Bund, bot, btp, cct, mib, bull, cac, il “vintage” bond e la new entry spread. La repubblicana logica del “divide et impera” si sgretola di fronte alla dinamica dell’”ipnotizza et impera”, più mediaticamente efficace, più democratica. Persino le strategie del terrore divengono piani di imbambolamento manipolatorio quando la sempre più astuta democrazia occidentale affina le sue tecniche con lo scopo di plasmare cittadini modello. Il tutto attraverso quella Invasione degli ultracorpi che ci viene somministrata come un doping almeno 3 volte al giorno dai tg: l’informazione economica. Ma facciamo un piccolo conteggio. Moltiplichiamo queste 3 volte (il numero delle edizioni quotidiane dei telegiornali) per il numero delle maggiori emittenti televisive (7) in cui l’informazione opera a livello nazionale. Otteniamo 21. Moltiplichiamo infine quest’ultimo numero per la durata media dell’informazione economica in ogni telegiornale, circa 10 minuti. 210. Tale è la minima dose giornaliera a noi destinata per farci sentire parte di qualche sistema economico. Ben 3 ore e 30 minuti esatti. Porco cane, la durata di Ben Hur! E immagino loro, quelle Moire che tessono i fili del potere mediatico. Me li immagino mentre sghignazzano e ci bombardano con ogni servizio mandato in onda, farcito da una confettura ostentatrice di tecnicismi tanto esilaranti quanto arrangiati. E la tv non conosce il giusto mezzo. Perché alle trasmissioni che cercano con pateticità una certa legittimazione popolare e populista (Quinta colonna, Quarto grado, L’arena), noi tutti preferiamo sbavare, vista la mancanza di alternative, davanti a tuttologhi (economisti) dalle sembianze pantheoniche. Ecco il desiderio di ciascuno di noi: vestire i panni dell’esperto Rampini. Senza sapere, però, che dietro l’alone di ieraticità delle sue parole si nasconde una realtà non solo convenzionale ma anche straniante. Eppure è lo stesso Rampini a Pane Quotidiano, programma di rai 3 dell’ora di pranzo, a svelare, molto onestamente, l’inganno secolare. Lo fa dicendo che non possiamo più farci abbindolare con paroloni che solo gli iniziati sono capaci di comprendere e che tuttavia è possibile sventare questo complotto balordo. E oggetto della conversazione, in quella puntata, era l’ultimo film di Paolo Virzì, in programmazione nel nostro cinema due settimane fa, Il capitale umano. Film che pochi si sono filati. E, udite udite, è proprio un bel film. Non è uno di quei film intellettualoidi e cerebrali in cui si spiccica una parola ogni quarantacinque minuti trattando di minoranze etniche o sessuali. È piuttosto ben dosato, anche se a volte soffre di qualche sbavatura a livello tecnico del mai perfetto Virzì. Ma chi se ne frega! Questo è uno di quei film che partono da un’idea forte di fondo, cui va abbinata una certa messinscena. Un’opera insomma che ha un messaggio da veicolare e che trova nel medium cinematografico un’ottima opportunità per farlo. Ma bisogna dire che il più o meno anonimo, fino a questo film, Virzì prova comunque a sublimare la regia, realizzando un montaggio apparentemente originalissimo (per capitoli tra loro “indipendenti”, seguendo ora uno, ora un altro personaggio) che si rivela, in realtà, un tributo ad uno dei più bei film interpretati da Philip Seymour Hoffman, Onora il padre e la madre di Sidney Lumet. E tra una epifonematica citazione di Pulp fiction (“mi casa es tu casa”) e una colonna sonora che richiama quella di American beauty (film cui si allude esplicitamente anche con le riprese iniziali dall’alto sulla strada che conduce alla casa di Bentivoglio), il regista ci mostra un mondo di arrivisti e savonettes sociali che si prostrano di fronte all’altare binomico dedicato alle divinità “carriera” e “denaro”.
