico (perché di questo si tratta) del più grande caratterista del mondo. Sottoscriviamo quanto detto. Perché lo era davvero! C’è chi riscopre il buon Lucio Dalla solo dopo la sua dipartita (la nostra generazione per esempio, ma <<meglio tardi che mai!>>, verrebbe da dire) e chi lo ha sempre amato. E Hoffman lo abbiamo sempre amato! Nato, cresciuto e sepolto dal cinema, come i grandi della storia (da Rino Gaetano nella musica al fenomeno Ronaldo nel calcio) ha abbandonato presto la sua “professione”, già  tuttavia foriera di un’eredità sorprendentemente corposa. Da Scent of a woman, per niente offuscato, seppur ancora acerbo, dal veterano Pacino, al ruolo del segretario servile nella commedia che ha spaccato il secolo, Il grande Lebowski, ai tre film capolavoro firmati Anderson, vale a dire Boogie nights, Magnolia e The Master (tanto negligentemente vituperati dalla critica), alla performance nostalgica de La 25esima ora fino a quelle da protagonista nei sopracitati Onora il padre e la madre e Truman Capote. Tutte interpretazioni da canonizzazione. Altro che banalissimo Oscar…! Immagino l’uomo Hoffman, combattuto e afflitto, fare della statuetta, qualora avesse deciso di portarsene una fino a casa, un appendi – cappello. Spesso si crede erroneamente che sia la fama a corrompere gli animi. Magari è invece questione di abissi esistenziali che nemmeno la fama (questo sì) riesce a colmare. Non si tratta di un’apologia del vizio, ma di ammettere che a volte ci sono dinamiche nel mondo dello star-system (o in generale della cronaca nera, seppur privata, comunque pubblicizzata) che non riusciamo a comprendere e che, soprattutto, non abbiamo il diritto di giudicare. <<È il voler giudicare che ci sconfigge>>, diceva Kurtz in Apocalypse Now, in ogni senso. E se da una parte un regista temerario come Cronenberg porta sulla scena cinematografica le latrine hollywoodiane occultate da fasti barocchi, c’è chi invece di questo mondo posticcio da facciata color panna rimane pubblicamente e realmente vittima. Perché magari ingenuamente o sadomasochisticamente in balia di manie autodistruttive chiamate droga o quant’altro. A tal proposito, dunque, vadano rimosse e catapultate in un sacro oblio le interpretazioni sopra citate così pericolosamente attinenti alla sua vita quotidiana e alla cronaca che lo ha definitivamente relegato all’altro mondo. Altrimenti il giochino rischia di interrompersi e il cinema passerebbe da “fabbrica dei sogni” a “latrina degli incubi”. Si ricordi dunque quella sorta di sciamano metropolitano interpretato in The Master. Rimanga impressa quella magnifica sequenza della costrizione nei confronti di un altrettanto strepitoso Joaquin Phoenix di tenere gli occhi aperti fino alla lacrimazione. Ma si dimentichino Truman Capote e Onora il padre e la madre. Piuttosto, riaffiori alla nostra memoria persino la sua leggera ma divertente interpretazione in Alla fine arriva Polly, nei panni di un attore ormai da tutti dimenticato, aggrappato alle glorie del passato, spaccone ma inconcludente. L’unica certezza che abbiamo è che Hoffman, invece, non verrà mai dimenticato come attore. Si renda omaggio dunque ad un professionista che già tanto aveva dato al cinema. Eterno secondo forse e quasi mai protagonista, ma va bene così. Perché nelle poche interpretazioni come attore principale sembrava annichilire titanicamente l’operato di chiunque gli stesse attorno sul set. Un J. Phoenix, un W. H. Macy, un M. Walberg, un C. Cooper, un J. Bridges gli tenevano testa con fatica, sul filo di un rasoio. È stato tutto ed il contrario di tutto nella sua carriera. Si pensa sia quello del cattivo e spietato il ruolo che rende di più per un buon attore. Ma la grandezza di Hoffman risiedeva nell’aver consegnato ad altre tipologie di personaggi uno statuto cinematografico inaspettato, così da ergere un timido e reietto, un filosofo e master postmoderno, uno scrittore autolesionista, un segretario a parassita a titani più di quanto non sia riuscito a fare con il terribile antagonista in Mission Impossible III. È stato un attore ingombrante, vero, talentuoso, istrionico e giustamente spregiudicato. Un attore mai in sordina. Ogni sua battuta era un tuono, anche se a volte marcata, in Italia, dal troppo schiacciante doppiaggio di Pannofino. Bastava la sua mimica facciale per convincere. Come in Magnolia, con un’espressione da ebete stordito cui vengono concesse rivelazioni mistiche, mentre cerca di rintracciare Tom Cruise al telefono. Espressione non da tutti. Espressione che va immortalata con un primo piano fisso (un plauso al regista!).

