CACCIA AL TESORO

 

caccia al tesoro

Caccia al tesoro, la nuova commedia dei fratelli Vanzina, segue le vicende dello sfortunato Domenico Greco (Vincenzo Salemme), attore teatrale sommerso dai debiti, costretto a vivere nell’appartamento della cognata Rosetta (Serena Rossi), vedova di suo fratello e con un figlio di nove anni malato di cuore. Il bambino, in pericolo di vita, potrebbe salvarsi soltanto con una costosa operazione negli Stati Uniti. Per raccogliere i 160 mila euro necessari, madre e zio si inginocchiano di fronte all’altare di San Gennaro alla disperata ricerca di un miracolo. E il miracolo arriva puntuale, sotto forma di “autorizzazione” del patrono, che suggerisce agli attenti fedeli di prendere uno dei gioielli della sua Mitra custodita insieme al famoso Tesoro nella cripta della chiesa. La prodigiosa manifestazione di San Gennaro, apparentemente intervenuto per esaudire la toccante preghiera, è in realtà lo sfogo di un parcheggiatore che rimbomba nella navata. Domenico e Rosetta però confidano nella grazia ricevuta e con l’aiuto di Ferdinando (Carlo Buccirosso), Cesare (Max Tortora) e Claudia (Christiane Filangieri), partono per una Caccia al tesoro che li porterà da Napoli, a Torino, fino a Cannes in Costa Azzurra. Entrano in scena poliziotti, rapinatori professionisti, camorristi e mercanti d’arte, in una girandola di situazioni esilaranti con cifra comica e anche umana nella tradizione della commedia all’italiana.

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LA RAGAZZA NELLA NEBBIA

la ragazza nella nebbia

La ragazza nella nebbia, thriller firmato Donato Carrisi, vanta un cast stellare capitanato da Toni Servillo, al fianco di Jean Reno e Alessio Boni.
Un banco di nebbia fitta avvolge il paese di Avechot, nella piccola valle incuneata tra le Alpi. La nebbia che ha inghiottito le case e le strade si abbatte anche sull’auto dell’agente Vogel: la vettura finisce in un fosso e l’uomo, pur essendo uscito incolume dall’incidente, ha i vestiti ricoperti di sangue. Smarrito, senza ricordi delle ultime ore, Vogel viene seguito da uno psichiatra insieme al quale ripercorre gli ultimi turbolenti mesi della sua vita. Bisogna tornare indietro alla scomparsa della sedicenne Anna Lou, capelli rossi, lentiggini sulle guance: la pista della fuga volontaria si incrocia con quella del rapimento, e la risonanza mediatica assunta dal caso richiede l’intervento dell’agente speciale. Abile nel pilotare l’attenzione di Tv e giornali, il modus operandi di Vogel prevede la “santificazione” della vittima e al contempo la creazione del fantomatico mostro che ne ha spezzato l’esistenza. Il profilo del pacifico professor Martini è perfettamente calzante con la descrizione dell’uomo che Vogel cerca, il colpevole ideale da dare in pasto all’audience. Eppure, ancora troppi interrogativi restano aperti: perché, dopo gli eventi di alcuni mesi prima, Vogel si trova ad Avechot? Qual è la causa dell’incidente? E a chi appartiene il sangue sui suoi vestiti?

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ANCORA TU, MA NON DOVEVAMO VEDERCI PIU’? (Su “Dunkirk” di Nolan)

“Vizi di forma”, parte seconda. Qualche tempo fa ci arrogammo il diritto di sbeffeggiare Sir Christopher Nolan, mettendo alla berlina il suo presuntuosissimo Interstellar. Adesso, uscendo dalla sala dopo aver visto Dunkirk, ci ritroviamo meno intellettualmente minati. Rimane tuttavia ostacolata un’eventuale valutazione assolutamente positiva del film. Ostacolata da una sinistra tendenza, dal parte di Nolan, all’eccesso. Divenuta proverbiale ormai, almeno tra i detrattori del regista.

Dunkirk non è un brutto film, sia chiaro. Già la dotta citazione della prima sequenza, ispirata ad una storica scena di un film dell’ungherese Bela Tarr, conferisce una maggiore connotazione artistica al film. E anzi, spingendoci oltre, ci sentiamo di definire i primi 40 minuti un vero capolavoro del genere.  La messinscena è inoltre senz’altro gradevole, ottemperando ai dettami di quella tanto allettante e proficua ondata di cinema cosiddetto “iperrealistico” che sta coinvolgendo il mondo (la denominazione categorica è quanto mai arbitraria). Ma, se da una parte i vari Garrone e Inaritu si mantengono ancora entro i margini che tale scelta cinematografica impone, c’è chi, dall’altra, non riesce a tenere a freno il proprio piglio virtuosistico. La semplice ostentazione registica diviene, con Nolan, vera e propria smania di eruzioni audio-visive. Vanesio diviene Vesuvio, per intenderci. Ma cosa fa davvero di Nolan Christopher Nolan? La sua peculiarità, spacciata per capacità dell’universo cinema di reinventarsi continuamente, è in realtà degenerazione, scadenza, totale stucchevolezza. Partiamo dal montaggio: in Dunkirk risulta ben lontano dalla maestria mostrata in Memento, dallo stile incalzante e quasi rocambolesco, seppur ancora gradevole, di The Prestige e dei Batman. Nella sua ultima fatica riesce persino a confondere le idee sovrapponendo piani temporali, gettandoli alla rinfusa nella straniante centrifuga temporale che emerge dal film. Potrebbe pure aver un senso contaminare il genere bellico con una conduzione temporale inusuale e originale. Ma in tal caso l’originale si tramuta in totale frastornamento. Lo spettatore, perdendo a fine film ogni cognizione spazio-temporale, non riesce a comprendere cosa nel film avvenga prima e cosa dopo. Le lunghe sequenze e i richiami analettici decentrati richiamano alla mente illustri predecessori, da Lumet a Tarantino. Ma se in questi ultimi casi la visione risulta piacevolissima e la scelta di montaggio appare funzionale alla narrazione, nel caso di Nolan il tutto appare affettato. Forse, verrebbe da pensare, è proprio il genere bellico a non permettere eccessive manipolazioni estetiche e stilistiche. La grammatica cinematografica presenta delle restrizioni, a volte persino marziali, che non consentono estreme libertà di realizzazione. La guerra non può essere trattata con dinamiche thrilleristico-americanistoidi da film ad effetto e aprioristicamente in corsa per l’oscar.