Ma andiamo con ordine. Il film è l’adattamento cinematografico di un romanzo dello statunitense Stephen Amidon. Peculiarità che immediatamente balza ai nostri occhi è la nazionalità dello scrittore e del romanzo. E Virzì ha deciso di andare sul velluto ambientando il suo film nella “affascinante e inquietante” Brianza, per usare parole sue. E quale altra location avrebbe potuto scegliere? La Lombardia è la patria economico-finanziaria del nostro tanto unito Paese. E questo a detta di tutti, soprattutto dalle stesse eminenti personalità che ne fanno le veci, politicamente parlando. Detto questo e premesso che dal film non può non emergere che un quadro vomitevole e orrorifico del mondo descritto (soltanto in superficie), di conseguenza i personaggi colpevoli di certi misfatti e tanto stigmatizzati non possono non parlare il dialetto brianzolo. Non è per intenderci, da parte di Virzì, una netta presa di posizione politica (o almeno non completamente) né tantomeno “terronamente reazionaria”, come gli abitanti del luogo gli rimproverano acremente. C’è senza ombra di dubbio una critica più o meno orchestrata nei confronti di un Nord spregiudicato e fin troppo temerario, ma essa sembra concernere più l’ambito della bigotteria esistenziale che quello dell’infamia finanziaria. Tanto per addentrarci nelle trame narrative del film, insomma, la canaglieria primaria dei protagonisti è quella di pretendere dai figli traguardi che questi potrebbero sì ottenere ma che sicuramente sono questioni di lana caprina rispetto a tutto quanto succede attorno a loro. Gli esempi più evidenti sono il rapporto tra la figlia di Bentivoglio e il figlio di Gifuni, desiderato da tutti tranne che dalla diretta interessata, o il mancato premio scolastico del ragazzo, frustrato da un padre che finge di uscire dal guscio balordo in cui si rinchiude solo quando intima alla moglie di andare a parlare con i responsabili dell’assegnazione durante la cerimonia. E il film mostra come a volte i genitori siano i responsabili, più o meno coattivamente, delle scelte professionali dei figli, ma anche come questi ultimi siano in realtà felicemente succubi di una realtà abietta e mediocre che, dal canto suo, non comporta alcun rischio (e qui sta la maturità del regista di non cadere nel topos comune che vedrebbe molto manicheisticamente da una parte vittime e dall’altra carnefici). La condanna sfuma insomma. Ma sfuma a svantaggio di tutti, persino dei ragazzi (a eccezione di un caso, come vedremo). Tutti incapsulati in un desiderio da “maschi alfa” di primeggiare nella giungla delle pretese dell’epoca post-moderna. Epoca di applausi e ghigni di atroci soddisfazioni. Di cerimonie e gran galà. Di ostentazioni di orgogli vari ed eventuali. Di vanagloria per aver generato creature di razza ariana, di inestimabile valore e di cui occultare le cadute indegne. La mistificatoria idea di esserci liberati di un certo nazionalsocialismo ideologico ha permesso che se ne plasmasse un altro, quello vero e inamovibile. E questa sorta di “capitalismo intellettuale” soffre di matrici diverse, tra le quali una spietata globalizzazione, che porta anche qui in Italia pratiche scolastiche a dir poco pacchiane (da college harrypotteriano) e consuetudini quotidiane prettamente anglosassoni al fine di mostrare come ogni ora delle 24 a nostra disposizione possa essere spremuta come un’arancia e che non ci sia spazio alcuno per il fallimento. È chiaro dunque come questo mondo non sia solamente ritratto dell’universo brianzolo e che ogni tentativo gratuito di denigrare il film nei suoi contenuti sia frutto solamente di un pleonastico trastullo a tinte color verde-leghista, che dei valori di cui sopra ne è il massimo pioniere. Ma questo stucchevole mondo da copertina dimostra di non essere affatto vuoto ma pregno di affari, seppur sporchi, che di fatto decidono l’esito delle dinamiche economiche d’Italia e non solo. Ecco giunti alla seconda divinità, il denaro. E Virzì ci fulmina allorquando, durante un dialogo serrato tra Gifuni e Bentivoglio, alla domanda di quest’ultimo sul perché il fondo azionario comune stesse andando in perdita nonostante le azioni stessero salendo, il primo risponde: “Perché noi avevamo puntato sul loro crollo”. Bang. Una mina esplosa d’improvviso, tra le tante parole pronunciate. Roba da rimanere di stucco per ore intere. Una frase facilmente sottovalutabile ma dall’enorme portata storica (almeno per i comuni mortali come noi, ancora facilmente impressionabili). Speculazioni borsistiche già di inizio secolo scorso fanno spazio a vere e proprie “creste” sulle azioni. Avete presente le schedine che si giocano la domenica? Bene: 1, X, 2. Questo sembra essere il facile meccanismo del mondo