C’è poi un secondo livello su cui analizzare le carriere degli attori: le loro collaborazioni. E Hoffman ha creato, tra gli altri, un sodalizio con il regista forse più controcorrente della nuova generazione, vale a dire Paul Thomas Anderson. E l’anticonformismo scenico di quest’ultimo, che scruta i personaggi sino all’esasperazione visiva e all’astenuanza riflessiva, sceglie Hoffman come marchio di fabbrica. O forse è stato lui ad aver scelto Anderson. Perché l’immagine dell’attore inteso come figura media, intellettualmente parlando, inerte e inetta, prima donna e puttana facilmente gestibile dal lenone chiamato regista, è solo una vecchia e anacronistica leggenda, o per lo meno non sempre è veritiera. Perché uno come Hoffman sembra aver dimostrato, nella sua breve, travagliata ma brillante carriera, tanta onesta intellettuale e tanta maturità professionale, quasi mai prostituite all’interesse economico che il mercato cinematografico nove volte su dieci propugna. E Anderson aveva di certo scritturato altri personaggi per lui; da destinare, ahinoi, a terzi. Nella speranza che nasca una nuova generazione di attori che, come lui, decideranno di porre il loro talento a servizio della causa. Senza narcisisticamente prevalere, in ogni film, sugli altri interpreti. Perché si può essere protagonisti comunque. E Hoffman lo era, anche con un cameo di dieci minuti.

 Gabriele Santoro

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IL PROFESSOR CENERENTOLO

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Il film racconta la storia di Umberto che per evitare il fallimento della sua disastrata ditta di costruzioni ha tentato insieme ad un dipendente un maldestro colpo in banca che gli ha fruttato però solo quattro anni di carcere! Ma se non altro, nella prigione di una bellissima isola italiana: Ventotene. Adesso Umberto è a fine pena e lavora di giorno nella biblioteca del paese. Una sera, in carcere, durante un dibattito aperto al pubblico, conosce Morgana, una donna affascinante, un po’ folle e un po’ bambina. Morgana crede che lui lavori nel carcere e che non sia un detenuto. Umberto, approfittando dell’equivoco, inizia a frequentarla durante l’orario di lavoro in biblioteca. Ma ogni giorno entro la mezzanotte, proprio come Cenerentola, deve rientrare di corsa nella struttura per evitare che il direttore del carcere (Flavio Insinna) scopra il tutto e gli revochi il permesso di lavoro in esterno.

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NATALE COL BOSS

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Il film racconta la storia di Alex e Dino (Lillo e Greg), due affermati chirurghi plastici abituati a cambiare i connotati dei loro pazienti con pochi e delicati colpi di bisturi. Leo e Cosimo (Paolo Ruffini e Francesco Mandelli) invece sono due maldestri poliziotti sulle tracce di un pericoloso e potente boss di cui nessuno conosce il volto. Alex, Dino, Leo, Cosimo e il Boss inciamperanno l’uno nella vita dell’altro, in una commedia piena di equivoci, colpi di scena e grandi risate, in cui ognuno alla fine cercherà di…salvare la ‘faccia’.

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