A proposito di quest’ultimo aspetto, verrebbe da applicare un solo aggettivo a questo film: sgrammaticato. Abbiamo analizzato il montaggio, ma non il metodo strettamente narrativo che Nolan decide di portar avanti. E proprio un determinato aspetto di esso determina la nostra negativa valutazione: la colonna sonora. Già, una colonna, che sembra crollare sotto i colpi delle armi da fuoco e dei bombardamenti e seppellirci definitivamente. A memoria d’uomo, infatti, non sovviene un film più inutilmente chiassoso di Dunkirk. Nessuno si permetterebbe di gettare in tal modo benzina sul fuoco, ma Nolan, da marpione qual è, lo fa con la nonchalance tipica dello studente capace ma insolente. Il suo collaboratore musicale prediletto, Hans Zimmer, sembra trovare pane per i propri denti caricando a salve l’intero film, che risulta musicato dalla prima all’ultima scena (non è una considerazione iperbolica, ma la pura realtà: dalla prima all’ultima!). Come abbiamo più volte ribadito in questa sede, Nolan ignora le salvifiche norme del buon cinema e le disattende in modo integrale. Il consueto sviluppo narrativo che caratterizza un film “grammaticato” prevede una graduale scalata verso l’apice narrativo, verso l’acmé, non una rincorsa contro il tempo. Il film preme perennemente sull’acceleratore, inflazionando e svalutando l’idea stessa di azione scenica, che diviene in realtà banale routine. È insomma un continuo svolgimento, senza un cauto esordio o un finale narrativamente risolutivo. Da questo punto di vista il cinema di Nolan sembra rappresentare l’alter ego manierato (ma nemmeno troppo) di un Bay o uno Snyder. Dei peggiori registi del pianeta, per intenderci.

Un piccolo accenno, poi, al finale. Tronfio, terribilmente anglico (e di certo non sassone: il nemico tedesco non si vedrà mai nel film, se non nel finale e fuori fuoco; scelta azzardata, ma, questa sì, particolarmente originale). Per una volta, tuttavia, siamo un tantino lieti di assistere alla lode, seppure sperticata, nei confronti di una vera patria come l’Inghilterra, biasimevole o meno che sia, ma autentica civiltà (in contrapposizione alle apologie filmiche del surrogato culturale a stelle e strisce).

Da quanto detto finora sorge una nostra ultima e forse estrema considerazione: il cinema così tanto osannato di Nolan è lo specchio dei nostri tribolati tempi. In cui ci si avventura in una sfiancante rincorsa all’originalità, in cui il normale è alieno perché banale, e l’alieno diviene originale, ma tremendamente modaiolo. Una regia posata e ligia alle norme grammaticali di cui sopra non può più avere spazio nel cinema contemporaneo, come nella letteratura e nella musica. Ma forse per un’unica ragione: non c’è più nulla da aggiungere all’arte. E proprio per questo ogni postilla va sbraitata, altrimenti non viene recepita affatto. Ma ciò che non si comprende è la vanità di tale operazione: ogni eccesso stilistico (a meno che non si tratti di sinceri tentativi di scuotere lo spettatore) finirà nel dimenticatoio, persino quello. Tanto rumore per nulla, verrebbe da dire.

Gabriele Santoro

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CHI M’HA VISTO?

chi m'ha visto

Tra la parodia e la storia vera, Chi m’ha visto racconta la strampalata vicenda di Martino Piccione (Giuseppe Fiorello), talentuoso musicista pugliese che imbraccia la chitarra per cantanti italiani di fama internazionale ed esegue trascinanti assoli all’ombra dei riflettori. Ossessionato dall’idea di guadagnare il centro del palcoscenico e conquistare la fama che merita, Martino mal sopporta le ironie e le grette provocazioni della gente del paese, nel quale torna alla fine di ogni tour o concerto. D’altra parte lui stesso riconosce che il mondo dello spettacolo è fatto così: non conta quanto vali, conta quanto appari. Grazie all’aiuto dell’incosciente Peppino (Pierfrancesco Favino), un “cowboy di paese” senza troppi fronzoli per la testa, un piano bislacco per attirare l’attenzione dei media prende forma: sfruttando la conformazione del territorio e la scoperta del nascondiglio perfetto, Martino organizza la propria sparizione. Il gesto estremo porterà a conseguenze davvero inaspettate.
Ambientata nella Puglia dei nostri giorni ed ispirata ad una storia vera, la pellicola riflette all’interno di un contesto allegro e spensierato l’amara realtà in cui viviamo: spesso in nome di una esagerata ed effimera apparenza, dimentichiamo la sostanza delle cose.

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