della finanza. E la sindrome, fino ad ora applicata al solo mondo del calcio, di scommettere sulla sconfitta della propria squadra del cuore sembra incredibilmente invadere anche il mondo della borsa. E ciò appare ancor più sconcertante quando si pensa, dunque, che singoli individui all’interno di aziende di dimensioni più o meno grandi siano capaci di pianificare il fallimento delle stesse dall’interno, perché coinvolti in fondi di in(s)vestimento azionario come questi. Questi tipi ricordano un po’ il Bisbetico domato Celentano nell’omonimo film, il quale segue alla lettera l’invito della Muti a ridere per le sequenze filmiche di cadute e tonfi. Beh, questi grandi finanzieri, proprio come Celentano nel film, godono delle altrui cadute e dei tonfi, ma reali, e ne sono economicamente avvantaggiati. Totale paradosso insomma. Ancor più fattosi carne anche grazie alla totale assenza dell’apparato statale e di un liberismo di fondo esagerato (mascherato da una mediatica oculatezza governativa). Ed ecco come il film alla fine dei giochi mostri come tutto, ma proprio tutto, sia non solo acquistabile ma anche valutabile pecuniariamente. Le vite umane in relazione a decessi vari ed eventuali (stimabili tanto quanto basta per raccattare la discrezione dei familiari delle vittime, facilmente raggirabili). Il silenzio. L’affetto. Persino la possibilità di un valido compagno di squadra nel tennis. O un semplice bacio. E il film termina da commedia amara. Perché verrebbe quasi da ridere guardando quella faccia da pesce lesso di Bentivoglio. Poi però si pensa alla sua povera figlia. Perché tutti i personaggi del film tendono a tradirci e tradirsi davanti allo spettatore. Ma lei no. Anzi, se da una parte Bentivoglio (da povero disgraziato e vittima quale sembra inizialmente, si rivela un “bastardo di razza” ottenendo l’impossibile) e dall’altra la Bruni (da nostalgica alla ricerca della cultura vera con cui colmare il suo vuoto esistenziale tende col tempo ad essere prima fedifraga all’ennesima potenza e poi ad allinearsi e coprirsi alle direttive del marito) si incupiscono, lei invece ci stupisce in positivo. Parole iniziali da adolescente facilotta lasciano spazio a mature opere e omissioni del tutto redimenti. È l’unica possibilità di salvezza in quella cloaca in cui si punisce solo l’ingenuità dello “sfigato” generazionale, consueto capro espiatorio delle colpe sociali. L’unica che ama proprio quest’ultimo e per poco non riesce a tirarlo fuori dai guai, perché lo merita più degli altri, obiettivamente. L’unica che scongiura ogni asservimento nei confronti di una qualche perfezione sui generis esatta dal genitore. Ma tutti gli altri fanno ribrezzo. Oppressi sì, ma da un mondo da loro creato e, in fondo, compiaciuti dello stesso. Infine ciò che risulta più inquietante in questo film è il trattamento riservato al personaggio di Gifuni, la grande e imperturbabile mente malefica del film. Tra i vari episodi vi sono quelli di Bentivoglio, della ragazza, della Bruni, ma non il suo. Il personaggio risulta essere di conseguenza piatto e tragicamente inamovibile, nonostante sia sempre tonico e di corsa. E l’atteggiamento apparentemente rinunciatario o paraculistico di Virzì mostra invece un’insofferenza di fondo alla sola idea di potersi addentrare in quell’edificio squallido e fatiscente che l’alta finanza rappresenta. Lo sfrenato e lassista capitalismo si è tramutato, da stella scoppiettante, in buco nero. E in quanto tale Virzì non può avvicinarvisi. E chi vi è dentro non può più uscirne fuori, proprio come, nel loro piccolo, anche gli altri personaggi del film (tra tutte la Bruni, invischiata nel sistema più di chiunque altro). Ma ci accontentiamo di quanto visto. È già molto di più della solita terminologia televisiva citata nel nostro incipit. In parte difatti si è realizzato con questo film quanto da Rampini auspicato: fare nostra l’economia e il suo lessico. Smascherare le magagne dell’informazione supercazzolistica e guardare da vicino. Ma non esageriamo! Potremmo rimanere affascinati e trascinati dall’irresistibile gravità di quell’ammiccante buco nero. Nonostante i migliori propositi e le nostre tesi moralistiche da chierichetti, potremmo esserne fagocitati pure noi.